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sabato 16 agosto 2025

Pasolini universale


Alfonso Berardinelli
Pasolini personaggio-poeta

Doppiozero, 16 gennaio 2023

Più di Italo Calvino, di Alberto Moravia, di Elsa Morante, anche se meno tradotto all'estero, nella cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo Pier Paolo Pasolini ha avuto un ruolo di assoluto protagonista. La sua morte prematura ha accresciuto il suo successo e la sua influenza, facendo di lui un mito.

Quando fu assassinato, nel 1975, mentre era in compagnia di un "ragazzo di vita", in circostanze che forse un giorno saranno chiarite, aveva poco più di cinquant'anni ed era in Italia l'intellettuale più controverso e scandaloso. Le sue tesi sulla "mutazione antropologica" degli italiani venivano criticate e denigrate da ogni parte, soprattutto dalla sinistra radicale e marxista.

Nei suoi ultimi articoli e saggi, raccolti in due libri, Scritti corsari Lettere luterane, Pasolini aveva lanciato un disperato allarme: lo sviluppo neocapitalistico, il culto dei consumi di massa o "consumismo" avevano abolito le differenze culturali di classe: proletari e sottoproletari avevano perso identità e coscienza di se stessi. Tutti, anche se di fatto non lo erano, volevano essere classe media, piccola borghesia modernizzata. Diversità durate secoli erano state cancellate nel corso di un decennio. La società italiana si era "omologata" al suo livello medio. Sostituendo il controllo politico, questa unificazione fondata su valori e stili di vita si dimostrava infinitamente più efficace, potente e pervasiva di ogni altra. La stessa cultura di sinistra, anche se marxista e anche se si credeva rivoluzionaria, non si era accorta di questa nuova "dittatura" che non aveva bisogno di un'ideologia di Stato e di un controllo poliziesco per controllare l'intera vita sociale. Era la dittatura fondata sull'identificazione fra sviluppo e progresso, crescita economica, incremento dei consumi e miglioramento della società. Di fronte a questo fenomeno, la critica marxista fondata sul materialismo economico si mostrava, secondo Pasolini, disarmata e cieca.

Ma chi era, che cos'era Pasolini? Forse troppe cose. E questo dava fastidio. Figlio primogenito di una maestra di scuola elementare e di un ufficiale di carriera, Pasolini era nato a Bologna il 5 marzo 1922. Apparteneva socialmente a una piccola borghesia che si sentiva custode di valori morali e a quella generazione, cresciuta sotto il fascismo, che si risvegliò dagli ideali patriottici alla coscienza politica nel corso della guerra 1940-45. In lui la resistenza contro il nazi-fascismo rimase un presupposto primario e incancellabile, dal quale si sviluppò la sua critica alla borghesia "moralmente fascista", alla politica clericale di destra e infine alla società di massa "omologata”.

Autore di poemetti autobiografici e ideologici che a metà degli ani cinquanta erano stati sorprendentemente innovatori per la loro provocatoria discorsività ideologica, Pasolini era anche un narratore: i suoi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta avevano reso famose le periferie sotto-proletarie romane. Come critico letterario era molto attivo e spesso geniale sia per le sue idee che per la sua capacità di penetrazione psicologica e sociale. Giornalista, polemista e saggista politico, con la vocazione e l'istinto di fare scandalo, non aveva mai smesso di intervenire sui più diversi fenomeni culturali e fatti di cronaca. Infine, era un regista di film che sfidavano le abitudini del pubblico e le tradizioni prevalenti del cinema italiano.

Pasolini aveva così prodotto in un paio di decenni un'opera ampia, articolata e aperta a ogni sviluppo. Se non era universalmente apprezzato, la sua presenza sulla scena culturale era stata costante e incisiva. Oltre a essere un autore, Pasolini era un "personaggio" pubblico rivelatore e suscitatore di conflitti, un attore al centro della scena, un produttore, forse eccessivamente prolifico, di stili e di idee. Aveva praticato tutti i generi letterari, anche il teatro in versi, e come regista cinematografico è stato, da Accattone a Salò-Sade, anche più famoso e discusso che come scrittore. Tutto questo faceva di lui l'esempio più vistoso di intellettuale impegnato: un ideologo eretico che metteva se stesso e la sua esperienza personale al centro di ogni discorso pubblico. Si considerava anzitutto un poeta, sebbene un poeta più giovane di lui, Giovanni Raboni, abbia scritto, con arguta malizia, che poeta Pasolini lo era sempre, ma lo era meno quando scriveva poesie. Pasolini aveva però teorizzato la propria lotta contro la prigione dello stile. Le sue poesie si presentavano sempre più esplicitamente come progetti di opere future e appunti per poesie da scrivere.

