lunedì 8 dicembre 2025

L'insensatezza del dolore e l'alterità


Lara Ricci
Corpo a corpo con il mostro ibrido

Il sole 24ore, 7 dicembre 2025 

Il mostro ibrido sta al centro del labirinto. È lui, il Minotauro, la bestia vergognosa. Ma per uscire dal labirinto questa volta non serve il volo – l’immaginazione – non serve il filo - la memoria. Vanni Bianconi se ne rende conto quando ormai sta navigando, capitano improvvisato di una delle sessanta imbarcazioni che lo scorso settembre sono salpate per arrivare a Gaza senza arrivarci. Per uscire dal labirinto che «decostruisce e confonde» bisogna «diventare soltanto chi si riesce a diventare, chiunque esso sia, nel presente». Questo presente fatto di specchi contro specchi, da cui pare impossibile uscire; in cui - in realtà - non riusciamo a essere. Essere presenti a noi stessi, vivi, con tutti i sensi all’erta. Il poeta e traduttore ticinese capisce che «ogni passo che adesso ci sta portando verso il pericolo ci porterà anche, se lo ripercorreremo a ritroso, alla salvezza. Ogni passo che adesso ci allontana da chi siamo combacerà con il passo di chi ne uscirà diverso. Se ne usciremo».

Un viaggio iniziatico che narra in Wahoo! Un’odissea al contrario. Un viaggio verso l’assedio, verso il Minotauro, verso la violenza, l’«ipocrisia sistemica», l’indifferenza. Un viaggio per tradurre «ciò per cui non abbiamo parole, il dolore di Gaza» in una «lingua conosciuta». «L’essere umano riesce a soffrire, a patire insieme, fino a qualche grado di prossimità, poi il corpo non capisce e tutto diventa astratto». Per poter provare il dolore dell’altro bisogna mettersi nella sua pelle. Solo specchiandoci in lui possiamo provare ciò che sente. L’empatia è il corpo che risuona della sofferenza altrui, che attiva gli stessi meccanismi che ci fanno percepire il nostro dolore: la conferma scientifica è arrivata sul finire del millennio, con la scoperta dei neuroni specchio. Ma Giacomo Rizzolatti, lo scienziato che li ha individuati, avverte che tale meccanismo innato può essere compromesso dall’educazione, dalla cultura.

Bianconi osserva che percepire quel che prova l’altro è più facile se lo conosciamo: «Non dovrebbe fare la differenza ma la fa». O se, almeno, l’altro è una persona che sentiamo simile a noi. Non sappiamo cosa vuol dire sopportare due anni di assedio, i bombardamenti incessanti, la morte di tante persone care «ma possiamo capire cosa vuol dire rischiare di perdere un figlio, morire in mare, essere messi in ginocchio per ore sotto il sole, se chi lo fa è qualcuno che fino a quel momento ha vissuto più o meno come viviamo noi». Così la flottiglia, fatta di corpi provenienti da tutto il mondo, compreso il nostro, è divenuta un catalizzatore del sentire, ha ridato forma al corpo sociale.

Wahoo! Un’odissea al contrario, uscito meno di due mesi dopo l’intercettazione della Global Sumud flotilla, la missione di pace che cercava di rompere l’assedio di Israele, è un instant book sui generis: non è cronaca né mera testimonianza, la voce è letteraria, il racconto trasfigurato. Lo è già nella prima parte, dove il viaggio, l’arresto, il carcere, il ritorno in Svizzera è raccontato una prima volta, sotto forma di un diario dove il presente è confrontato col mito, lo si guarda riflesso nell’Odissea, l’immagine invertita, da destra a sinistra: il protagonista non torna dall’assedio, va verso l’assedio per trovare casa, la sua casa, una vera casa che accoglie e non tiene prigionieri con un incantesimo. Poi, nella seconda parte, Bianconi il viaggio lo ri-racconta ancora, raggiunta a Londra sua figlia quattordicenne, e la narrazione si carica ulteriormente di metafore, si fa più ossessiva: episodi prima accennati si espandono, danno misura della paura, delle emozioni che si sono infiltrate e diffuse sottopelle, nel «corpo-palco», di nascosto, senza che il mero racconto dei fatti possa rivelarle. Le domande diventano più incalzanti e introspettive. Il viaggio lo racconta un’altra volta nella terza parte, dove torna a casa, a Ambrì. La narrazione si rarefà, si slabbra, sfocia nel sogno. S’immagina un gazawi che cerca casa in un deserto di macerie. Tra un episodio e l’altro, tra un’immagine e l’altra si formano dei filamenti, connessioni da cui pare emergere una nuova comprensione, nell’insensatezza di tutto questo evitabile dolore.

Interessante e straziante anche un altro instant book, scritto - con un coraggio e un’onestà intellettuale impressionante - dall’ostaggio israeliano Eli Sharabi appena dopo il suo rilascio. Straziante non è solo la sua storia: quella di un uomo che ha resistito 491 giorni nei tunnel di Hamas aggrappato alla speranza di rivedere le sue due figlie adolescenti Noiya e Yahel, sua moglie Lianne, la sua famiglia, e che quando gli è finalmente restituita la libertà si trova solo davanti alle lapidi delle sue bambine, di Lianne e del fratello Yossi. Straziante è leggere il racconto delle interazioni con i suoi carcerieri, lui che parla arabo e che pian piano inizia a sviluppare un dialogo, una vicinanza, una comprensione reciproca che lo fa affermare che, in altre circostanze - con un’altra narrazione, con una lingua comune, diciamo noi - lui e alcuni dei suoi carcerieri avrebbero potuto essere buoni amici. Fratelli addirittura. Corpi che risuonano insieme. 

Vanni Bianconi
Wahoo! Un’odissea al contrario
Marcos y Marcos, pagg. 168, € 17

Eli Sharabi
L’ostaggio
Trad. di A. Biagini e A. Russo
Mondadori, pagg. 288, € 12,90

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