sabato 6 dicembre 2025

Costruire decostruendo


Marco Belpoliti
Frank Gehry: addio all’archistar che ha dato una forma al caos contemporaneo
la Repubblica, 6 dicembre 2025

Nessuno meglio di Frank O. Gehry, scomparso ieri a 96 anni, ha interpretato in architettura lo spirito della nostra epoca: caos, disordine, eccesso e sregolatezza. Nessuno ha saputo tradurre come lui tutto questo in una regolarità, in una forma, senza disfare l’ordine della architettura medesima, ma creandone un altro, alternativo. Qualcosa insieme di perturbante, per dirla con Anthony Vidler, e di regolato. Ha potuto farlo attraverso quel grande ordinatore, e insieme disordinatore del nostro mondo attuale, che è il computer. Anche se è vero che le prime costruzioni di questo ebreo canadese naturalizzato americano che si era cambiato il cognome, nascono da fogli di carta accartocciati, ripiegati e spiegazzati, è stato però un programma di progettazione per l’industria aeronautica che gli ha permesso di realizzare forme inedite in cui l’ortogonalità era un ricordo del passato remoto.

Una sorta di Borromini del postmoderno che invece di lavorare sulle figure coniche – l’ellisse – usava invece figure nate da movimenti di frattura e separazione, ma sempre uniti in una continuità spaziale in cui ai pieni e ai vuoti si sostituiva la continuità delle superfici che piegano, ripiegano e dispiegano. La leggenda dice che il giovane architetto, laureato a metà degli anni Cinquanta, avesse usato la propria casa come laboratorio sperimentale. La medesima leggenda ha poi collegato il modo di costruire di Gehry alla città in cui risiedeva, Los Angeles, città sismica e insieme città al quarzo, attraversata da movimenti tellurici con onde e perturbazioni sussultorie.

A differenza dalla capitale postmoderna, quella che Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour avevano teorizzato nel 1972 in Imparare da Las Vegas (Quodlibet), libro che inaugura uno sguardo nuovo sullo sprawl nordamericano, Gehry pensava a un altro ordine. C’è infatti in lui una forma di rigore che si riesce a cogliere nelle sue opere di maggior successo come il Guggenheim Museum di Bilbao, dove il pop si fonde con la potenza di calcolo digitale. Guardando da vari punti di vista quell’edificio che somiglia a un gioco di forme immaginato da un erede di Lewis Carroll, in cui si può smarrire la Alice del Paese delle Meraviglie, si capisce come lo spirito della nostra epoca avesse trovato il suo speciale architetto. C’è nelle opere più azzardate e complesse di Gehry qualcosa che ricorda i giochi infantili, che stimola la fantasia e insieme l’immaginazione, facendo credere che tutto sia possibile solo se si possiedono creatività e adeguati strumenti costruttivi. Ma oltre alla tecnica, vera dominatrice del nostro presente, c’è anche l’eredità del Romanticismo, quello di Rudolf Steiner e dei suoi eredi, perché, per quanto squadernata e aperta verso il fuori, l’architettura di Gehry è rivolta anche verso il dentro, facendo degli spazi interni raccolti e materni. La sua carriera si è svolta non solo in California, ma anche all’estero, a Parigi, ad esempio, dove da Le Corbusier ha appreso molto, sia nel gesto artistico del suo costruire sia per la originalità delle soluzioni. Vissuto in una epoca in cui la filosofia dei manifesti architettonici e artistici aveva lasciato il passo a una sorta di eclettismo, Gehry a partire dal 1978 ha identificato a colpo sicuro uno stile mentale, prima ancora che formale. Come i maestri che l’hanno preceduto nell’architettura europea, è stato un intellettuale e un teorico. Ha lavorato con il ferro, il vetro, il mattone, il legno: tutti materiali usati con libertà e in modo inventivo, eccellendo nelle coperture ondulate che sono divenute un suo segno caratteristico. La lista dei suoi edifici è ampia, dal Walt Disney Concert Hall a Los Angeles al BP Pedestrian Bridge, passando per biblioteche, padiglioni, gallerie, parcheggi, centri congressi.

Gli piaceva far vedere come pensava con le mani, oltre che con il suo raffinato cervello, manifestando un pragmatismo proprio del Paese che l’aveva accolto e compensato con un riconoscimento davvero notevole, tanto da considerarlo uno dei più influenti progettisti contemporanei.

Di lui sono stati innamorati anche i filosofi, che hanno visto nelle sue realizzazioni il farsi realtà di testi teorici scritti dai campioni del cosiddetto “pensiero laterale” come Deleuze e Guattari, o come i decostruzionisti alla Derrida. Il suo merito è quello di aver dato una forma rispettabile alla architettura nel momento della sua massima crisi nell’età del disagio. Bordeggiando quello che Marco Biraghi in un libro recente, Quel che resta dell’architettura (Einaudi), ha definito “l’estetica del consenso”, Gehry ha saputo tradurre in forme il malessere che assedia gli Stati Uniti con una evidente allegria e una vitalità che stava nascosta nei centri di calcolo e nell’anima dei computer, facendola esplodere all’esterno in qualcosa di non ancora visto. Ci mancherà quella sua libertà di pensiero.


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