Sta di fatto che per Pasolini scrivere poesia era la più naturale delle arti, un'attività più o meno quotidiana di cui non poteva fare a meno; una passione originaria e quasi maniacale che gli permetteva un immediato riconoscimento di se stesso: una specie di pratica propiziatoria, devozionale, igienica alla quale non poteva sottrarsi se voleva mantenere o ritrovare la fede in se stesso. Se era certo di essere poeta, poteva diventare qualunque altra cosa: uomo di cinema, critico letterario, ideologo antiborghese e infine, come è accaduto, un improvvisato ma originale sociologo della modernizzazione italiana, da lui sofferta personalmente e letterariamente come la fine improvvisa di un mondo secolare.

La visione che Pasolini aveva del passato italiano, dal Medioevo romanico-gotico, al Seicento barocco, fino alla prima metà del Novecento, era una visione colorata di nostalgia e un mito personale. Un mito che lo aiutò tuttavia a vedere più realtà e più tempestivamente di quanta ne vedessero la sociologia e la politica di sinistra negli anni fra il 1955 e il 1975. Quasi da tutti, dai suoi amici scrittori come dai giornalisti radical-socialisti di «L'Espresso» e da quelli marxisti di «il manifesto», fu accusato di proiettare sulla realtà sociale le sue personali passioni e di essere entrato a far parte di una tradizione antimoderna, antiprogressiva, conservatrice, ciecamente ostile, per pure ragioni estetiche, alla crescita del benessere sociale, alla diffusione della cultura, alla moltiplicazione dei consumi di massa.

Ciò che a distanza di decenni colpisce di più è che la quasi totalità degli intellettuali italiani, accusando Pasolini, ignorasse sbrigativamente la critica della modernizzazione, del progresso borghese e capitalistico che fin dall'Ottocento aveva coinvolto artisti, pensatori liberali, militanti anarchici, populisti o conservatori: da Leopardi a Dickens, da Kierkegaard e Baudelaire a Tolstoj e Nietzsche, per arrivare ai filosofi-sociologi della Scuola di Francoforte.

II

Come poeta Pasolini si identifica con la sua teoria dello "sperimentalismo". Secondo questa idea, la poesia, in un momento storico di crisi e incertezza, è un genere letterario che si dilata e si espande come ricerca e prova sperimentale, rifiutando i miti sia linguistici che tematici. E secondo questa ipotesi che la poetica tardosimbolista ed ermetica viene rifiutata da Pasolini. Nei suoi libri in versi c'è una ibridazione che include di tutto: appunti di diario, giornalismo, discussione ideologica, descrizioni dal vero, interviste, confessioni autobiografiche. Pasolini oppone un Novecento poetico a un altro: oppone Pascoli, Saba, Penna, Bertolucci a D'Annunzio, Ungaretti, Montale. Elabora così una particolare forma di poesia inclusiva: il poemetto costruito per sezioni distinte, usando soprattutto una specie di "endecasillabo ipotetico" che si dilata o si contrae, spesso organizzato in terzine che tendono a diventare più tipografiche che metriche. Fino a contaminare e fondere poesia e prosa. Il suo linguaggio poetico è a metà strada fra impazienza e improvvisazione da un lato e nostalgia di forme classiche dall'altro.

La prima fase della poesia di Pasolini, tanto in dialetto che in lingua, ruota intorno a un centro tematico erotico e funebre: fuoco e gelo, passione e morte che si alternano in sogni di purezza e in "impure" pulsioni adolescenti. È questa una delle più classiche oscillazioni liriche e appartiene alla più antica e persistente delle tradizioni. Ma Pasolini la vive di nuovo nel momento in cui la cita. Conosce bene i suoi modelli e precedenti, Leopardi e Pascoli, Rimbaud, Ramon Jiménez e García Lorca, autori da cui a volte sembra tradurre o trascrivere. Come è stato detto dei veri poeti, Pasolini, più che imitare, ruba.

Quando morì, le opere con cui si era imposto all'attenzione della critica facevano a molti l'impressione di opere "del passato": un'impressione che intellettuali e scrittori che si volevano più moderni e marxisti di lui (come Franco Fortini o Edoardo Sanguineti) aveva contribuito a rafforzare. Quello stile così espansivo e colmo di pathos suonava troppo italiano, troppo legato a sfondi e paesaggi molto peninsulari e quasi di maniera. Il Friuli, le strade di campagna, i greti assolati, le borgate romane dei primi anni Cinquanta. Era, la sua, un'Italia dialettale e rurale, miserabile e derelitta, descritta come in un sogno di innocenza o in un incubo di corruzione. Era proprio questa l'Italia di cui, dagli anni del "miracolo economico" in poi, gli italiani non avevano più voglia di sentir parlare. Il sogno dentro cui abitava Pasolini era sempre più incomunicabile, come il livido crepuscolo di una poesia inedita dei primi anni Cinquanta (Correvo nel crepuscolo fangoso). 

