sabato 31 gennaio 2015

La fine ingloriosa della ditta

Claudia Mancina














La candidatura di Mattarella al Colle è stata salutata con entusiasmo dalla minoranza Pd, perché segna una rottura, o almeno una sospensione, del patto del Nazareno. Tuttavia questa candidatura segna anche una netta e forse definitiva sconfitta della "ditta". Arriva infatti dopo l'esclusione di tutti gli ex-segretari Ds e più in generale di tutti gli esponenti provenienti da quell'area. Come dire che, finita l'era di Napolitano, che ha portato al Quirinale il meglio della tradizione comunista, non ci saranno più persone di quella provenienza nelle principali posizioni istituzionali. E' un passaggio che merita di essere sottolineato. Guardiamo un attimo indietro. Fino a Renzi, nel centrosinistra era in qualche modo scontato che la leadership appartenesse agli ex-comunisti. Non solo per una questione di numeri; anche per la pretesa di questi di essere loro, e solo loro, i portatori della moderna cultura politica della sinistra. Gli altri gruppi, anche i cattolici democratici (Popolari, poi Margherita), erano guardati con aria di superiorità. Da un lato se ne aveva bisogno per acquistare legittimazione a governare; dall'altro si tenevano fermamente le distanze. Così nel 1996 il Pds non candidò il suo segretario D'Alema, ma il cattolico di sinistra Prodi, dando vita all'esperienza dell'Ulivo. Il Pds però non volle mai farne un nuovo soggetto politico, nel quale le diverse tradizioni del centrosinistra potessero mescolarsi, e si impegnò invece a impedire la crescita dell'Ulivo, per la quale i collegi uninominali della legge Mattarella avrebbero offerto un ideale terreno di coltura. La conseguenza fu l'indebolimento progressivo del governo Prodi e la delusione di moltissimi elettori e simpatizzanti che erano stati attratti dalla novità politica dell'Ulivo. Fu perduta allora un'occasione storica irripetibile. Si rinunciò a costruire qualcosa di nuovo e il maggior partito della sinistra perse credibilità e capacità espansiva. I dirigenti ex-comunisti, che hanno sempre detenuto la leadership effettiva, sono responsabili del fallimento di quella stagione e di tutte le successive sconfitte del centrosinistra. Sono responsabili del deperimento del partito, soffocato dagli antagonismi interni ma anche dall'incapacità di tutti gli ex-comunisti (con l'eccezione di Veltroni, che però non è riuscito a incidere) di avviare una vera trasformazione della cultura politica, che si è sviluppata in modo confuso e contraddittorio, con un tessuto di fondo fatto di sopravvivenze della vecchia cultura comunista e sporadici innesti liberali o blairiani. Certo, non sono mancate anche responsabilità degli ex-democristiani; ma erano gli altri ad avere il volante in mano, e quindi oggi ricade su di loro il giudizio della storia.
L'avvento di Renzi alla segreteria del partito, conquistata con primarie non preconfezionate ma autentiche e combattute, ha segnato la fine della lunga vicenda dell'ex-Pci. Non può stupire che il segretario abbia scelto Mattarella; non solo, crediamo, per un presunto veto di Berlusconi agli ex-segretari, ma per una sua estraneità di fondo a quel gruppo dirigente della "ditta" che somiglia troppo a un nido di vipere. Mattarella non è solo una persona per bene e un politico di fine intelligenza, come sa chi lo ha frequentato. E' anche, tra tutti gli ex-democristiani, il più aperto alla modernizzazione del nostro sistema democratico, in quanto autore della legge elettorale maggioritaria che porta il suo nome e che molti rimpiangono. E' dunque la fine della sinistra ex-comunista? In un certo senso sì. Del resto, le frequenti denunce di mutazioni genetiche del Pd segnalano questo timore; non a caso Renzi viene visto come un alieno, un invasore, e la sua leadership viene continuamente contestata. Ma chi interpreta questo passaggio come una vittoria democristiana si sbaglia. Se ci si pensa, è assurdo che, a otto anni dalla nascita del Pd e a venti dalla nascita dell'Ulivo, ancora si distingua tra comunisti e democristiani. In un nuovo soggetto politico le vecchie identità dovrebbero mescolarsi. Non si dovrebbe più sentire il bisogno di sottolineare le provenienze. Perché quel che conta è dove si sta e dove si va, insieme. La sconfitta di oggi può essere il suggello di una nuova e più felice stagione.

P.S. Auguri Presidente!

Philip Roth intervista Primo Levi





ROTH: Nel Sistema periodico, il tuo libro sul sapore forte e amaro della tua esperienza di chimico, tu parli di una collega, Giulia, che spiega la tua mania di lavorare con il fatto che tu, poco più che ventenne, eri timido con le donne e non avevi una ragazza. Ma credo che sbagliasse. La tua effettiva mania di lavorare ha un'origine più profonda. Il lavoro sembra un tema ossessivo per te, persino nel tuo libro sulla detenzione ad Auschwitz. "Arbeit Macht Frei," il “Lavoro rende liberi”:sono le parole incise dai nazisti all'ingresso di Auschwitz. Ma il lavoro ad Auschwitz è un'orrenda parodia del lavoro, senza scopo e senza senso; è fatica come punizione, che porta a una morte tormentosa. Si può considerare la tua intera fatica letteraria come tesa a restituire al lavoro il suo senso umano, redimendo la parola Arbeit dall'irridente cinismo con il quale i tuoi datori di lavoro di Auschwitz l'avevano sfregiata. Faussone ti dice: "Ogni lavoro che incomincio è come un primo amore". Gli piace parlare del suo lavoro quasi quanto gli piace lavorare. Faussone è l'Uomo Lavoratore, reso realmente libero dalla sua fatica.

