sabato 31 gennaio 2015

Philip Roth intervista Primo Levi





ROTH: Nel Sistema periodico, il tuo libro sul sapore forte e amaro della tua esperienza di chimico, tu parli di una collega, Giulia, che spiega la tua mania di lavorare con il fatto che tu, poco più che ventenne, eri timido con le donne e non avevi una ragazza. Ma credo che sbagliasse. La tua effettiva mania di lavorare ha un'origine più profonda. Il lavoro sembra un tema ossessivo per te, persino nel tuo libro sulla detenzione ad Auschwitz. "Arbeit Macht Frei," il “Lavoro rende liberi”:sono le parole incise dai nazisti all'ingresso di Auschwitz. Ma il lavoro ad Auschwitz è un'orrenda parodia del lavoro, senza scopo e senza senso; è fatica come punizione, che porta a una morte tormentosa. Si può considerare la tua intera fatica letteraria come tesa a restituire al lavoro il suo senso umano, redimendo la parola Arbeit dall'irridente cinismo con il quale i tuoi datori di lavoro di Auschwitz l'avevano sfregiata. Faussone ti dice: "Ogni lavoro che incomincio è come un primo amore". Gli piace parlare del suo lavoro quasi quanto gli piace lavorare. Faussone è l'Uomo Lavoratore, reso realmente libero dalla sua fatica.

LEVI: Non credo che Giulia avesse torto nell'attribuire la mia mania di lavorare alla mia timidezza di allora con le ragazze. Questa timidezza, o inibizione, era un dato di fatto, concreto, doloroso e pesante. A quel tempo, era molto più importante per me che non la passione per il lavoro: del resto, il lavoro nella fabbrica di Milano che ho descritto nel capitolo Fosforo del Sistema periodico era un falso lavoro, in cui io non credevo; la catastrofe dell'armistizio italiano era già nell'aria, e non avrebbe avuto molto senso ignorarla per immergersi in un lavoro fittizio e scientificamente insensato. Non ho mai cercato seriamente di analizzare la mia timidezza sessuale di allora, ma è certo che essa era in buona parte condizionata dalle leggi razziali; anche altri miei amici ebrei ne soffrivano, alcuni nostri compagni di scuola << ariani >> ci deridevano, dicevano che la circoncisione non era altro, in sostanza, che una castrazione, e noi, almeno a livello inconscio, tendevamo a crederci (aiutati in questo dal puritanesimo che dominava nelle nostre famiglie). Di conseguenza, credo che a quel tempo il lavoro fosse effettivamente per me un equivalente sessuale piuttosto che una passione. Tuttavia, per quanto mi riguarda, sono ben consapevole che dopo il Lager il lavoro, anzi, i miei due lavori (la chimica e lo scrivere) hanno avuto, e tuttora hanno, un'importanza fondamentale nella mia vita. Sono convinto che l'uomo normale è biologicamente costruito per un'attività diretta a un fine, e che l'ozio, o il lavoro senza scopo (come l'Arbeit di Auschwitz) provoca sofferenza e atrofia. Nel mio caso, e in quello del mio alter ego Faussone, il lavoro si identifica con il “problem solving,” il risolvere problemi. Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale.
ROTH: Se questo è un uomo si conclude con un capitolo in titolato Storia di dieci giorni, nel quale tu descrivi, in forma di diario, come hai resistito dal 18 al 27 gennaio del 1945 tra un piccolo manipolo di malati e moribondi nell'infermeria improvvisata del campo, dopo la fuga dei nazisti verso Ovest con circa ventimila prigionieri sani. Quel racconto mi suona come la storia di Robinson Crusoe all'inferno, con te, Primo Levi, nei panni di un Crusoe che strappa ciò che gli serve per vivere ai magmatici avanzi di un'isola irriducibilmente spietata . Ciò che mi ha colpito in quel capitolo, come in tutto il libro, è quanto il pensare abbia contribuito a farti sopravvivere, il pensare di una mente pratica, umana, scientifica. La tua non mi pare una sopravvivenza determinata da una animalesca resistenza biologica o da una straordinaria fortuna, ma radicata semmai nel tuo mestiere, nel tuo lavoro, nella tua condizione professionale, nell'uomo della precisione, nell'uomo che verifica esperimenti e cerca il principio dell'ordine, posto di fronte al perverso capovolgimento di tutto ciò che per lui era un valore. Sì il pezzo numerato di una macchina infernale, ma un pezzo numerato con un'intelligenza metodica che deve sempre capire. Ad Auschwitz dici a te stesso: “penso troppo per resistere sono troppo civilizzato.” Ma secondo me l'uomo civilizzato che pensa troppo è inscindibile dal sopravvissuto. Lo scienziato e il superstite sono una cosa sola.
LEVI: Benissimo! Hai colpito nel segno. È proprio vero che, in quei memorabili dieci giorni del gennaio 1945, io mi sono sentito come Robinson Crusoe, ma con una importante differenza. Robinson si era messo al lavoro per la sua individuale sopravvivenza; io ed i miei due compagni francesi eravamo consci, e felici, di lavorare finalmente per uno scopo giusto e umano, quello di salvare le vite dei nostri compagni ammalati. Quanto al perché della sopravvivenza, è una questione che mi sono posto più volte, e che molti mi hanno posto. Insisto: regole generali non ce n'erano, salvo quelle fondamentali di entrare in Lager in buona salute e di capire il tedesco. A parte questo, ho visto sopravvivere persone astute e stupide, coraggiose e vili, pensatori e folli (ad esempio, quell'Elias che ho descritto in Se questo è un uomo). Nel mio caso personale, la fortuna ha avuto un ruolo essenziale in almeno due occasioni: nell'avere incontrato il muratore italiano a cui ho accennato prima, e nell'essermi ammalato una volta sola, ma al momento giusto. Tuttavia, quello che tu dici, e cioè che per me il pensare, l'osservare, è stato un fattore di sopravvivenza, è vero, anche se a mio parere ha prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva. Non so se questo dipenda dalla mia formazione professionale, o da una mia insospettata vitalità, o da un istinto salutare: di fatto, non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un'immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo.