Già un decennio più tardi, più che l'autore di Ragazzi di vita e delle Ceneri di Gramsci, Pasolini era un regista di successo: sempre in viaggio in Africa e in Asia. Uno scrittore che non nascondeva di avere della società italiana e del Partito comunista una visione sentimentale, nostalgica e che poi, nel 1968, avrebbe detto alcune sgradevoli verità morali contro gli studenti in rivolta. Dunque, in lui, nessuna voglia di adeguarsi, di essere moderno. Aveva scritto (in versi che diventavano sempre più delle semplici "frasi tagliate") alcune enfatiche dichiarazioni sulla propria condizione "mostruosa" di individuo che non può più trovare un accordo con la contemporaneità (Io sono una forza del passato).

Dal 1968 al 1975, mentre l'Italia politica e culturale si interrogava sui diversi movimenti studenteschi e operai, sulle possibili "transizioni" e "alternative di sistema", su "Strage di Stato" e possibile golpe di destra, ecco che questo scrittore “del passato” si metteva a discutere affannosamente di fine di un mondo e di una cultura tradizionali, come se la sociologia non avesse già detto tutto in proposito. E osava pubblicare i suoi articoli di denuncia sul «Corriere della sera», massimo organo di stampa della borghesia nazionale: come se non ci fossero già stati innumerevoli dibattiti sulla "manipolazione" dei messaggi e sull'"asservimento al Sistema" di chiunque si esprimesse all'interno dei suoi apparati e canali comunicativi. E non bastava: esibiva se stesso e i propri sentimenti, non esibiva teorie e bibliografie, non faceva appello a organizzazioni politiche. Parlava della propria disperazione come se si trattasse di un fondamentale tema di interesse pubblico.

Pasolini era in anticipo ma sembrava "superato". Era lui il primo a saperlo. Conosceva bene tutte le accuse che gli venivano rivolte. La borghesia italiana e i suoi intellettuali li aveva studiati a fondo. Conosceva per esperienza le accuse dei tribunali e quelle della critica letteraria. Conosceva i metodi della diffamazione giornalistica. Da tutte queste cose era stato assillato per anni. Farsi accettare dalla borghesia di sinistra, dagli intellettuali illuminati e laici, dai probi progressisti, dai comunisti non era stato facile. Era diventato un poeta "civile" proprio per questo. La sua storia era da vent'anni una storia di processi. L'essere processato era da tempo il suo modo di essere: una condizione che lo aveva maturato, mettendo a dura prova le sue risorse e la sua capacità di resistenza. Attirarsi accuse e difendersi dalle accuse; giustificarsi di fronte alla legge; mettere in discussione i fondamenti della legge, chiamare in causa i giudici e la loro morale, leggere nelle loro fisionomie l'odio e il disprezzo verso di lui: omosessuale, comunista e poeta. Tutto ciò aveva contribuito a creare una forma letteraria, uno stile, una strategia argomentativa e retorica. La condizione di imputato era ormai il movente più forte della sua opera. La sua maschera letteraria, la sua scrittura, si era fissata una volta per tutte quando aveva trent'anni: confessione pubblica, difesa e accusa.

III

Nel poemetto Una disperata vitalità il modello formale delle Ceneri di Gramsci viene sottoposto a revisione e questo accelera 'itinerario di Pasolini dalla poesia verso la prosa dei suoi ultimi scritti. Non siamo più in un quartiere popolare, un cimitero seminascosto, con il poeta che vi si aggira malinconico in una torbida, quasi tempestosa sera di maggio, in dialogo con un morto Gramsci, il grande dirigente comunista sconfitto, costretto in carcere nella condizione di filosofo a riflettere sulle ragioni storiche della vittoria fascista. Ora stile e scenario sono cambiati. Il monologo è in presa diretta, la trascrizione del pensiero è immediata, il linguaggio è casuale, quasi gergale, da intervista. L'autore ritrae se stesso cinematograficamente (come in un film di Godard), al volante della sua Alfa Romeo, tra Fiumicino e Roma, «in una macchina che corre per le autostrade / del Neocapitalismo latino - di ritorno dall'aeroporto».