LEVI: Non credo che Giulia avesse torto nell'attribuire la mia mania di lavorare alla mia timidezza di allora con le ragazze. Questa timidezza, o inibizione, era un dato di fatto, concreto, doloroso e pesante. A quel tempo, era molto più importante per me che non la passione per il lavoro: del resto, il lavoro nella fabbrica di Milano che ho descritto nel capitolo Fosforo del Sistema periodico era un falso lavoro, in cui io non credevo; la catastrofe dell'armistizio italiano era già nell'aria, e non avrebbe avuto molto senso ignorarla per immergersi in un lavoro fittizio e scientificamente insensato. Non ho mai cercato seriamente di analizzare la mia timidezza sessuale di allora, ma è certo che essa era in buona parte condizionata dalle leggi razziali; anche altri miei amici ebrei ne soffrivano, alcuni nostri compagni di scuola << ariani >> ci deridevano, dicevano che la circoncisione non era altro, in sostanza, che una castrazione, e noi, almeno a livello inconscio, tendevamo a crederci (aiutati in questo dal puritanesimo che dominava nelle nostre famiglie). Di conseguenza, credo che a quel tempo il lavoro fosse effettivamente per me un equivalente sessuale piuttosto che una passione. Tuttavia, per quanto mi riguarda, sono ben consapevole che dopo il Lager il lavoro, anzi, i miei due lavori (la chimica e lo scrivere) hanno avuto, e tuttora hanno, un'importanza fondamentale nella mia vita. Sono convinto che l'uomo normale è biologicamente costruito per un'attività diretta a un fine, e che l'ozio, o il lavoro senza scopo (come l'Arbeit di Auschwitz) provoca sofferenza e atrofia. Nel mio caso, e in quello del mio alter ego Faussone, il lavoro si identifica con il “problem solving,” il risolvere problemi. Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale.
ROTH: Se questo è un uomo si conclude con un capitolo in titolato Storia di dieci giorni, nel quale tu descrivi, in forma di diario, come hai resistito dal 18 al 27 gennaio del 1945 tra un piccolo manipolo di malati e moribondi nell'infermeria improvvisata del campo, dopo la fuga dei nazisti verso Ovest con circa ventimila prigionieri sani. Quel racconto mi suona come la storia di Robinson Crusoe all'inferno, con te, Primo Levi, nei panni di un Crusoe che strappa ciò che gli serve per vivere ai magmatici avanzi di un'isola irriducibilmente spietata . Ciò che mi ha colpito in quel capitolo, come in tutto il libro, è quanto il pensare abbia contribuito a farti sopravvivere, il pensare di una mente pratica, umana, scientifica. La tua non mi pare una sopravvivenza determinata da una animalesca resistenza biologica o da una straordinaria fortuna, ma radicata semmai nel tuo mestiere, nel tuo lavoro, nella tua condizione professionale, nell'uomo della precisione, nell'uomo che verifica esperimenti e cerca il principio dell'ordine, posto di fronte al perverso capovolgimento di tutto ciò che per lui era un valore. Sì il pezzo numerato di una macchina infernale, ma un pezzo numerato con un'intelligenza metodica che deve sempre capire. Ad Auschwitz dici a te stesso: “penso troppo per resistere sono troppo civilizzato.” Ma secondo me l'uomo civilizzato che pensa troppo è inscindibile dal sopravvissuto. Lo scienziato e il superstite sono una cosa sola.
LEVI: Benissimo! Hai colpito nel segno. È proprio vero che, in quei memorabili dieci giorni del gennaio 1945, io mi sono sentito come Robinson Crusoe, ma con una importante differenza. Robinson si era messo al lavoro per la sua individuale sopravvivenza; io ed i miei due compagni francesi eravamo consci, e felici, di lavorare finalmente per uno scopo giusto e umano, quello di salvare le vite dei nostri compagni ammalati. Quanto al perché della sopravvivenza, è una questione che mi sono posto più volte, e che molti mi hanno posto. Insisto: regole generali non ce n'erano, salvo quelle fondamentali di entrare in Lager in buona salute e di capire il tedesco. A parte questo, ho visto sopravvivere persone astute e stupide, coraggiose e vili, pensatori e folli (ad esempio, quell'Elias che ho descritto in Se questo è un uomo). Nel mio caso personale, la fortuna ha avuto un ruolo essenziale in almeno due occasioni: nell'avere incontrato il muratore italiano a cui ho accennato prima, e nell'essermi ammalato una volta sola, ma al momento giusto. Tuttavia, quello che tu dici, e cioè che per me il pensare, l'osservare, è stato un fattore di sopravvivenza, è vero, anche se a mio parere ha prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva. Non so se questo dipenda dalla mia formazione professionale, o da una mia insospettata vitalità, o da un istinto salutare: di fatto, non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un'immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo.

ROTH: In Se questo è un uomo la descrizione e l’analisi del tuo atroce ricordo del gigantesco esperimento biologico e sociale fatto dai tedeschi sono controllate con grande puntualità da un interesse quantitativo per i modi in cui un uomo può venire trasformato o disgregato e può perdere le sue proprietà caratteristiche come una sostanza che si decompone per una reazione chimica. Se questo è un uomo equivale alle memorie di un teorico della biochimica morale che sia stato precettato come organismo campione per essere sottoposto alla più bieca sperimentazione di laboratorio. La persona prigioniera nel laboratorio dello scienziato folle riassume in sullo scienziato razionale. Nella Chiave a stella - che si sarebbe potuta benissimo intitolare Questo è un uomo - tu dici a Faussone tuo Shahrazad operaio che essendo agli occhi del mondo un chimico e sentendomi... il sangue dello scrittore nelle vene come risultato tu hai <due anime in corpo che sono troppe. Direi che c'è un anima sola capace e senza saldature. Che non sono inscindibili soltanto il sopravvissuto e lo scienziato ma anche lo scrittore e lo scienziato

LEVI: Più che una domanda, questa è una diagnosi, che accetto e di cui ti ringrazio. Ho vissuto il Lager nel modo più razionale che potevo, e ho scritto Se questo è un uomo sforzandomi di spiegare agli altri, e a me stesso, i fatti in cui ero stato coinvolto, ma senza precisi intenti letterari. Il mio modello, o se preferisci il mio stile, era quello del weekly report, del rapportino settimanale che si usa fare nelle fabbriche: deve essere conciso, preciso, e scritto in un linguaggio accessibile a tutti i livelli della gerarchia aziendale. Non certo in linguaggio scientifico: del resto, scienziato avrei voluto diventare, ma la guerra e il Lager me lo hanno impedito, e ho dovuto accontentarmi di essere un tecnologo durante tutta la mia vita professionale. Sono d'accordo con te sul fatto che ho <una sola anima senza saldature>, e ancora una volta ti ringrazio. La mia affermazione che <due anime sono troppe> è per metà uno scherzo, ma per l'altra metà allude a cose molto serie. Ho vissuto in fabbrica per quasi trent'anni, e devo ammettere che non c'è contraddizione fra l'essere un chimico e l'essere uno scrittore: c'è anzi un reciproco rinforzo. Ma stare in fabbrica, anzi, dirigere una fabbrica, significa molte altre cose diverse e lontane dalla chimica: assumere e licenziare personale; litigare col padrone, con clienti e con fornitori; far fronte a incidenti, ed essere chiamati al telefono, magari di notte o durante una cena da amici; occuparsi di noiose faccende burocratiche; e tanti altri “soul destroying tasks”, compiti che distruggono l'anima. Tutti questi affari sono brutalmente incompatibili con lo scrivere, che esige una certa pace dell'anima; perciò mi sono sentito veramente nato una seconda volta quando ho raggiunto l'età della pensione e ho potuto dare le mie dimissioni, rinunciando così alla mia anima numero uno.

ROTH: Il seguito di Se questo è un uomo è La tregua. Il tema è il tuo viaggio di ritorno da Auschwitz in Italia. C'è davvero una dimensione mitica in questo tormentato viaggio, specialmente nella storia del tuo lungo periodo di gestazione in Unione Sovietica, in attesa di essere rimpatriato. Ciò che sorprende ne La tregua - che avrebbe potuto, e comprensibilmente, essere stata improntata al lutto, a un inconsolabile disperazione - è l'esuberanza. La tua riconciliazione con la vita si compie in un mondo che a tratti pareva simile al caos primordiale. Eppure tu vi appari straordinariamente interessato a tutto, pronto a ricavare da tutto divertimento e cultura al punto che mi sono domandato se nonostante la fame, il freddo e le ansie, persino nonostante i ricordi, davvero tu abbia mai vissuto mesi migliori di quelli che definisci una parentesi di disponibilità illimitata, un provvidenziale ma irripetibile regalo del destino. Tu sembri una persona la cui esigenza più profonda è innanzi tutto di aver radici - nella professione, nella razza, nel luogo, nella lingua, eppure, quando ti sei trovato più solo e sradicato di quanto si possa essere hai considerato quella condizione un regalo.