ROTH: In Se questo è un uomo la descrizione e l’analisi del tuo atroce ricordo del gigantesco esperimento biologico e sociale fatto dai tedeschi sono controllate con grande puntualità da un interesse quantitativo per i modi in cui un uomo può venire trasformato o disgregato e può perdere le sue proprietà caratteristiche come una sostanza che si decompone per una reazione chimica. Se questo è un uomo equivale alle memorie di un teorico della biochimica morale che sia stato precettato come organismo campione per essere sottoposto alla più bieca sperimentazione di laboratorio. La persona prigioniera nel laboratorio dello scienziato folle riassume in sullo scienziato razionale. Nella Chiave a stella - che si sarebbe potuta benissimo intitolare Questo è un uomo - tu dici a Faussone tuo Shahrazad operaio che essendo agli occhi del mondo un chimico e sentendomi... il sangue dello scrittore nelle vene come risultato tu hai <due anime in corpo che sono troppe. Direi che c'è un anima sola capace e senza saldature. Che non sono inscindibili soltanto il sopravvissuto e lo scienziato ma anche lo scrittore e lo scienziato

LEVI: Più che una domanda, questa è una diagnosi, che accetto e di cui ti ringrazio. Ho vissuto il Lager nel modo più razionale che potevo, e ho scritto Se questo è un uomo sforzandomi di spiegare agli altri, e a me stesso, i fatti in cui ero stato coinvolto, ma senza precisi intenti letterari. Il mio modello, o se preferisci il mio stile, era quello del weekly report, del rapportino settimanale che si usa fare nelle fabbriche: deve essere conciso, preciso, e scritto in un linguaggio accessibile a tutti i livelli della gerarchia aziendale. Non certo in linguaggio scientifico: del resto, scienziato avrei voluto diventare, ma la guerra e il Lager me lo hanno impedito, e ho dovuto accontentarmi di essere un tecnologo durante tutta la mia vita professionale. Sono d'accordo con te sul fatto che ho <una sola anima senza saldature>, e ancora una volta ti ringrazio. La mia affermazione che <due anime sono troppe> è per metà uno scherzo, ma per l'altra metà allude a cose molto serie. Ho vissuto in fabbrica per quasi trent'anni, e devo ammettere che non c'è contraddizione fra l'essere un chimico e l'essere uno scrittore: c'è anzi un reciproco rinforzo. Ma stare in fabbrica, anzi, dirigere una fabbrica, significa molte altre cose diverse e lontane dalla chimica: assumere e licenziare personale; litigare col padrone, con clienti e con fornitori; far fronte a incidenti, ed essere chiamati al telefono, magari di notte o durante una cena da amici; occuparsi di noiose faccende burocratiche; e tanti altri “soul destroying tasks”, compiti che distruggono l'anima. Tutti questi affari sono brutalmente incompatibili con lo scrivere, che esige una certa pace dell'anima; perciò mi sono sentito veramente nato una seconda volta quando ho raggiunto l'età della pensione e ho potuto dare le mie dimissioni, rinunciando così alla mia anima numero uno.