La posizione dell'autore è cambiata e anche il suo rapporto con l'ambiente sociale e fisico. Pasolini ironizza mestamente su se stesso, sulla sua nuova condizione privilegiata che comporta la caduta in una serie di rapporti più veloci e cinici, più sordi e volgari. Il poeta regista si dirige verso l'intervista che lo attende come verso un martirio. Oscilla fra un narcisismo su cui recrimina e una cupa malinconia che trascina con sé macabre fantasie di morte. Non solo per lui "la storia è finita" anche il pensare è superato e degradato dalla fretta ("meditazioni dai sessanta ai centoventi all'ora", guidando un'auto costosa).

È nella sublime autocommiserazione, è nell'orgoglio irremovibile della vittima che Pasolini esprime meglio i suoi messaggi spingendo il lettore a una fraterna complicità o alla ripulsa. I conflitti morali in cui Pasolini trascina il lettore sembrano riguardare anzitutto lui: amarlo o respingerlo. Ma poi si dilatano in giudizio sullo stato dell'intera società e del mondo, in marcia verso un futuro che gli ripugna.

Questo schema si ripeterà fino alla fine. Ogni volta, le argomentazioni di Pasolini chiedono assenso o dissenso. Il suo stile chiede fratellanza e carità. I suoi ragionamenti si svolgono a partire da un dato passionale (la bruttezza dei nuovi giovani, il senso di estraneità al mondo sociale modernizzato) e quindi non possono essere razionalmente confutati: mentre le sue passioni sono a loro volta ideologizzate, sono passioni che non siamo in grado di respingere passionalmente perché contengono idee e giudizi. In questo, la cultura di Pasolini ha ben poco di liberale e di individualistico. Pubblico e privato in lui non si distinguono, tendono a fondersi, o meglio a scambiarsi le parti.

L'opera di Pasolini appartiene all'epoca della letteratura che si autogiustifica lottando contro se stessa e contro la società. Appartiene all'epoca di un impegno che traduce "l'estraneità ontologica" dell'arte moderna alla cultura borghese in una critica morale, estetica, sociale, politica. Ma difendendo la figura del poeta e la funzione pubblica della letteratura, Pasolini difende se stesso e soprattutto la giovinezza di poeta che lui stesso si rimprovera di aver perduto o tradito. Perduta la sua purezza originaria, la poesia può salvarsi soltanto con la verità. Pur di dire la propria verità, Pasolini sente di dover rinunciare allo stile. È questa l'ultima possibilità e metamorfosi della sua poetica sperimentale: l'autodistruzione della forma in nome di una finale rivelazione di realtà. Perciò è come se continuasse a rimproverare i suoi lettori di non aver capito le sue verità sulla distruzione del passato: lui che aveva detto di non essere altro che "una forza del passato", estraneo in un mondo che gli era ormai estraneo.

mercoledì 5 marzo 2025

Cosa resta di Calvino

 




Marco Belpoliti

Ripensare Calvino oltre il cliché della leggerezza
A trent’anni dalla morte le Lezioni americane restano la sua opera meno compresa
La Stampa, 13 settembre 2015