LEVI: Un amico, ottimo medico (era fratello di Natalia Ginzburg. conosci i suoi libri ? È una Levi anche lei, ma non mia parente), mi ha detto molti anni fa: “I tuoi ricordi di prima e di dopo sono in bianco e nero; quelli di Auschwitz e del viaggio di ritorno sono in technicolor”. Aveva ragione. La famiglia, la casa e la fabbrica sono cose buone in sé, ma mi hanno privato di qualcosa di cui ancora oggi sento la mancanza, cioè dell’avventura. Il mio destino ha voluto che io trovassi avventura proprio in mezzo al disordine dell'Europa devastata dalla guerra. Tu sei del mestiere, e sai come vanno queste cose. La tregua è stato scritto quattordici anni dopo Se questo è un uomo; è un libro più consapevole, più letterario, e molto più profondamente elaborato, anche come linguaggio. Racconta cose vere, ma filtrate. E stato preceduto da innumerevoli versioni verbali: intendo dire, ogni avventura era stata da me raccontata molte volte a persone di cultura diversa (spesso a ragazzi delle scuole medie), e aggiustata a poco a poco in modo da provocare le reazioni più favorevoli. Quando Se questo è un uomo ha cominciato ad avere successo, e io ho cominciato a intravedere per me un futuro come scrittore, mi sono accinto alla stesura. Volevo divertirmi scrivendo, e divertire i miei futuri lettori; perciò ho dato enfasi agli episodi più strani, più esotici, più allegri: soprattutto, ai russi visti da vicino. Ho relegato all'inizio e alla fine del libro i tratti, come tu dici, di lutto e di disperazione inconsolabile. A proposito del radicamento, della “rootedness”: è vero che io ho radici profonde, e che ho avuto la fortuna di non esserne stato privato: la mia famiglia è stata in buona parte risparmiata dalla strage, e oggi io continuo ad abitare addirittura nell'alloggio dove sono nato. La scrivania su cui scrivo sta esattamente nel luogo in cui, secondo la leggenda, sono stato partorito. Perciò, quando mi sono trovato sradicato quanto più non si potrebbe, ho certo provato sofferenza; ma questa è stata compensata dal fascino dell'avventura, dagli incontri umani, dalla dolcezza della “convalescenza” dal morbo di Auschwitz. La mia “tregua” russa, nella sua realtà storica, ha cominciato ad apparirmi come un dono solo molti anni dopo, quando l'ho depurata rivivendola e scrivendola.

ROTH: Se non ora, quando? è diverso da tutto ciò che ho letto di tuo. Pur essendo puntualmente tratto da reali eventi storici, il libro è presentato come un puro racconto picaresco delle avventure di un piccolo gruppo di partigiani ebrei di origine russa e polacca, che tendono imboscate ai tedeschi dietro le loro linee sul fronte orientale. Gli altri tuoi libri hanno forse trame meno <fantasiose, ma mi hanno colpito per una maggiore fantasia sul piano tecnico. L'impulso creativo che sta alle spalle di Se non ora, quando? dà l'impressione di essere più limitato, più parziale - e quindi meno liberatorio per lo scrittore - di quelli che hanno dato vita alle opere autobiografiche. Mi domando se tu concordi su questo: se scrivendo dell'audacia degli ebrei che si ribellarono, tu abbia sentito di fare un qualcosa che bisognava fare, se ti sentissi responsabile di una rivendicazione politica e morale che non poteva comparire altrove, anche quando il tema è il tuo destino, inconfondibilmente ebraico.

LEVI: Se non ora, quando? è un libro che ha avuto un destino imprevisto. I motivi che mi hanno spinto a scriverlo sono diversi: li enumero qui per ordine di importanza. Avevo fatto una specie di scommessa con me stesso: dopo tanta autobiografia aperta o mascherata, sei o non sei uno scrittore a pieno titolo, capace di costruire un romanzo, di creare personaggi, di descrivere ambienti in cui non sei stato ? Mettiti alla prova ! Volevo divertirmi a scrivere un “western” ambientato in uno scenario poco comune; volevo divertire i miei lettori raccontando loro una storia sostanzialmente ottimistica, piena di speranza, a tratti allegra, anche se sullo sfondo della strage. Volevo rompere un luogo comune ancora prevalente in Italia: un ebreo è un mite, uno studioso (pio o laico), una persona ribelle, umiliata che ha subìto secoli di persecuzioni senza mai ribellarsi. Mi sembrava doveroso rendere omaggio a quegli ebrei che in condizioni disperate avevano trovato la forza e l'intelligenza di resistere ai nazisti. Nutrivo anche l'ambizione di essere il primo scrittore italiano a descrivere il mondo yiddish; volevo insomma “utilizzare” la mia popolarità in Italia per far giungere fra le mani di molti lettori un libro che avesse come soggetto la cultura, la lingua, la mentalità e la storia, dell'ebraismo ashkenazita, che in Italia è virtualmente sconosciuta. Questi motivi sono stati riconosciuti come validi in misura diversa nei diversi paesi in cui il libro è stato pubblicato. In Italia esso ha avuto pieno successo, sotto tutti i suoi aspetti. Lo stesso si può dire per l'Inghilterra e la Germania, almeno a giudicare dalle prime reazioni del pubblico e della critica. In Francia è passato sostanzialmente inosservato. Negli Stati Uniti, come sai, ha avuto un successo moderato: la sua Yiddishkeit è stata giudicata risaputa; un soggetto insomma troppo noto perché ancora se ne parli. Inoltre, il lettore americano si è accorto di un fatto vero, che cioè si tratta di un libro “yid” scritto da un autore che “yid” non è, ma che ha cercato di diventarlo studiando testi e ascoltando racconti. Personalmente io sono soddisfatto di questo libro, soprattutto perché mi sono divertito molto nel progettarlo e nello scriverlo. Per la prima e unica volta nella mia carriera di scrittore, ho avuto l'impressione (quasi un'allucinazione) che i miei personaggi fossero vivi, mi stessero intorno, e mi suggerissero loro stessi le loro avventure e i loro dialoghi. L'anno che ho impiegato a scriverlo è stato un anno felice; perciò, indipendentemente dal risultato, per me questo libro è stato liberatorio.

ROTH: Parliamo ora della fabbrica di vernici. Oggigiorno molti scrittori hanno fatto gli insegnanti, altri i giornalisti, e la maggior parte degli scrittori sopra i 50 anni hanno prestato servizio militare; per questo o quel paese. C'è un elenco impressionante di scrittori che hanno esercitato la medicina e contemporaneamente fatto libri, e altri che sono stati uomini di chiesa. T. S. Eliot era editore, e, come noto, Wallace Stevens e Franz Kafka lavoravano per grandi società assicurative. Che io sappia, solo due scrittori di rango sono stati dirigenti di una fabbrica di vernici: tu a Torino, in Italia, e Sherwood Anderson a Elyria, nell'Ohio. Anderson dovette abbandonare la fabbrica di vernici (e la famiglia) per diventare scrittore; sembra invece che tu sia diventato lo scrittore che sei oggi rimanendovi, e continuandovi la tua carriera. Mi domando se ti consideri addirittura più fortunato - e magari più agguerrito per scrivere - di quanti tra noi non hanno alle spalle una fabbrica di vernici e tutto quanto comporta quel tipo di contesto.

