Ingroia, al contrario, porta stampato in faccia un mezzo sorriso
guascone, quasi una parodia strafottente del bel sorriso arabosiculo di
Falcone, e con tutta la buona volontà non si riuscirebbe a prenderlo sul
serio. Basta leggere la bozza di programma di “Rivoluzione civile” per
sentire questa risata serpeggiante, quest’aria di sottile presa per il
culo. Definirlo un programma-patchwork non sarebbe neppure corretto; è
un generico menu a dominante rifondarola assemblato con il criterio dei
“tag”, parole chiave che gettano l’amo a tutte o quasi tutte le famiglie
dell’indignazione italiana: no alla Tav, no alla mafia, no alla guerra,
no al razzismo, no agli ogm, no allo smog. E ovviamente, i due tag del
momento: “beni comuni” (la formula a più bassa densità semantica del
tempo presente) e “femminicidio”. Anzi: “Aborriamo il femminicidio” (gli
altri, a quanto pare, lo caldeggiano).
Non siamo ancora al signoraggio e alle scie chimiche del suo antesignano
e alleato Antonio Di Pietro, che non buttava via nulla pur di radunare
il suo esercito di rosiconi, ma ci si arriverà.
Ma quale che sia lo spartito, la performance è sempre la stessa: lui
parla, argomenta, s’indigna, si accalora e tu proprio non riesci a
sospendere l’incredulità. E capisci che si potrà dibattere di tutto con
Ingroia, ma sarà sempre una gara a chi ride prima.
Il Foglio, 24 gennaio 2013
E' ugualmente tutto da leggere, e sempre di Guido Vitiello, Confessioni civili. Così l'Ingroia ultra politico ha sconfessato l'Ingroia pm, sul Foglio del 2 febbraio. (gc)
Ogni volta che Ingroia apre bocca, ripenso ai versi di Montale: “Le
tue parole iridavano come le scaglie / della triglia moribonda”.
Sissignori, un bel triglione che dibatte la coda sui banchi della
Vucciria, e che sguscia via di mano a chiunque tenti di acciuffarlo.
Sarà per questa qualità iridescente del suo discorso, per questo mobile e
indefinito scintillìo, che mi riesce così difficile riscuotermi
dall’incantesimo e staccargli gli occhi (e le orecchie) di dosso. Ancora
più difficile è raccapezzarsi in quel che dice, e soprattutto in quel
che non dice. L’ars retorica di Ingroia, infatti, è tutta compresa tra
le figure della preterizione e della reticenza, o se si vuole tra il
Figaro mozartiano (“Il resto nol dico, già ognuno lo sa”) e il Peppino
De Filippo della Malafemmena (“E ho detto tutto”). La
mascariatura della Boccassini, condotta con la complicità riluttante di
un morto (“Mi basta sapere cosa pensava di me Borsellino e cosa pensava
di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo”), ne è un caso di scuola.
Non è una caduta di stile: è l’essenza stessa del suo stile.
Non c’è cosa di cui Ingroia parli senza prima aver annunciato che non
ne parlerà; e non c’è merito in cui entri senza prima aver precisato
con mille cerimonie che no, non intende entrarci. E una volta che ci è
entrato, in questo benedetto merito, una volta intrapresa la sua
campagna di conquista nei territori impervi dell’argomentazione, accade
raramente che una sua frase giunga a normale destinazione: qualcuna la
vedi partire come un razzo, ma si smorza a mezz’aria senza esplodere, o
addirittura gli ripiomba in testa; qualcun’altra s’ingolfa come un
cingolato nel deserto. Ne deriva che a trascrivere Ingroia, a mettere
ordine nella sua sonnacchiosa nenia da muezzin, si dovrebbe dar fondo ai
puntini di sospensione.
La tentazione di arrendersi è forte. Il vulcanico Mauro Mellini mi
suggerì tempo fa di compiere una perizia letteraria sugli interrogatori
di Ciancimino jr, raccolti in volume da un piccolo editore siciliano
sotto il titolo Nel nome del padre. Non ci si capisce un
accidente, mi disse pressappoco, ma la cosa prodigiosa è che gli
interlocutori sembrano intendersi a meraviglia: Antonio e Massimino
sprofondano pagina dopo pagina in una palude vischiosa di allusioni a
mezza bocca, di non detti, di ellissi, di domande suggestive e di
risposte suggestionate. Confesso, non me la sono sentita. Ripensando a
Leonardo Sciascia alle prese con la requisitoria del pm Olivares nel
processo Tortora – non solo una lettura faticosa, diceva, ma addirittura
“la più faticosa in cui mi sia imbattuto in più che mezzo secolo di
esercizio” – me n’è passata la voglia: “Le incertezze e i sobbalzi
sintattici dell’oratore; il suo andare e venire dentro gli atti e le
cose ascoltate come dentro una gabbia cercando inutilmente un’uscita; il
suo afferrare un concetto per la coda restando con la sola coda nella
mano”, tutto questo lo avrei ritrovato senz’altro in Ingroia.
Il linguaggio dell’antimafia a volte sa essere più criptico di quello
della mafia (al maxi-processo, scriveva ancora Sciascia, l’unico a
farsi capire era Buscetta). Il caso di Ingroia, però, è speciale. La sua
capitolazione davanti al linguaggio, il fallimento della sua trattativa
con le parole, ha qualcosa di misterioso, perfino di mistico, trova
precedenti solo nello pseudo-Dionigi o in Angelo Silesio: “C’è una
verità indicibile nelle stanze del potere, un potere non conoscibile dai
cittadini che si nasconde”. Tanti sono i topoi del linguaggio mistico
radunati in questa sola frase che, se il libro non si chiamasse Io so, uno potrebbe scambiarlo per l’anonimo medievale della Nube della non conoscenza: basta sostituire il Potere con Dio e i cittadini con i fedeli.
Ma attenzione a non farsi abbagliare dalle iridescenze psichedeliche
della triglia, occorre discernimento degli spiriti. Perché è davvero
sottile il confine tra l’uomo che non dice quel che sa e l’uomo che, più
semplicemente, non sa quel che dice.
Articolo uscito sul Foglio il 2 febbraio 2013
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