Calvino? Le Lezioni americane. La leggerezza. Il brand dello scrittore, se così si può dire, è saldamente legato a quel libro postumo, all’idea del «togliere peso»; del resto, viviamo da vari decenni dentro il mondo dell’immateriale. E se, invece di lasciarci all’improvviso in quel settembre del 1985, Calvino avesse potuto terminare le sue conferenze a Harvard, scrivendo l’ultima, quella sulla Consistency, dedicata a Bartleby lo scrivano di Melville, quale immagine avremmo di lui? E se la sua idea di autobiografia senza Io, di cui ci resta l’abbozzo de La strada di San Giovanni, fosse stata portata a termine, come lo considereremmo?
Insieme a Pasolini e Primo Levi, Calvino è il più noto scrittore italiano della seconda metà del XX secolo. Certamente è ancora uno dei più letti, se è vero che nelle nostre scuole circola il Sentiero dei nidi di ragno, unico libro sulla Resistenza che i giovani hanno tra le mani, e anche la trilogia dei Nostri antenati che sembra reggere nel tempo, mentre non c’è architetto che non citi Le città invisibili, il suo capolavoro letterario, anche se sovente a sproposito. Non si può fare la storia con i se e con i ma, tuttavia le Lezioni americane hanno prodotto nella vulgata corrente una distorsione nella percezione del lungo, ampio e complesso lavoro di Calvino. Le citazioni prevalenti vanno alla lezione sulla Leggerezza, o al massimo a quella sulla Rapidità, mentre quasi nessuno richiama Visibilità o Molteplicità, ben più complesse, e certamente meno cool.
La lezione mai scritta
Il titolo americano delle Lezioni era più concreto e diretto: Six memos for the next millennium. Più un post it che una Bibbia del futuro. Calvino era intenzionato a riscrivere e sistemare i capitoli dei suoi interventi americani pensando ai lettori italiani. Inoltre, senza la finale lezione sulla «coerenza» (consistenza o compattezza) è difficile dare un senso a quello che viene passato come il suo testamento. A leggere gli apparati che Mario Barenghi ha allestito nel Meridiano dei Saggi, ci si rende facilmente conto che gli autori che Calvino avrebbe citato nella lezione mancante erano tutti personaggi, da Bartleby a Wakefield, che dicevano di no, che scomparivano, sottraendosi ai legami sociali: lavoro, matrimonio, residenza. Decisamente le Lezioni americane non hanno giovato alla comprensione di Calvino, non certo per colpa sua, ma per demerito di molti lettori, anche colti, che l’hanno eletto a profeta della leggerezza, là dove lui era invece il cantore da almeno venti anni del suo contrario: la pesantezza.
La pesantezza
Si è confuso, e si continua a confondere la leggerezza della scrittura di Calvino, frutto di un lavoro incredibile, come testimoniano gli autografi, con l’idea di leggerezza in generale. A partire dal 1968, Calvino ha cercato di contrastare la pesantezza che era entrata nel nostro mondo in modo forse definitivo. La nuova pesantezza, che egli cercava di diradare con l’utopia pulviscolare di Fourier, lascito del suo Sessantotto, gli era apparsa alla fine dei Sessanta più densa e consistente di quella degli anni di ferro del comunismo staliniano; con grande realismo il fantasioso autore del Barone rampante aveva cercato di contrastare la visione cupa subentrata allora mobilitando i suoi personaggi di carta, come il signor Palomar, un Marcovaldo redivivo, con tanto di occhiali, biblioteca di letture e pensieri da scrittore.
Calvino non può essere compreso se non si considera che è stato, oltre che uno scrittore, un intellettuale, il quale pensava il proprio lavoro letterario tarandolo sull’attualità sociale e politica, mediando continuamente tra questa e il suo talento e il suo carattere. Non c’è un libro di Calvino uguale all’altro, per quanto si continui a considerarlo uno scrittore unitario, o al massimo con due movimenti: primo e secondo Calvino. Come Levi, Calvino è un poliedro con tante facce. Certo, la coerenza era uno dei suoi problemi principali, ma non è solo su questo metro che possiamo oggi valutarlo.
Un doppio metro
Cos’è vivo e cosa morto del suo lavoro? Vivissimo è il suo libro d’esordio, Il sentiero, che ha guadagnato con il passare degli anni; anche i libri della Trilogia hanno una loro vitalità, Il barone rampante più di tutti. Le città invisibili sono un libro indecifrabile, misterioso e inafferrabile, che attende ancora i suoi lettori ideali. Meno efficaci sono invece i libri «realisti» come La speculazione edilizia o La giornata di uno scrutatore, per quanto sia uno dei suoi libri che amo di più. La vena favolistica continua a mantenere vive Le cosmicomiche, sebbene meno riuscite di altre parti della sua opera, tuttavia anche questi racconti contengono temi – la biologia ad esempio – che probabilmente torneranno utili in prossimo futuro.
Calvino non è stato solo un letterato; la sua valutazione non va compiuta tenendo conto del valore estetico dei suoi testi, o almeno non solo. Vale per lui, come per Pasolini e Levi, la considerazione su quanto la letteratura illumini aspetti decisivi della nostra esistenza, dalla psiche individuale ai grandi problemi sociali. La sua durata si misura su questo doppio metro.

https://machiave.blogspot.com/2025/02/calvino-la-leggerezza-abusiva.html
https://www.leparoleelecose.it/?p=29398

lunedì 16 dicembre 2024

Il Barone rampante



Umberto Eco, Per Calvino, Doppiozero, 4 aprile 2023

 Nei dieci minuti che ho a disposizione, vorrei parlare del libro di Calvino che amo di più, Il barone rampante, e spiegare perché è rimasto sempre un testo che mi ha accompagnato durante tutta la mia vita, come una sorta di manifesto politico e morale.