LEVI: Sono approdato all'industria delle vernici per puro caso. Mi sono occupato piuttosto poco di vernici propriamente dette: la nostra fabbrica, fin dai primi anni, si è specializzata nella produzione di smalti isolanti per conduttori elettrici di rame. A quel tempo contavo fra i trenta o quaranta specialisti del mondo in questo ramo: di filo smaltato sono fatti gli animali che hai visto nel mio studio. Onestamente non conoscevo il nome di S. Anderson. Ho letto ieri una sua breve biografia: no, a me non sarebbe mai venuto in mente di abbandonare la famiglia e la fabbrica per mettermi a fare lo scrittore a tempo pieno come ha fatto lui; avrei avuto paura del salto nel buio, ed oltre tutto avrei perso il diritto alla pensione. Al tuo breve elenco di scrittori verniciai devo però aggiungere un terzo nome, quello di Italo Svevo (1861 1928), ebreo triestino convertito al cattolicesimo: Svevo fu direttore commerciale di una fabbrica di vernici di Trieste, la Società Veneziani, che apparteneva a suo suocero e che si è sciolta pochi anni fa. Fino al 1918 Trieste apparteneva all'Austria, e questa Società era famosa perché forniva alla Marina austriaca una eccellente vernice antivegetativa per le carene delle navi da guerra; dopo il 1918 Trieste divenne italiana, e la vernice venne fornita alla Marina italiana e a quella inglese. Per trattare con la British Admiralty Svevo prese lezioni d'inglese da James Joyce, che a quel tempo insegnava a Trieste; Joyce divenne amico di Svevo, e lo aiutò nella pubblicazione delle sue opere. La vernice accennata si chiamava Moravia. La coincidenza con lo pseudonimo del noto scrittore italiano non è casuale: sia l'industriale triestino, sia lo scrittore romano ricavarono questo nome dal cognome di una loro comune parente dal lato di madre. Scusami per questo pettegolezzo che forse è poco pertinente. Sì, come accennavo prima, non ho rimpianti. Non credo di aver sprecato il mio tempo dirigendo una fabbrica (di vernici o di qualsiasi altra roba): ho acquistato altre esperienze preziose, che si sono addizionate e combinate con quelle di “Auschwitz.” 

  New York Times Book Review. October 12 (1986):1,40,41.

venerdì 30 gennaio 2015

Tronti nel bene e nel male

Simone Lorenzati
MARIO TRONTI: UN OPERAISTA NEL PD


a proposito di Franco Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis Edizioni, 297 pag. 22 euro

Mario Tronti è il presidente del Centro Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato, nonché senatore in forza al Partito Democratico. E sulla storia del suo pensiero e sulle sue teorie si concentra un recente e approfondito volume di Franco Milanesi, edito da Mimesis: Nel Novecento

Il volume propone, in sette capitoli densi e ben strutturati, una scansione temporale le cui tappe coincidono con le diverse formulazioni del pensiero trontiano. Tronti è conosciuto innanzitutto per la sua brillante e singolare visione dell'operaismo, esperienza che mette le proprie radici negli anni Cinquanta e Sessanta (passando da "Quaderni Rossi" a "Classe Operaia"). Tuttavia egli non è solo questo. Intanto non è un marxista classico, o lo è in modo indiretto essendo assai più influenzato dal pensiero di Galvano Della Volpe che non da quello del padre fondatore. E poi è particolare anche nel rapporto con il Pci, dal quale non si allontanerà mai del tutto ("Il Pci non nasce nel 21 a Livorno, bensì con la togliattiana svolta di Salerno del 44"). La sconfitta operaia a metà degli anni Cinquanta è per Tronti dovuta ad una mancanza del fattore organizzativo, indispensabile per avere la meglio in una politica vista come eterno conflitto. E la linea continua anche successivamente, passando anche attraverso momenti positivi, fino agli anni Ottanta. Da qui in poi, con l'affermazione neoliberista, vi è una sostanziale restaurazione caratterizzata da un forte ridimensionamento del politico a favore dell'economico, dalla riduzione della politica a mera amministrazione, dallo smantellamento di partiti a favore di leader mediatici e populisti. 
Dunque, che fare? - avrebbe detto Lenin. Per Tronti occorre aggrapparsi alle differenze, quelle differenze in grado di riscrivere i confini della parte, tracciare nuovi valori, creare cultura ed organizzazione al fine di riprendere nuovamente il conflitto. L'operaio massa lascia, infine, il posto a quello immateriale: il metodo individua, quindi, sempre una figura, una tendenza, un settore avanzato che diventa la nuova scommessa politica su cui puntare. Può sembrare un colpo d'ala teorico, mentre è un artificio retorico: a ogni svolta della storia spunta l'identificazione provvisoria e fragile con una figura che il prestigiatore tira per l'occasione dal cappello*. Sulla nuova, presunta figura egemone si puntano come alla roulette le proprie speranze e il proprio azzardo politico. Non è una specialità di Tronti, anche altri esponenti del pensiero operaista, Toni Negri in particolare (le moltitudini), hanno ritenuto in tal modo di poter mantenere un qualche fondamento per il loro approccio e di salvare l'impresa teorica.




(*) Oggi dobbiamo trovare un’operazione analoga dentro alle forme del lavoro contemporaneo. Oltre al lavoro precario che è già noto, bisogna pensare alle forme del lavoro che vengono fuori dal contesto universitario, a quelle forme di lavoro immateriale collegate alla formazione, produzione e organizzazione di sapere. Dove questo può essere un elemento scardinante del sistema di poteri? In che modo questi tipi di lavoro possono riconoscere in se stesso il proprio nemico? Io sono convinto che se dall’università si acquisisce un sapere, questo sapere è un’acquisizione che bisogna riconoscere come qualcosa a cui contrapporsi. Non prendere il sapere come una conquista che il sistema ci consegna, ma al contrario una cosa contro cui dobbiamo stare: stare contro questo sapere.
http://www.commonware.org/index.php/gallery/71-conclusioni-tronti

giovedì 29 gennaio 2015

Donne curde combattenti

CHI ci credeva più, in mezzo alla gran confusione del mondo, che esistessero i buoni e i cattivi? Ai curdi di Kobane, e soprattutto alle loro meravigliose donne in armi e in festa, dobbiamo questa rivelazione. La sensazione di festeggiare davvero una vittoria del bene sul male non è frequente, e a volte si rivela solo un abbaglio ideologico che gli anni si incaricano di smentire. Questa volta no, un esercito di giusti e di liberi ha respinto un esercito di lugubri fanatici, la parola “liberazione” scintilla in tutta la sua semplice potenza. Per giunta, circostanza non comune negli ultimi anni, le armi occidentali hanno fiancheggiato (miracolo!) la parte giusta, a costo di irritare la Turchia che è ampiamente sospettata di parteggiare, in chiave anticurda, per il Califfato.
Nell'ottimo, emozionante reportage a fumetti di Zerocalcare sul numero scorso dell'Internazionale, la comunità curda di Kobane e dei campi profughi emerge per valore politico ben prima che militare: una comunità di musulmani “riformati” che ha abolito i matrimoni combinati, riconosce pari diritti alle donne, adotta l’autogestione, coltiva la tolleranza. Che l'Isis nutra odio contro quella comunità è perfino ovvio. Un Islam civile e “moderno” distrugge l’idea stessa di “guerra di civiltà” che piace tanto ai fanatici di quella parte e di questa
. (Michele Serra, L’amaca, la Repubblica 29 gennaio 2015)








Quando manca il padre

Lo psicanalista  junghiano Luigi Zoja
«Un rapporto da fratelli non può funzionare Serve il coraggio dei no»
«Sono perfettamente d’accordo con il Papa.
Anzi, scherzando con il mio editore argentino, gli ho proposto di chiedere al Pontefice la prefazione al mio libro»
intervista di Riccardo Bruno

