«Al terzo e
al quarto piano della scala di destra si era insediata la direzione del
Pci. Le stanze per gli uffici erano piccole, in quelle che erano state
una volta le cucine erano stati sistemati i ciclostili, nei corridoi si
inciampava in scatoloni di documenti. Si lavorava in un clima di
appassionata confusione, con pochi telefoni che spesso non funzionavano.
Le dattilografe, fra cui mia sorella Simona, indossavano il grembiule
nero, e avevano le dita perennemente sporche di carta carbone, dato che all’epoca non esistevano le fotocopiatrici».
Nel suo
libro postumo di memorie, Una vita quasi due (Rizzoli), Miriam Mafai ha
tratteggiato con la grazia arguta che le era propria il quadro della
direzione del Partito comunista italiano nella Roma della primavera
1945, la Roma della Liberazione. Un vecchio palazzo umbertino al numero
243 di via Nazionale, gli ascensori esterni a gabbia, un paio di studi
professionali e alcuni appartamenti della buona borghesia capitolina. Ma
anche, per l’appunto, la direzione del Pci, la mensa, e una foresteria a
uso dei compagni sopraggiunti dall’Alta Italia, «molti ancora con
l’improbabile divisa partigiana», il fazzoletto rosso al collo…
«Mia sorella
Simona – spiega Miriam Mafai in quella stessa pagina – aveva un
incarico molto delicato: copiava a macchina i Quaderni che Gramsci in
carcere aveva riempito della sua scrittura minuta. Per riconoscere la
grafia era costretta a adoperare spesso una lente di ingrandimento, ma
era molto fiera del compito che le era stato affidato. Lavorava con lei
un’altra ragazza della sua età, bruna, allegra. Si chiamava Milena, ed
era la zia di Massimo D’Alema (che però all’epoca non era ancora nato)».
La pagina vale a restituire il senso di una situazione,
insieme, prosaica ed epica, storica e leggendaria. Un anno dopo il suo
ritorno da Mosca e la svolta di Salerno, è anche sul culto di Antonio
Gramsci che Palmiro Togliatti vuole edificare le fondamenta del «partito
nuovo». E a dispetto di quanto aveva separato, negli anni Trenta, il
prigioniero di Mussolini dal segretario dell’Internazionale comunista, i
quaderni redatti da Gramsci nelle carceri fasciste rappresentano la
reliquia più preziosa del santo. Non per caso il 29 aprile 1945, in un
comizio a Napoli, Togliatti annuncia urbi et orbi l’esistenza
di quei «34 grossi quaderni» coperti di «una scrittura minuta, preziosa,
uguale». Né per caso quel giorno – che è poi lo stesso, a Milano, di
piazzale Loreto – Togliatti mostra al popolo comunista un frammento
della reliquia, un quaderno su 34. «Eccone uno», scandisce dal palco del
Teatro San Carlo. Ecce Quaternum.
Il resto è
storia nota. O piuttosto, è storia che si pensava nota fino a pochissimo
tempo fa. La pubblicazione dei quaderni del carcere presso Einaudi, fra
il 1948 e il ’51, in un’edizione tematica destinata a facilitarne
l’accoglienza e l’influenza. La lunga attesa per l’edizione critica,
pubblicata ancora da Einaudi nel 1975. Poi, a partire dal 2007, l’avvio
di un’edizione che si vorrebbe “definitiva”, nell’ambito dell’edizione
nazionale degli scritti di Gramsci pubblicata dalla Treccani. Finché non
ci si è messo di mezzo, l’anno scorso, uno studioso palermitano. Dopo
avere argomentato le ragioni di una rottura politica fra Gramsci e il
Partito (I due carceri di Gramsci,
Donzelli 2012), Franco Lo Piparo ha sostenuto e sostiene che i
dirigenti del Pci abbiano fatto sparire uno dei 34 quaderni.
Presumibilmente, un quaderno troppo scomodo.
