Quelli
che seguono sono alcuni brani di una lettera che Bruno Trentin (1926-2007),
segretario generale della Fiom (1962-1977) e poi della Cgil (1988-1994), scrive
in francese alla sorella Franca il 27 novembre del 1957, alcuni giorni dopo la
morte improvvisa di Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), storico leader della Cgil, una delle figure più
affascinanti e carismatiche nella storia della sinistra italiana.
Il documento
fa parte del Fondo Bruno Trentin, custodito presso la Fondazione Di Vittorio di
Roma, ed è inserito all’interno del volume Bruno
Trentin e la sinistra italiana e francese, curato da Sante Cruciani
(Collection de l’École française de Rome, 2012, pp. 465-469).
Trentin
sottolinea prima di tutto il suo personale debito di riconoscenza nei confronti
di un uomo al quale dichiara di dovere molto, non solo dal punto di vista
politico, ma anche da quello umano, pur non negando le reciproche, talvolta
profonde, differenze, per altro plasticamente evidenziate dalla fotografia che
correda questo post.
L’aspetto
della personalità di Di Vittorio che Trentin tiene a sottolineare maggiormente
è l’ansia di essere fino in fondo un uomo del suo tempo, che non vuole essere
tagliato fuori dal processo di sviluppo della società; da qui una sua apertura
alla modernità, anche a quella del sistema capitalistico, se questa si dimostra
in grado di apportare miglioramenti tangibili delle condizioni di vita delle
classi lavoratrici che egli rappresenta, per l’ottenimento dei quali si mostra
disponibile a battersi. In lui, aggiunge Trentin, è sempre stata presente, non
senza contraddizioni, la ricerca dell’elemento positivo che può essere presente
in qualsiasi realtà, piuttosto che la semplice sottolineatura, pur doverosa,
dei limiti e delle storture che questa realtà ha in sé.
A
questo schema mentale sembra proprio ispirarsi il Piano del lavoro, presentato
nel 1949 dalla Cgil da lui guidata, tipico esempio di proposta attenta non solo
a soddisfare le rivendicazioni dei propri iscritti, ma che mostra di avere a
cuore anche le esigenze dello sviluppo economico di tutto il paese. Non è forse
un caso se esso verrà accolto dal gruppo dirigente del Pci con una freddezza ai
limiti dell’ostilità.
Il
fatto che queste considerazioni vengano svolte in una lettera privata,
piuttosto che in una commemorazione ufficiale, contribuisce a renderle
particolarmente autentiche.
Roma, 27 novembre 1957
Mia Franchina,
dopo un lungo silenzio posso
scriverti e tramite te anche a Mario. Quest’ultimo periodo è stato convulso e
sconvolgente, per me. Prima, il Congresso di Lipsia, con tutte le discussioni e
le battaglie che ha comportato. Poi una serie di riunioni e di conferenze in
Italia compresa la commissione elettorale
del partito di cui faccio parte e dove si sono riaperte vecchie ferite
dell’VIII Congresso. (...)
La morte di Di Vittorio ha
rappresentato naturalmente il maggiore elemento di sconvolgimento. Ero a
Napoli, di ritorno da Palermo, quando si è diffusa la notizia. E puoi
immaginare quanto mi abbia colpito.
Tuttora non ho ancora
completamente eliminato la sensazione d’angoscia e di dolore che mi ha
provocato. Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze e quante
volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di
contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha
rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e retorica a parte
semplicemente di uomo. Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo
intellettuale, sempre «provocatorio», come una delle cose più ricche che mi
abbiano trasformato in questi ultimi anni. Qualche volta e in questi ultimi
tempi, spesso questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente
polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a
un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un
metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi
nessun «sistema», in una società o in un uomo, se non avendo fiducia
nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato
l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a
realizzare vittoriosamente «la sua ragione d’essere».
Anche in modo ingenuo, Di
Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana «la ricchezza che poteva
essere prodotta» e che non lo era piuttosto che la «povertà» esistente. Ed era
l’idea della «ricchezza» ad entusiasmarlo.
Per questo non poteva essere un
fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con
accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito
dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava
come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre «al corrente»
delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil, di venir «escluso», di
non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea.
Era d’altro canto uomo di
un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava
straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta
davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ «populistica» e
romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo
del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di
nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di
tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno.
Capisco, ora che è morto, quanto
io l’amassi. Purtroppo non c’è nessuno del suo calibro a sostituirlo, i
migliori hanno un respiro molto più modesto. Gli ultimi giorni sono stati
occupati come puoi immaginare dalle discussioni sulla «successione». Sembra che
sia stata adottata la soluzione migliore: quella di sostituire Di Vittorio non
con un uomo ma con una nuova segreteria, con un collettivo di uomini nuovi,
dopo aver eliminato tutte le «zavorre», tutte le mummie. Se si otterrà questo
risultato, avremo fatto un grande passo in avanti.