Corriere della Sera, 29 gennaio 2015



Luigi Zoja, psicanalista junghiano, quindici anni fa ha scritto Il gesto di Ettore, un caposaldo nell’analisi tra padri (assenti) e figli, testo ancora molto letto e tradotto. «Ettore si sfila l’elmo, prende in braccio il figlio e prega che diventi più forte di lui — spiega Zoja —. Nella mitologia non c’è solo Edipo, il padre castrante, ma anche la figura di un genitore forte e positivo». Papa Francesco parla di figli «orfani», perché vivono in famiglie con padri assenti. «L’atteggiamento della madre è radicato nella biologia, e in tutte le culture varia di poco. Quello del padre è invece variabilissimo: non basta avere il ruolo fecondante, bisogna riconoscere e alimentare il proprio figlio, fisicamente ma anche affettivamente e culturalmente. Il padre era tradizionalmente preposto a una funzione secondaria, a dire dei no, a insegnare a limitare i bisogni. E questo sta venendo meno».
Eppure sempre più padri cambiano i pannolini, svolgono compiti prima esclusivi delle madri. «È vero e anch’io l’ho fatto con i miei tre figli. È molto bello e ti gratifica. Credo che in parte derivi dal senso di colpa dopo secoli di patriarcato e di abusi, come se si sentisse il bisogno di essere accettati». E questo è positivo? «Sì, è positivo. E rispetto a quindici anni fa è un fenomeno che si ulteriormente rafforzato».
E allora perché i padri sono sempre più assenti? «Perché non viene coperta o è sottovalutata l’educazione, la fase dell’adolescenza. Per esempio, il padre, soprattutto con i figli maschi, deve essere in grado di canalizzare l’aggressività dei giovani».
E deve proporsi come modello. Ma in una società competitiva come la nostra, non è allora meglio che si dedichi alla carriera piuttosto che stare troppo a casa? «Quando scrivevo il libro la mia figlia più piccola mi rimproverava che non l’aiutavo a fare i compiti».
E adesso immagino che sia orgogliosa di lei... «Se non ti dedichi alla carriera chissà che un giorno tuo figlio non ti rimproveri di essere stato un pappamolla, che per colpa tua non potrà comprarsi una casa. In effetti l’equilibrio è delicatissimo». Francesco invita anche a evitare di mettersi «alla pari». «Deve esserci comunicazione ma senza eccedere, il padre deve mantenere la sua figura di rispettabilità. Non bisogna creare una “società di fratelli”, ma recuperare anche una verticalità nei rapporti. Lasciandoci alle spalle la società patriarcale abbiamo finito per buttare anche il bambino con l’acqua sporca». Anche in questo è d’accordo con il Papa.
«Sì, ma anche lui deve stare attento. I termini Papa e papà, non a caso, hanno la stessa radice.
Bergoglio cerca di essere alla mano, ma a mio avviso a volte è al limite. Se il Papa diventa un amicone rischia di perdere autorevolezza. Così come un papà».

mercoledì 28 gennaio 2015

Walt Whitman, Oh! Capitano, mio Capitano

Lincoln’s death inspired Whitman to write one of his most memorable works—a simple, three-stanza poem of sorrow that bore little resemblance to his other, more experimental writings. "O Captain! My Captain!" was published in New York’s Saturday Press in November of 1865, and was met with immediate acclaim. The poem’s evocation of triumph overshadowed by despair spoke to readers throughout the shattered nation, and it was widely reprinted and published in anthologies. "O Captain! My Captain!" became one of the most popular poems Whitman would ever write, and helped secure for him a position as one of the greatest American poets of the 19th century. (Library of Congress)


Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

martedì 27 gennaio 2015

Monnerot, Islam e comunismo


 

Bruno Bongiovanni

Islam, Comunismo... che Confusione!

L'Unità, 22 settembre 2002

Qualche volta il sentimento che prevale è l'imbarazzo. Specialmente se abbiamo di fronte un personaggio di peso (assai più in Italia che in Germania) del circuito mediatico-storiografico. Intervistato sul Foglio di giovedì, infatti, Ernst Nolte ci spiega che «riprendendo il titolo di un famoso libro di Jules Monnerot» potremmo definire l'Islam «il comunismo del XXI secolo». Il libro di Monnerot, uscito in Francia nel 1949, e tradotto in Italia nel 1970, si intitola, in realtà, Sociologia del comunismo. È la prima delle tre corpose parti in cui è diviso che ha per titolo L'«Islam» del XX secolo. Dove «Islam», non a caso, è messo tra virgolette. Ma – attenzione! - ad essere ricondotto all'Islam è il comunismo. E non viceversa. Il comunismo, tocca sommessamente rammentare, viene dopo l'Islam. Monnerot, il cui itinerario, dopo una fase gollista (finita già nel 1959), si è in vecchiaia purtroppo concluso tristemente nelle liste di Le Pen, era stato, a 25 anni (nel 1937), tra i fondatori, con Bataille e Caillois, del Collège de Sociologie. Era stato anche tra i collaboratori della rivista Acéphale. Alle sue spalle vi era dunque, al di là della «segreta» proposta di competizione con il fascismo sul suo stesso terreno liturgico e «sacralizzante», la complessa riflessione sulle religioni secolari, ossia sulle religioni politiche, concetto ripreso di recente, in un libro importante, da Emilio Gentile. Il quale si è inserito in un dibattito tedesco-americano ispirato soprattutto a Voegelin. Il totalitarismo sarebbe il tentativo di sostituire la religione perduta e di colmare il vuoto prodotto, a partire dal XVI secolo, dal disincantarsi del mondo, dal sottrarsi cioè del mondo stesso agli incantesimi che lo rendevano organico e «sacro». Hitler e Stalin sarebbero insomma l'estrema e tragica risposta, satanicamente riconsacrante, alla cosmologia vittoriosa di Copernico. La sociologia della secolarizzazione era comunque nata prima del totalitarismo. Basti solo ricordare Max Weber. L'Islam, dunque, per Monnerot è sinonimo di fanatico fervore religioso. E il comunismo è l'estremo secolarizzarsi, e ideologizzarsi, di tale fervore. Vi è dunque continuità tra il Collège de Sociologie e la Sociologie du communisme. Nolte si migliora un pochino nell'articolo sul Corriere della Sera di venerdì, sintesi di un intervento effettuato ad un convegno della Fondazione Liberal. Qui si accenna infatti ad un'«inversione» della «ben nota definizione di Jules Monnerot». Il comunismo, però, quasi sparisce. E l'Islam odierno diventa, con argomentazioni (duole dirlo) confuse, il giacobinismo del XXI secolo. La storia si dissolve. Si metastoricizza. Si trasforma in un affollato supermercato di categorie che si sovrappongono, Annientando il prima e il dopo. Il qua e il là. Persino l'Oriente e l'Occidente, la cui distanza «ontologica» è il pilastro della saggezza degli organizzatori del convegno, che vorrebbero «dimenticare Parigi» e universalizzare Washington. Che Dio protegga l'America.


Cina
Tina Modotti

lunedì 26 gennaio 2015

Glossario elementare dell'Islam

Islamico, islamista, musulmano, jihadista. Spesso in questi ultimi giorni abbiamo letto o ascoltato questi aggettivi, a volte usati in modo improprio, a volte addirittura alternati come fossero sinonimi. Francesca Paci, giornalista de La Stampa esperta di Islam, ci aiuta a far chiarezza sul corretto utilizzo di questi termini e fornisce un breve glossario dell’islam.