ROTH: Il seguito di Se questo è un uomo è La tregua. Il tema è il tuo viaggio di ritorno da Auschwitz in Italia. C'è davvero una dimensione mitica in questo tormentato viaggio, specialmente nella storia del tuo lungo periodo di gestazione in Unione Sovietica, in attesa di essere rimpatriato. Ciò che sorprende ne La tregua - che avrebbe potuto, e comprensibilmente, essere stata improntata al lutto, a un inconsolabile disperazione - è l'esuberanza. La tua riconciliazione con la vita si compie in un mondo che a tratti pareva simile al caos primordiale. Eppure tu vi appari straordinariamente interessato a tutto, pronto a ricavare da tutto divertimento e cultura al punto che mi sono domandato se nonostante la fame, il freddo e le ansie, persino nonostante i ricordi, davvero tu abbia mai vissuto mesi migliori di quelli che definisci una parentesi di disponibilità illimitata, un provvidenziale ma irripetibile regalo del destino. Tu sembri una persona la cui esigenza più profonda è innanzi tutto di aver radici - nella professione, nella razza, nel luogo, nella lingua, eppure, quando ti sei trovato più solo e sradicato di quanto si possa essere hai considerato quella condizione un regalo.

LEVI: Un amico, ottimo medico (era fratello di Natalia Ginzburg. conosci i suoi libri ? È una Levi anche lei, ma non mia parente), mi ha detto molti anni fa: “I tuoi ricordi di prima e di dopo sono in bianco e nero; quelli di Auschwitz e del viaggio di ritorno sono in technicolor”. Aveva ragione. La famiglia, la casa e la fabbrica sono cose buone in sé, ma mi hanno privato di qualcosa di cui ancora oggi sento la mancanza, cioè dell’avventura. Il mio destino ha voluto che io trovassi avventura proprio in mezzo al disordine dell'Europa devastata dalla guerra. Tu sei del mestiere, e sai come vanno queste cose. La tregua è stato scritto quattordici anni dopo Se questo è un uomo; è un libro più consapevole, più letterario, e molto più profondamente elaborato, anche come linguaggio. Racconta cose vere, ma filtrate. E stato preceduto da innumerevoli versioni verbali: intendo dire, ogni avventura era stata da me raccontata molte volte a persone di cultura diversa (spesso a ragazzi delle scuole medie), e aggiustata a poco a poco in modo da provocare le reazioni più favorevoli. Quando Se questo è un uomo ha cominciato ad avere successo, e io ho cominciato a intravedere per me un futuro come scrittore, mi sono accinto alla stesura. Volevo divertirmi scrivendo, e divertire i miei futuri lettori; perciò ho dato enfasi agli episodi più strani, più esotici, più allegri: soprattutto, ai russi visti da vicino. Ho relegato all'inizio e alla fine del libro i tratti, come tu dici, di lutto e di disperazione inconsolabile. A proposito del radicamento, della “rootedness”: è vero che io ho radici profonde, e che ho avuto la fortuna di non esserne stato privato: la mia famiglia è stata in buona parte risparmiata dalla strage, e oggi io continuo ad abitare addirittura nell'alloggio dove sono nato. La scrivania su cui scrivo sta esattamente nel luogo in cui, secondo la leggenda, sono stato partorito. Perciò, quando mi sono trovato sradicato quanto più non si potrebbe, ho certo provato sofferenza; ma questa è stata compensata dal fascino dell'avventura, dagli incontri umani, dalla dolcezza della “convalescenza” dal morbo di Auschwitz. La mia “tregua” russa, nella sua realtà storica, ha cominciato ad apparirmi come un dono solo molti anni dopo, quando l'ho depurata rivivendola e scrivendola.