Capisco che possa suonare strano parlare di lezioni morali e politiche per un libro che, al momento della sua pubblicazione, portò molti intellettuali impegnati italiani a lamentarsi del fatto che Il visconte dimezzato (uscito sei anni prima) non rappresentasse più una parentesi nel lavoro di un narratore caratterizzato da una vena realista. Con questo nuovo romanzo, Calvino abbandonava definitivamente Il sentiero dei nidi di ragno per una poetica del fantastico muovendosi per mondi possibili, galassie cosmicomiche, città invisibili e traiettorie astrali zenoniane.

Si fa fatica, oggi, a immaginare quanto la sinistra ufficiale italiana fu disturbata dal Barone rampante; è sufficiente ricordare che, nello stesso decennio, Luchino Visconti, che era un intellettuale comunista, osò rivolgersi, con il suo Senso, non a una storia di lavoratori, ma alla passione romantica e decadente di due amanti del XIX secolo, e ne ottenne, in pratica, la scomunica da parte dei difensori del cosiddetto realismo socialista. Vorrei farvi capire perché, per un giovane di venticinque anni – tanti ne avevo quando lessi Il barone rampante nel 1957 – questo libro ebbe un impatto tanto devastante sulla mia nozione di impegno politico, o del ruolo sociale dell’intellettuale.

È superfluo ricordare che il libro mi colpì come uno stupendo lavoro letterario, facendomi sognare quei boschi incantati di Ombrosa, che digradavano superbi verso il mare. Alcuni giorni fa ho riletto il romanzo, ricavandone la stessa sensazione di felicità, ricatturata nuovamente dall’incantesimo di una lingua trasparente, attraverso la quale (e non certo contro la quale) mi pareva di arrampicarmi, in maniera quasi fisica, di ramo in ramo con Cosimo, e diventare poi un rigogolo, uno scoiattolo, un gatto selvatico, un passero, o persino una foglia d’ulivo o di ciliegio.

Quella del Barone rampante è una lingua cristallina, e Calvino (si veda la terza delle sue Lezioni americane) ha detto che il cristallo, con la sua sfaccettatura precisa e la sua capacità di riflettere la luce, era il modello di perfezione che aveva sempre accarezzato, come un simbolo.

Ma nel 1957 la mia reazione principale fu, più che estetica, di natura filosofica – il che non dovrebbe stupire nessuno, dato che ero alle prese non con una fiaba (come molti la considerarono) ma con un grande conte philosophique.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i giovani intellettuali (poco importa se cattolici o comunisti) erano ossessionati dal dovere morale di essere – come si usava dire – “organici” al proprio gruppo ideologico. Davvero, era facile avvertire il ricatto di questa chiamata generale alle armi, al dovere della militanza, di usare il proprio potere intellettuale nella lotta contro i nemici ideologici. Solo due voci si erano levate contro questa concezione del ruolo degli intellettuali. Una, negli anni Quaranta, era stata quella di Elio Vittorini, con il quale Calvino aveva collaborato in gioventù e, più tardi, nel corso degli anni Sessanta, curando insieme “Il menabò”, una rivista che doveva influenzare enormemente il corso della letteratura italiana di quel decennio. Vittorini disse, nel 1947, che gli intellettuali non dovevano suonare il piffero della rivoluzione. Con questo, egli intendeva dire che non dovevano diventare gli agenti di stampa del loro gruppo politico, ma invece incarnarne la coscienza critica. Vittorini, all’epoca, apparteneva al partito comunista e curava una rivista abbastanza indipendente e dalla vita breve, “Il Politecnico”. Ovviamente viene considerato un traditore del proletariato. “Il Politecnico” morì, e l’appello di Vittorini rimase a lungo inascoltato.

Nel 1955, fummo affascinati da un libro di filosofia politica, Politica e cultura di Norberto Bobbio, che disegnava in maniera più rigorosa il profilo di un intellettuale che fa il proprio dovere cercando una verità che non si identifica con la verità ideologica del proprio gruppo. Laddove Vittorini aveva solo lanciato uno slogan, Bobbio sviluppava una severissima argomentazione filosofica. Rispettivamente troppo poco, o troppo, per produrre un’epifania. Questa fu prodotta dal Barone rampante, che aveva il potere persuasivo di una parabola, l’attrattiva profonda del mito, il fascino della fiaba e la forza gentile della poesia.

Calvino ha eliminato dalle prime versioni delle proprie opere certi paragrafi moraleggianti che avrebbero potuto rendere le sue lezioni troppo invadenti. Cosimo Piovasco di Rondò non insegna nulla, almeno, non ai lettori. Si limita a incarnare un esempio. Solo in due punti il romanzo suggerisce una possibile lettura/interpretazione morale. Il primo punto (nel capitolo XX) è quello in cui si dice che Cosimo riteneva che, se si voleva osservare la terra nel modo giusto, bisognava mantenere la giusta distanza da essa. Il che mi rimanda a un’osservazione dalle Lezioni americane: “È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo dei mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello”.  Il secondo punto (nel capitolo XXV) è quello in cui il fratello di Cosimo si domanda, senza trovar risposta, come la passione di Cosimo per gli affari sociali possa essere riconciliata con la sua fuga dalla società.