Islam: è una religione monoteista, una delle tre religioni rivelate o anche dette “del Libro” (insieme a cristianesimo e ebraismo). Nasce nel VII secolo d.C. nella penisola arabica per opera di Maometto, un umile cammelliere a cui Dio avrebbe trasmesso oralmente il Corano e che i musulmani considerano l’ultimo profeta (considerano un profeta anche Gesù).

Islamismo: è l’espressione con cui si indica l’islam inteso come ideologia politica. Islamista è un aggettivo diverso da islamico, nonostante spesso venga utilizzato come sinonimo. Mentre infatti la parola islamico, così come musulmano, indica il fedele (musulmano o islamico), il luogo di culto, un rito, una pratica o qualsiasi ambito relativo alla sfera religiosa, dire “islamista” significa far riferimento alla dimensione politica dell’islam.


Musulmano (o islamico): è il seguace dell’islam, la parola musulmano (in arabo muslim), significa sottomesso. Ci sono circa 1,5 miliardi di musulmani nel mondo, dei quali gli arabi sono poco più di 300 milioni. Tra i principali paesi musulmani non arabi ci sono la Turchia, il Pakistan, l’Iran e l’Indonesia (dove vive il 13% di tutti i fedeli dell’islam).

Jihad: che in arabo è maschile e si dice il jihad, significa “sforzo massimo”. Nell’islam ci sono due forme di jihad: il grande jihad, che indica lo sforzo individuale massimo per la crescita spirituale e il piccolo jihad, ossia la guerra santa, che può essere difensivo o offensivo. Jihad è anche un nome proprio.

Jihadista: è forse l’espressione più corretta per indicare chi combatte, per esempio, con il Califfato in Siria. Il termine “islamista” infatti, sebbene usato per indicare i movimenti integralisti (e a quello scopo è comunque più appropriato di “islamico”) si riferisce all’islam politico che non è necessariamente jihadista.

Mujaheddin: è la parola araba per indicare chi combatte il jihad, significa dunque combattente.

Umma: è la parola in arabo che indica la grande famiglia del Profeta, vale a dire la comunità musulmana globale. Il forte senso di appartenenza alla umma è quello che spesso viene imputato ai musulmani perché si teme siano più fedeli alla propria religione (una comunità transnazionale) che al Paese di cui sono cittadini.

Corano: è il testo di riferimento dell’Islam, il più sacro perché dettato da Dio a Maometto e viene considerato ininterpretabile, vale a dire che a rigor di logica va preso così com’è stato trascritto nel VII secolo (da qui gli infiniti problemi circa la possibilità d’interpretare o meno il testo e aggiornarlo al presente, istanza riformista che si è sempre scontrata con le scuole più ortodosse). È diviso in 114 capitoli detti sure e a loro volta composti di 6236 versetti.

Arabia Saudita: è la patria dell’islam perché è nella penisola arabica che l’Islam è nato e perché è qui che si trovano i due principali luoghi santi: la Mecca, città natale di Maometto e sede della Ka’ba e Medina, dove Maometto si stabilì nel 622 e dov’è sepolto (il terzo luogo santo è Gerusalemme).

Sunniti e sciiti: sono i due grandi rami in cui è diviso l’islam sin dai primi tempi della successione al Profeta. Alla morte di Maometto la umma si divise tra sunniti – gli ortodossi, i seguaci della sunna (tradizione), convinti che la successione spettasse ai governatori detti Califfi – e gli sciiti – la fazione di Ali, il genero di Maometto che avendo sposato la figlia del Profeta apparteneva alla medesima famiglia ed era dunque considerato discendente per successione di sangue. I sunniti sono la maggioranza del mondo musulmano (circa l’85%). Gli sciiti si trovano soprattutto in Iran, Libano, Bahrein.

Wahabismo: è un movimento religioso interno all’islam sunnita fondato nel XVIII secolo in Arabia Saudita e basato sulla dottrina hanbalita. Quella hanbalita è una delle quattro scuole religiose dell’islam, la più rigorosa e integralista. I gruppi terroristi tipo al Qaeda ma anche lo Stato Islamico sono d’ispirazione wahabita.

Sharia: è la legge islamica che può essere interpretata in modo metafisico o letterale. Quando viene interpretata in modo letterale diventa (in potenza o in pratica) il codice comportamentale di uno Stato. Le fonti della sharia sono soprattutto  il Corano e la Sunna (gli hadith, i detti del Profeta). La sharia, costruita nel VII/VIII secolo, prevede tra l’altro il taglio della mano per i ladri, la lapidazione per le adultere, la legge del taglione (occhio per occhio) e diverse altre forme di giustizia sommaria che però nella realtà vengono applicate in pochissimi casi come nello Stato Islamico in Siria, nell’Afghanistan dei talebani, in una certa misura in Arabia Saudita.

Pubblicato da il 19/01/2015
La Stampa, 26 gennaio 2015 

domenica 25 gennaio 2015

Leopardi e la prosa del mondo





Emanuele Trevi
Leopardi
Il più grande prosatore (e non solo) dell’800
Era uno di noi? No

Corriere della Sera La Lettura, 25 gennaio 2015



Senza mezzi termini, Nietzsche definì Leopardi «il più grande prosatore del XIX secolo». Credo che non si trattasse di una provocazione. Riconosceva in Leopardi qualcosa che gli assomigliava in maniera profonda e vincolante. Una prodigiosa capacità di sovvertire i luoghi comuni e le abitudini del pensiero in entrambi si era sviluppata nella più severa e conservatrice delle palestre mentali: la filologia classica. Un’indefessa attenzione al significato delle parole li aveva trasformati in eretici e in fin dei conti in emarginati. Furono talmente soli che la loro solitudine risalta più sul metro delle amicizie che delle inimicizie, perché anche coloro che li compresero e li ammirarono rimasero molto al di sotto delle vette che avevano raggiunto. Si può immaginare che Nietzsche, quando parla del «prosatore» Leopardi, non lo voglia contrapporre all’amato Stendhal, incapace di scrivere versi, né voglia dichiarare una preferenza per le Operette morali a scapito dei Canti . Il «prosatore», in qualunque maniera si esprima, è colui che antepone la verità dei fatti della vita a ogni forma di consolazione.



Questo amore della verità gli impedisce ogni forma di compromesso con il mondo, nel quale non ha chiesto di nascere e che di sicuro non è stato creato per lui. Ma soprattutto, l’esistenza, se considerata con occhi spogli da illusioni e ottimistiche chimere, non prevede nessun tipo di progresso. La vita naturale è cieca ripetizione, così come tutte le ideologie politiche che aspirano a una felicità collettiva poggiano su una premessa illogica. Come si può immaginare una «massa» di uomini felici, scrive Leopardi in una famosa lettera, se quella «massa» è composta da singoli individui, che non possono che essere infelici? Il 5 dicembre 1831, quando scrive queste parole a Fanny Targioni Tozzetti, Leopardi ha raggiunto il vertice della sua consapevolezza umana e filosofica. È davvero il più grande «prosatore», e pensatore, del suo tempo: un uomo che punta i piedi, che sa che il male è il male e che mai si potrà mischiare al bene in un’improbabile sintesi, religiosa o politica che sia. Che cosa resta da fare? Le soluzioni non possono che variare a seconda dei singoli caratteri.