ROTH: Se non ora, quando? è diverso da tutto ciò che ho letto di tuo. Pur essendo puntualmente tratto da reali eventi storici, il libro è presentato come un puro racconto picaresco delle avventure di un piccolo gruppo di partigiani ebrei di origine russa e polacca, che tendono imboscate ai tedeschi dietro le loro linee sul fronte orientale. Gli altri tuoi libri hanno forse trame meno <fantasiose, ma mi hanno colpito per una maggiore fantasia sul piano tecnico. L'impulso creativo che sta alle spalle di Se non ora, quando? dà l'impressione di essere più limitato, più parziale - e quindi meno liberatorio per lo scrittore - di quelli che hanno dato vita alle opere autobiografiche. Mi domando se tu concordi su questo: se scrivendo dell'audacia degli ebrei che si ribellarono, tu abbia sentito di fare un qualcosa che bisognava fare, se ti sentissi responsabile di una rivendicazione politica e morale che non poteva comparire altrove, anche quando il tema è il tuo destino, inconfondibilmente ebraico.

LEVI: Se non ora, quando? è un libro che ha avuto un destino imprevisto. I motivi che mi hanno spinto a scriverlo sono diversi: li enumero qui per ordine di importanza. Avevo fatto una specie di scommessa con me stesso: dopo tanta autobiografia aperta o mascherata, sei o non sei uno scrittore a pieno titolo, capace di costruire un romanzo, di creare personaggi, di descrivere ambienti in cui non sei stato ? Mettiti alla prova ! Volevo divertirmi a scrivere un “western” ambientato in uno scenario poco comune; volevo divertire i miei lettori raccontando loro una storia sostanzialmente ottimistica, piena di speranza, a tratti allegra, anche se sullo sfondo della strage. Volevo rompere un luogo comune ancora prevalente in Italia: un ebreo è un mite, uno studioso (pio o laico), una persona ribelle, umiliata che ha subìto secoli di persecuzioni senza mai ribellarsi. Mi sembrava doveroso rendere omaggio a quegli ebrei che in condizioni disperate avevano trovato la forza e l'intelligenza di resistere ai nazisti. Nutrivo anche l'ambizione di essere il primo scrittore italiano a descrivere il mondo yiddish; volevo insomma “utilizzare” la mia popolarità in Italia per far giungere fra le mani di molti lettori un libro che avesse come soggetto la cultura, la lingua, la mentalità e la storia, dell'ebraismo ashkenazita, che in Italia è virtualmente sconosciuta. Questi motivi sono stati riconosciuti come validi in misura diversa nei diversi paesi in cui il libro è stato pubblicato. In Italia esso ha avuto pieno successo, sotto tutti i suoi aspetti. Lo stesso si può dire per l'Inghilterra e la Germania, almeno a giudicare dalle prime reazioni del pubblico e della critica. In Francia è passato sostanzialmente inosservato. Negli Stati Uniti, come sai, ha avuto un successo moderato: la sua Yiddishkeit è stata giudicata risaputa; un soggetto insomma troppo noto perché ancora se ne parli. Inoltre, il lettore americano si è accorto di un fatto vero, che cioè si tratta di un libro “yid” scritto da un autore che “yid” non è, ma che ha cercato di diventarlo studiando testi e ascoltando racconti. Personalmente io sono soddisfatto di questo libro, soprattutto perché mi sono divertito molto nel progettarlo e nello scriverlo. Per la prima e unica volta nella mia carriera di scrittore, ho avuto l'impressione (quasi un'allucinazione) che i miei personaggi fossero vivi, mi stessero intorno, e mi suggerissero loro stessi le loro avventure e i loro dialoghi. L'anno che ho impiegato a scriverlo è stato un anno felice; perciò, indipendentemente dal risultato, per me questo libro è stato liberatorio.

