Ho passato la prima metà della mia vita di lettore a leggere libri
sulla melanconia, la seconda a scrollarmeli di dosso; perdendone, per
quel che conta, ogni fede nei libri e nelle loro promesse. Oggi li trovo
tutti ricapitolati in uno, L’encre de la mélancolie (Seuil) di
Jean Starobinski. Sono saggi composti nel giro di mezzo secolo, alcuni
un poco rimaneggiati, dalla tesi di dottorato in medicina che
Starobinski presentò nel 1959 all’Università di Losanna a qualche pagina
recente su Baudelaire, Mandelstam e la nostalgia. Non manca nessuno, al
nuovo rendez-vous, dei convitati di quelle mie prime letture: i medici
antichi e i loro umori atrabiliari, gli asceti fiaccati dal demone
meridiano; il furore degli artisti rinascimentali nati sotto Saturno e
la neghittosa erudizione dei trattatisti barocchi; Cervantes e
Shakespeare, Kierkegaard e Benjamin, il black ink e l’umor nero. E
soprattutto quel grande angelo scuro, l’angelaccio sublime e
detestabile dell’incisione di Dürer, il volto recline un poco in ombra,
quasi appollaiato sulla mano, e quell’aria di bambinone annoiato in
mezzo ai troppi balocchi: il compasso e la clessidra, la palla e la
stadera, il quadrato magico e la pietra nera, sotto i raggi di un astro
bianchissimo nel quale legioni di interpreti, chissà per quale
traveggola, si sono illusi di vedere un sole nero.
[...]
Smascherare il prestigio della melanconia, questo si deve; riconoscervi,
il più delle volte, un odioso strumento di distinzione, di orgoglio
spirituale, in ultimo di sopraffazione e di dominio. E farlo non già con
l’ottimismo igienico e artificiale dei futuristi, ma con lo scetticismo
dei moralisti o dei buffoni. Com’è vezzoso, credersi nati sotto
Saturno, scorgere nelle proprie miserie il segno di un’oscura elezione,
affiliarsi a un club di sventurati illustri, agganciare i propri umori a
una genealogia fantastica che annovera Nerval e Piranesi, Rembrandt e
il giovane Goethe. E quanti poseur intellettuali si sono, con il
richiamo all’atrabile, conferiti quarti di nobiltà! Sarebbe da farne
l’inventario, la galleria di ritratti. C’è il tipo del teorico della
decadenza, lo spengleriano che i destini trascinano volente o nolente, [...]. C’è il tardo marxista benjaminiano, a cui la melanconia dona un severo
prestigio anche accademico, che ama atteggiarsi ad archeologo divorziato
dal tempo, rimesta tra le rovine della storia, medita su una
rivoluzione e una redenzione tutte libresche, combina e ricombina
all’infinito come un cabalista sillabe di filosofi tedeschi a cui ha
avuto cura di fare il vuoto attorno, cancellando con un gesto il mondo:
la melanconia cinge il suo esilio come un antico maniero. C’è poi la posa più scoperta, la più arrogante, il melanconico
aforistico che fa strage di illusioni, il truffatore spirituale alla
Emil Cioran, che stagna nei propri risentimenti e nei propri disgusti per farne moneta splendente – e falsa: e se ha fortuna
ne ha in premio, questo misantropo ossessionato dagli altri, di veder
riconosciuta una sovranità tutta mondana sul proprio tempo, il posto in
balconata del Grande Spregiatore.
Ne ha suggerite, quell’angelo, di pose – e di alibi, e di specchi
deformanti. Una disposizione transitoria e finale della Costituzione
dello spirito dovrebbe abolire quest’ultimo titolo nobiliare, la
melanconia usurpata dei letterati e degli intellettuali, e stabilire per
legge che dopo Gérard de Nerval a nessuno più è consentito proclamarsi
Principe d’Aquitania dalla torre abolita.
Articolo uscito sul Foglio il 28 novembre 2012 con il titolo Saturno a favore ovvero come smascherare il prestigio della melanconia
Nessun commento:
Posta un commento