Quanto a lui, ha deciso di imitare «i Turchi» con la loro sana abitudine «di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza». Bisogna sempre stare attenti all’italiano di Leopardi, così vicino alle più pure sorgenti dei significati delle parole. Così, quando in una poesia definisce la vita «stupenda», significa che la vita suscita stupore. E il contemplare «stupidamente» il ridicolo dell’esistenza sarà tutt’altro che un atteggiamento stupido. Ma come poteva essere tollerato, questo impareggiabile «Turco», finito come un grano di pepe nella marmellata ottimista del suo tempo? E non si tratta solo dell’ingenuo e fervido Ottocento. La realtà è che ancora oggi quell’uomo spietato non lo possiamo tollerare. Continuiamo a interpretarlo tirandolo per la giacca. La gran parte della critica leopardiana è un immane tentativo di razionalizzazione e addomesticamento. In tutte le salse: incredibilmente, non sono mancate la socialista e addirittura la cattolica. Ma non è vero niente: lui non era dei nostri, non era come noi. Non ci teneva minimamente.

 



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Questa è la prosa del mondo quale appare alla propria e all'altrui coscienza, un mondo fatto di finitezza e di mutamenti, inviluppato nel relativo, oppresso dalla necessità, alla quale il singolo non è in grado di sottrarsi. Infatti ogni vivente isolato rimane nella contraddizione di essere a sé per se stesso come questo conchiuso uno, ma di dipendere al contempo da ciò che è altro, mentre la lotta per la soluzione della contraddizione non va oltre il tentativo di questa guerra permanente. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, "Estetica", Torino, Einaudi, 1967, p. 171)

... noi siamo natura, facciamo parte della sua «prosa»; essa non ci sta semplicemente di fronte, pronta ad essere indagata con un metodo piuttosto che un altro. Diego D’Angelo, Maurice Merleau-Ponty e la verità del naturalismo, "Metodo. International Studies in Phenomenology and Philosophy" Vol. 1, n. 2 (2013) = Leopardi dà voce a quella prosa, sottraendosi alle illusioni del tempo


sabato 24 gennaio 2015

La solidarietà alternativa in Grecia


Andrea Nicastro
Grecia: mercatini e farmacie: la rete sociale
Così la sinistra radicale ha costruito un sistema di volontariato che crea consensi 
Corriere della Sera, 24 gennaio 2015

 

mercatini


ATENE «Scusi la penombra, ma non abbiamo pagato le bollette della luce. Manca anche il riscaldamento, quindi tenga pure il cappotto». Sulla credenza dove una volta c’era il servizio di porcellana e le bomboniere dei matrimoni ora sono allineate scatole di medicine. In cucina lo stesso, in bagno anche, farmaci ovunque, fin nel frigorifero rotto. «Per fortuna sono tante» sorride Dimitri Souliotis. «Questa è casa di mia cognata, ma ora lei vive con me e mia moglie e questa è diventata una farmacia per disoccupati, senza tetto e immigrati. Assistiamo anche tre italiani indigenti. È stato il Consolato a mandarceli». Le medicine sono in ordine alfabetico come in una farmacia vera, ma dentro le confezioni ci sono pastiglie e bustine sfuse, blister usati a metà. «Ormai qui in Grecia lo fanno tutti. Quando guarisci e qualche farmaco è avanzato, non lo lasci scadere nel cassetto, ma lo regali. Noi li raccogliamo e li distribuiamo».
Souliotis per trent’anni ha fatto il marconista sulle navi. Erano i tempi d’oro degli armatori greci, Onassis e non solo. Poi, in pensione con 1.250 euro al mese, è finalmente tornato ad Atene, in tempo per scarrocciare sotto la furia della Grande Crisi. «La pensione è affondata a poco più di 800 euro, ma comunque sto a galla. Gente più giovane e senza lavoro invece ha perso tutto: la casa che pagava col mutuo e l’assistenza sanitaria. In mare quando uno sta annegando lo si aiuta. Perché a terra dovevo far finta di non vedere?».
L’impegno sociale è una riscoperta per tutta Europa, ma in Grecia, la disoccupazione ha colpito selvaggiamente, ha cambiato la società e la politica. La Chiesa ortodossa ha attivato le chiese, una rete fittissima che riceve poche critiche e sfama ogni giorno almeno 200 mila persone. Anche la destra neonazi di Alba Dorata ha proposto il suo volontariato con ronde antimmigrati, «aiuti» per sfrattare gli stranieri morosi e mense sociali per soli greci purosangue. Chi ha azzeccato la formula è stata la sinistra di Syriza. «Non abbiamo messo il cappello su nessuna iniziativa e questo ci ha dato grande credibilità» dice Argiris Panagopoulos, una sorta di ambasciatore della sinistra greca in Italia. «La gente ha capito che non ci comportavamo come un partito qualsiasi, che noi eravamo come loro: la risposta della società ai nuovi bisogni».
Farmacie sociali, mense, reti di medici per visite gratuite, Syriza non è solo sfida al debito e all’euro, ma anche una sorta di Stato sociale sostitutivo di quello azzoppato dai tagli della Troika.
«Una delle idee migliori sono i mercatini senza intermediari — spiega Feano Fotiu responsabile della solidarietà di Syriza —. Guadagnano i contadini che non sono strozzati dalle catene dei supermercati e guadagnano i consumatori con prodotti di qualità a basso prezzo». Come nei gruppi d’acquisto a km0, solo che qui non si pensa al bio, ma a sopravvivere. Il 30% delle famiglie è sotto la soglia della povertà, i disoccupati 1,5 milioni, come i lavoratori e i pensionati. «Gli avversari ridevano di noi chiamandoci il “partito delle lenticchie”. Ma erano loro a non capire che contro la fame, un piatto di lenticchie è benvenuto soprattutto se onesto e disinteressato».
Per ordinare le merci, chiedere farmaci, vestiti, aiuto è necessario lasciare un numero di telefono, un indirizzo mail. In due anni di Grande crisi, Syriza ha costruito così un database che è diventato utilissimo per costruire anche una base politica. «Sono 400 i centri di solidarietà in tutto il Paese che in vario modo fanno parte del nostro network — spiega Fotiu — e così siamo riusciti a diffondere una consapevolezza diversa». Syriza è uscita dal «palazzo» per riportare la politica nell’agorà, in piazza. Organizza assemblee di quartiere dove cercare soluzioni ai problemi pratici, un ritorno etimologico alla politica. Così è nata, gramscianamente, l’egemonia di cui godono oggi le tesi del partito in Grecia. «La gente era paralizzata dal senso di colpa che gli era stato indotto dalla narrativa dominante della recessione. Il Nord Europa e la Destra ci descriveva come meridionali lazzaroni e corrotti, inferiori ai virtuosi tedeschi. I greci sentivano la responsabilità morale del fallimento nazionale fino a che Syriza non ha parlato del ruolo dei banchieri, del trucco dei prestiti che rendono schiavi, del neoliberismo rapace. E le teste si sono alzate».
Questo welfare solidale una volta lo si sarebbe chiamato «catena di trasmissione» tra partito e società, ma in Grecia si è dimostrato un antidoto per l’anti politica e la rassegnazione che dominano in tanta parte d’Europa. Futiu è certa: «Con farmaci e lenticchie Syriza ha distribuito anche l’idea che un partito diverso, più pulito e umano, possa meritare fiducia».