ROTH: Parliamo ora della fabbrica di vernici. Oggigiorno molti scrittori hanno fatto gli insegnanti, altri i giornalisti, e la maggior parte degli scrittori sopra i 50 anni hanno prestato servizio militare; per questo o quel paese. C'è un elenco impressionante di scrittori che hanno esercitato la medicina e contemporaneamente fatto libri, e altri che sono stati uomini di chiesa. T. S. Eliot era editore, e, come noto, Wallace Stevens e Franz Kafka lavoravano per grandi società assicurative. Che io sappia, solo due scrittori di rango sono stati dirigenti di una fabbrica di vernici: tu a Torino, in Italia, e Sherwood Anderson a Elyria, nell'Ohio. Anderson dovette abbandonare la fabbrica di vernici (e la famiglia) per diventare scrittore; sembra invece che tu sia diventato lo scrittore che sei oggi rimanendovi, e continuandovi la tua carriera. Mi domando se ti consideri addirittura più fortunato - e magari più agguerrito per scrivere - di quanti tra noi non hanno alle spalle una fabbrica di vernici e tutto quanto comporta quel tipo di contesto.

LEVI: Sono approdato all'industria delle vernici per puro caso. Mi sono occupato piuttosto poco di vernici propriamente dette: la nostra fabbrica, fin dai primi anni, si è specializzata nella produzione di smalti isolanti per conduttori elettrici di rame. A quel tempo contavo fra i trenta o quaranta specialisti del mondo in questo ramo: di filo smaltato sono fatti gli animali che hai visto nel mio studio. Onestamente non conoscevo il nome di S. Anderson. Ho letto ieri una sua breve biografia: no, a me non sarebbe mai venuto in mente di abbandonare la famiglia e la fabbrica per mettermi a fare lo scrittore a tempo pieno come ha fatto lui; avrei avuto paura del salto nel buio, ed oltre tutto avrei perso il diritto alla pensione. Al tuo breve elenco di scrittori verniciai devo però aggiungere un terzo nome, quello di Italo Svevo (1861 1928), ebreo triestino convertito al cattolicesimo: Svevo fu direttore commerciale di una fabbrica di vernici di Trieste, la Società Veneziani, che apparteneva a suo suocero e che si è sciolta pochi anni fa. Fino al 1918 Trieste apparteneva all'Austria, e questa Società era famosa perché forniva alla Marina austriaca una eccellente vernice antivegetativa per le carene delle navi da guerra; dopo il 1918 Trieste divenne italiana, e la vernice venne fornita alla Marina italiana e a quella inglese. Per trattare con la British Admiralty Svevo prese lezioni d'inglese da James Joyce, che a quel tempo insegnava a Trieste; Joyce divenne amico di Svevo, e lo aiutò nella pubblicazione delle sue opere. La vernice accennata si chiamava Moravia. La coincidenza con lo pseudonimo del noto scrittore italiano non è casuale: sia l'industriale triestino, sia lo scrittore romano ricavarono questo nome dal cognome di una loro comune parente dal lato di madre. Scusami per questo pettegolezzo che forse è poco pertinente. Sì, come accennavo prima, non ho rimpianti. Non credo di aver sprecato il mio tempo dirigendo una fabbrica (di vernici o di qualsiasi altra roba): ho acquistato altre esperienze preziose, che si sono addizionate e combinate con quelle di “Auschwitz.” 

  New York Times Book Review. October 12 (1986):1,40,41.

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