Cosimo decide di trascorrere la propria intera vita aerea sugli alberi, volando via dal mondo terreno. Ma quegli alberi non sono per lui una torre d’avorio. Dalle loro cime, osserva la realtà, acquistando una saggezza superiore, proprio perché la gente che egli vede gli appare piccolissima, e comprende meglio di chiunque altro i problemi dei poveri esseri umani che hanno la sventura di dover camminare sui propri piedi. Stando sugli alberi, Cosimo è spinto a prendere attivamente parte alla vita sulle proprie terre. Nella sua qualità di aristocratico, condivide i problemi degli emarginati. Trasformandosi in una sorta di dio dispettoso, o di Schelm, non così dissimile dagli animali che gli danno amicizia, nutrimento e vestimento, trasforma la natura in cultura senza distruggerla, e passo dopo passo è spinto a impegnarsi nella vita sociale, non solo nel suo piccolo territorio, ma sull’intera Europa.

Vivendo come un buon selvaggio, si fa uomo dell’Illuminismo, fuggendo dalla società diventa un leader rivoluzionario – ma uno che rimarrà sempre capace di criticare coloro che combattono dalla sua parte, e capace di provare dispiacere e disincanto per gli eccessi dei propri idoli.

Non nel romanzo, ma in un successivo commento degli anni Sessanta, Calvino riconobbe che, per essere un personaggio interessante, Cosimo non sarebbe dovuto essere un misantropo ma piuttosto un uomo coinvolto nei problemi del proprio tempo. E notò che la solitudine e la scomoda soggettività erano la vocazione del poeta, dell’esploratore e del rivoluzionario.

Questo tipo di lezione fu per me fondamentale. Ricordo che  anni dopo, in una di quelle assemblee studentesche ultra-politicizzate del 1968, quando mi fu chiesto di definire il ruolo dell’intellettuale, proposi il romanzo di Calvino come il solo testo affidabile e, citando Cosimo come modello, dissi che il primo dovere dell’intellettuale impegnato era quello di vivere sugli alberi per tenersi a distanza dai propri compagni, per poterli criticare innanzitutto, e non di fornire slogan contro gli avversari – pronto a fronteggiare un plotone di esecuzione per testimoniare che le proprie convinzioni sono vere. A quel tempo non si trattava certamente di una presa di posizione popolare, ma molti degli studenti che mi fischiarono oggi lavorano per Berlusconi, il leader della destra italiana.

Perché la lezione suggerita da questo romanzo fu così convincente per me (e penso, per molti altri in seguito)? Calvino l’ha spiegato, indirettamente, nelle sue Lezioni americane. Le lezioni morali sono, di solito, molto pesanti, e l’unica virtù di coloro che riescono a renderle memorabili è il dono della leggerezza. Aerea come il Barone, la prosa di Calvino non ha peso, è plus vague et plus soluble dans l’air – sans rien en lui qui pèse et qui pose, come avrebbe detto Verlaine. O, per concludere con le parole di Calvino: "Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro”. 

Questo Calvino ha saputo farlo, ed è questa l’eredità che lascia.

Questa conferenza è stata pubblicata in Tra Eco e Calvino. Relazioni rizomatiche, atti del convegno "Eco & Calvino. Rhizomatic Relationships", University of Toronto, 13-14 Aprile 2012, a cura di Rocco Capozzo, EncycloMedia Publishers, Milano 2013.


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domenica 24 febbraio 2013

Ciò che resta dell'intellettuale

David Bidussa recensisce Rino Genovese, Il destino dell'intellettuale, Manifestolibri, Roma 2013

...Consumata la stagione dell'intellettuale che si fa militante, finita la fase dell'intellettuale fiancheggiatore, si ripropone la questione della funzione dell'intellettuale. Intellettuale è colui che è in grado di porre domande non solo scomode "a chiunque", ma prima di tutto alla sua parte, alla parte a cui sente di appartenere e con cui consuma un disagio. E' questo un intellettuale che nel corso del Novecento non ha avuto molto spazio, ma che ha avuto una funzione che oggi ci manca. E' quella figura che in parte è rappresentata dal radicalismo culturale degli anni Dieci e Venti [e] da figure di "irriducibili" come Bertrand Russell, Victor Serge, Hannah Arendt, Leonardo Sciascia. Una dimensione in cui è fondamentale la capacità di essere in solitudine, che si origina non dalla "ortodossia" ma dalla delusione senza, peraltro, cedere al pessimismo. Una condizione che Camus ha perfettamente descritto nel suo Il mito di Sisifo, e dove la propria funzione pubblica è pensata in termini di proposta del dubbio, più che di ricerca del consenso o della claque.