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Jon Henley
Greece’s solidarity movement: ‘it’s a whole new model – and it’s working’
Citizen-run health clinics, food centres, kitchens and legal aid hubs have sprung up to fill the gaps left by austerity – and now look set to play a bigger role under a Syriza government
The Guardian, 23 January 2015




Athens soup kitchen
Soup kitchen volunteers serve food in Athens. Photograph: Lefteris Pitarakis/AP
“A long time ago, when I was a student,” said Olga Kesidou, sunk low in the single, somewhat clapped-out sofa of the waiting room at the Peristeri Solidarity Clinic, “I’d see myself volunteering. You know, in Africa somewhere, treating sick people in a poor developing country. I never once imagined I’d be doing it in a suburb of Athens.”
Few in Greece, even five years ago, would have imagined their recession-and austerity-ravaged country as it is now: 1.3 million people – 26% of the workforce – without a job (and most of them without benefits); wages down by 38% on 2009, pensions by 45%, GDP by a quarter; 18% of the country’s population unable to meet their food needs; 32% below the poverty line.
And just under 3.1 million people, 33% of the population, without national health insurance.
So, along with a dozen other medics including a GP, a brace of pharmacists, a paediatrician, a psychologist, an orthopaedic surgeon, a gynaecologist, a cardiologist and a dentist or two, Kesidou, an ear, nose and throat specialist, spends a day a week at this busy but cheerful clinic half an hour’s drive from central Athens, treating patients who otherwise would not get to see a doctor. Others in the group accept uninsured patients in their private surgeries.
“We couldn’t just stand by and watch so many people, whole families, being excluded from public healthcare,” Kesidou said. “In Greece now, if you’re out of work for a year you lose your social security. That’s an awful lot of people without access to what should be a basic right. If we didn’t react we couldn’t look at ourselves in the mirror. It’s solidarity.”
The Peristeri health centre is one of 40 that have sprung up around Greece since the end of mass anti-austerity protests in 2011. Using donated drugs – state medicine reimbursements have been slashed by half, so even patients with insurance are now paying 70% more for their drugs – and medical equipment (Peristeri’s ultrasound scanner came from a German aid group, its children’s vaccines from France), the 16 clinics in the Greater Athens area alone treat more than 30,000 patients a month.
The clinics in turn are part of a far larger and avowedly political movement of well over 400 citizen-run groups – food solidarity centres, social kitchens, cooperatives, “without middlemen” distribution networks for fresh produce, legal aid hubs, education classes – that has emerged in response to the near-collapse of Greece’s welfare state, and has more than doubled in size in the past three years.
“Because in the end, you know,” said Christos Giovanopoulos in the scruffy, poster-strewn seventh-floor central Athens offices of Solidarity for All, which provides logistical and administrative support to the movement, “politics comes down to individual people’s stories. Does this family have enough to eat? Has this child got the right book he needs for school? Are this couple about to be evicted?”
As well as helping people in difficulty, Giovanopoulos said, Greece’s solidarity movement was fostering “almost a different sense of what politics should be – a politics from the bottom up, that starts with real people’s needs. It’s a practical critique of the empty, top-down, representational politics our traditional parties practise. It’s kind of a whole new model, actually. And it’s working.”
It also looks set to play a more formalised role in Greece’s future under what polls predict will be a Syriza-led government from next week. When they were first elected in 2012 the radical left party’s 72 MPs voted to give 20% of their monthly salary to a solidarity fund that would help finance Solidarity for All. (Many help further; several have transferred their entitlement to free telephone calls to a local project.) The party says the movement can serve as an example and a platform for the social change it wants to bring about.


Syriza supporters in Athens
Syriza supporters at a pre-election rally in central Athens. Photograph: Yannis Kolesidis/EPA
In the sleek open plan, blonde-wood office she used when she was a successful architect, Theano Fotiou, a member of Syriza’s central committee, was packing leaflets for the last day of campaigning, with the help of a dozen or so exceedingly enthusiastic young volunteers. She is seeking re-election in the capital’s second electoral district. “The only real way out of this crisis is people doing it for themselves,” she said. “If people don’t participate, we will be lost as a country. This is practice, not theory, a new social ideology, a new paradigm – the opposite of the old passive, dependent, consumerist, individualist model. And the solidarity projects we have now are its incubators.”
Fotiou said a large part of the first stage of a Syriza’s government’s programme – ensuring no family is without water or electricity (in nine months of 2013, 240,000 households had their power cut because of unpaid bills); that no one can be made homeless; that the very lowest pensions are raised and that urgent steps are taken to relieve child poverty, now standing at 40% in Greece – was largely inspired by what the party had learned from its involvement in the solidarity movement.
“We’ve gained so much from people’s innovation,” she said. “We’ve acquired a knowhow of poverty, actually. We know more about people’s real needs, about the distribution of affordable food, about how not to waste things like medicines. We’ve gained a huge amount of information about how to work in a country in a state of humanitarian crisis and economic collapse. Greece is poor; this is vital knowhow.”
If the first instinct of many involved in the movement was simply to help, most also believe it has done much to politicise Greece’s crisis. In Egalio, west of Athens, Flora Toutountzi, a housekeeper, Antonis Mavronikolas, a packager, and Theofilos Moustakas, a primary school teacher, are part of a group that collects food donations from shoppers outside supermarkets and delivers basic survival packages – rice, sugar, long-life milk, dried beans – to 50 local families twice a month.
“One family, there are six people surviving on the grandmother’s pension of €400 a month,” said Mavronikolas. “Another, they’ve lived without running water for two months. We help them, yes, but now they are also involved in our campaign, helping others. People have become activated in this crisis. They are less isolated.”
In the central Athens district of Exarchia, Tonia Katerina, another now largely unemployed architect (“There’s not a lot of work for architects right now,” she said), is one of 15 people running a cooperative social grocery that opened a year ago and now sells 300 products, from flour to oranges, olive oil to bread, pasta to dried herbs. The business has grown rapidly and the collective’s members can now pay themselves an hourly wage of €3.


Closed supermarket in Athens
A man walks past a closed supermarket in Athens. Photograph: Michael Kappeler/dpa/Corbis
The local “without middlemen” market, one of 30-odd to have sprouted in Athens and several hundred around Greece, where farmers sell their produce for 25% more than they would get from the supermarkets and consumers pay 25% less, takes place only once a month, and the group wanted to set up a small neighbourhood grocery offering similarly good value, high quality foodstuffs directly from small producers.
Ninety per cent of the products the store sold were “without middlemen”, Katerini said, and about 60% were significantly cheaper than in the supermarket. Several come from other solidarity projects – the store’s soap, for example, is made by a collective of 10 unemployed people in Galatsi.
“All these projects, it’s very important to me, are not just helping people who need it, but they represent almost the start of a new kind of society,” Katerini said. “They are run as direct democracies, with no hierarchy. They are about people taking responsibility for their lives, putting their skills to use, becoming productive again.”
Katerina Knitou has devoted the past few years to preventing people from losing their homes. Part of a group of lawyers formed to fight a much hated “emergency house tax”, her focus has switched to the one in three Greek households fearing repossession or eviction – either because they are among the 320,000 families behind on mortgage or other debt repayments to their bank, or one of the 2.45 million Greeks who have been unable to pay a recent tax bill.
Knitou, a Syriza member like almost all those involved in the movement, gives free legal advice on how to avoid foreclosure and eviction. In the first half of last year 700 homes were either repossessed by the banks or foreclosed on by the Greek state over unpaid tax or social security bills. (With colleagues, Knitou also occasionally takes more direct action, disrupting – and preventing – planned auctions of repossessed and foreclosed homes.)
“This whole thing,” she said, “has made a lot of people very aware, not just of what they face, but also of what they can – and must – do. Expectations are going to be high after Sunday, but there are of course limits to what even a Syriza government will be able to do. It’s up to us, all of us, to change things. And honestly? This feels like a good start.”