Il nuovo libro di Lo Piparo, L’enigma del Quaderno,
sta facendo chiasso sulle pagine culturali dei giornali. Un filologo
che sa il fatto suo, Luciano Canfora, ne ha sposato la causa dalle
colonne del «Corriere». Dalle colonne di «Repubblica», invece, un
filologo meno riconosciuto, Joseph A. Buttigieg (presidente
dell’International Gramsci Society), ha denunciato la manipolazione di
un cadavere a fini di scoop. In realtà, l’argomentazione di Lo Piparo
non merita di essere liquidata come volgarmente sensazionalistica.
Chiunque legga senza pregiudizio L’enigma del Quaderno
resta colpito dall’acribia di uno studioso che non ha voluto più
guardare unicamente al contenuto degli scritti carcerari di Gramsci: che
ha scelto di guardare – finalmente – anche al contenitore.
Noi non
sappiamo quale sarà l’esito dell’affaire. La Fondazione Istituto Gramsci
ha costituito un gruppo di lavoro che comprende lo
stesso Lo Piparo, e che potrà avanzare nella ricerca della verità. Ma
il merito storiografico dell’indagine di Lo Piparo va salutato fin da
adesso. Perché lo studioso palermitano ha appreso da buoni maestri come
la celebrata «critica delle fonti» sia fatta di scienza paleografica
prima ancora che di scienza filologica. Ecco dunque i Quaderni del
carcere – un monumento intellettuale del Novecento - analizzati
per quanto di rivelatore possono avere la struttura fisica del
supporto, le tonalità di colore dell’inchiostro, le etichette incollate
sulle copertine dei quaderni dopo la morte dell’autore. E proprio
l’analisi di un’etichetta sovrapposta a un’altra produce deduzioni
difficilmente oppugnabili in favore della tesi di un Quaderno mancante.
Sia che Lo Piparo abbia ragione, sia che abbia torto, L’enigma del Quaderno
ci ricorda come all’eredità immateriale di Gramsci corrisponda
un’eredità materiale: la (cartacea) reliquia del santo. Eccoli, i
quaderni del carcere! Per esigenze argomentative, il libro di Lo Piparo
contiene la riproduzione di un buon numero di copertine. E il lettore
non si stanca di osservarle, queste copertine variamente monocrome o
policrome. Per la maggior parte hanno un’asciuttezza scolastica da anni
Venti, non portando che menzioni tipografiche del genere: «Gius. Laterza
& Figli». Ma alcune si caricano di sapori anni Trenta, fra un generico esotismo e una strizzatina d’occhio all’impero fascista prossimo venturo.
Il Quaderno
mancante è stato trafugato, alla maniera in cui si trafugavano nel
Medioevo le reliquie dei santi, oppure è stato distrutto, alla maniera
in cui nel Medioevo distruggevano i Vandali? In un intervento pubblico
del giugno 2012, Massimo D’Alema si è pronunciato – al limite – per la
prima ipotesi piuttosto che per la seconda: «Non me lo vedo un Togliatti
che distrugge un Quaderno, piuttosto lo conserva per un tempo
successivo». Il che gli merita, oggi, la replica di Franco Lo Piparo:
«Bisognerebbe chiedere a D’Alema se la sua dichiarazione fosse il
risultato di un ragionamento, oppure se abbia pescato nella memoria di
qualcosa sentito a Botteghe Oscure».
E se D’Alema
avesse pescato – a suo tempo – nella memoria della zia Milena,
scomparsa una decina d’anni fa? Milena Modesti era la ragazza bruna e
allegra che alla direzione del Pci in via Nazionale, nella Roma del
1945, insieme con Simona Mafai batteva a macchina i quaderni di Gramsci.
Certo, ove si considerino le abitudini di riservatezza di un Pci uscito
da vent’anni di clandestinità antifascista, e le cautele di un
Togliatti sopravvissuto perfino all’abbraccio del Comintem, riesce
difficile anche soltanto immaginare che una dattilografa ventunenne
abbia avuto sentore dell’intrigo del Quaderno. Ma al punto in cui siamo
giunti, perché escluderlo a priori?
Sergio Luzzatto
Il Sole 24 ore, 17 febbraio 2013
Articolo precedente sullo stesso argomento: http://machiave.blogspot.it/2013/02/gramsci-lenigma-del-quaderno-nascosto.html
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