Il Sole 24 ore, 24 febbraio 2013, p. 26.

martedì 12 febbraio 2013

L'intellettuale Joseph Ratzinger

Gesto eccezionale quello del papa. Eccezionale per il ruolo ricoperto dal personaggio, non per il suo significato elementare. Non siamo stati abituati a una figura sacerdotale, che si colloca al vertice della gerarchia e che dà come motivo di una sua grave decisione  lo stato di salute. Lo fa con la solennità e la forza espressiva del latino - "ingravescente aetate" -, ma non fa altro che sottolineare ancor più la transeunte fragilità della sua condizione umana. Sotto le spoglie di Benedetto XVI si è manifestato Joseph Ratzinger e il teologo tedesco "ha detto con semplicità e fermezza che è vecchio e malandato e quindi non si sente più in grado di reggere il governo della Chiesa" (Rusconi).  Già perché il papa può anche smettere di essere papa, ma il cardinale Ratzinger non smette di incarnare la figura del teologo. Che si occupa di cose che a molti possono apparire lontane dalla realtà, e in effetti e in parte lo sono. Ma di quelle cose si è nutrita per secoli la vita dello spirito, da quelle cose ha tratto ispirazione per dare un senso alla vita e alla presenza umane nel mondo. Ecco un'altra realtà che si staglia davanti a noi e che non siamo abituati a considerare. Ieri sera un teologo, ancora uno, in televisione auspicava che il nuovo papa fosse un uomo di Dio. E un giornalista sperava che fosse un uomo di mondo. Un papa può essere l'uno e l'altro; ma è anche, come colui che fece per viltade il gran rifiuto sapeva bene, un uomo di potere. Ora un uomo di potere che riflette e, riflettendo, guarda al destino del mondo o al destino della sua organizzazione in un mondo esposto a grandi mutamenti, non è spettacolo consueto di questi tempi.
Noi pensiamo - siamo stati portati a pensare - che la politica abbia bisogno di persone provenienti dalla società civile. E poi scopriamo spesso che gli esterni non tardano ad acquisire i modi e i vezzi per non dire i vizi propri del Palazzo. Non ci spingeremo fino a sostenere che adesso ci vorrebbe un teologo alla testa del governo. In fondo la teologia al di là del suo oggetto è capacità di riflessione e di elaborazione intellettuale. Virtù la cui mancanza o scarsa presenza si fa crudelmente sentire tra i politici del momento, con rare eccezioni. Il presidente della Repubblica è una di queste. Si può non essere d'accordo con ciò che dice, è tuttavia innegabile che l'uomo non ha smesso di pensare. E forse anche per questo trova più di altri ascolto.
Quando il mondo intorno a noi cambia volto e le forme del nostro vivere sociale sono sottoposte a violenti scossoni, mentre barcollano in rapporto alla realtà le categorie stesse del nostro linguaggio, sarebbe ora di dare spazio alla riflessione. Non saremo salvati da qualche economista di passaggio. Abbiamo bisogno di navigatori solitari dotati di bussola e capaci di stare lunghe ore in silenzio. A che fare? Prima di tutto a governare la barca, certo. Ma anche a riconsiderare se stessi, il modo e il loro rapporto con il mondo. Tutti esercizi propri di quella vita spirituale che ha continuato a illuminare l'esistenza di Joseph Ratzinger il teologo tedesco che si è trovato a fare il papa e non ha smesso per questo di pensare, di riflettere, come dovremmo fare tutti del resto.

Giovanni Carpinelli

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 ...sulle illazioni, finché restano tali, non si può fondare alcun giudizio. Certo la sua rinuncia al soglio supremo fa specie soprattutto in Italia in cui non c'è quasi nessuno capace di rinunciare al più misero seggiolino - forse perché quel seggiolino è la sua unica realtà, è tutto il suo Io, che senza il seggiolino o la seggetta svapora come un cattivo odore, mentre Joseph Ratzinger non è solo un Papa, è - prima ancora - Joseph Ratzinger.

Claudio Magris 
Quando il no serve ad affermare la libertà e la dignità della persona
Corriere della Sera, 13 febbraio 2013