Matteo Nucci
A settant'anni da "Kaputt" di Curzio
Malaparte
Il Venerdì di Repubblica, 9 gennaio 2015, n. 1399
Per Kurt Suckert, meglio conosciuto come Curzio
Malaparte, quello di settant’anni fa fu un capodanno di festa. A
poco più di un mese dall’uscita di Kaputt, le reazioni di
stupore si reduplicavano e all’estero già si preparavano a
tradurlo. Dalla casa di Capo Massullo,
tuttavia, lo scrittore fingeva
di riservare interesse a ben altre vicende. Il secondo capitolo
dell’immane sforzo di raccontare «la peste della guerra» era già
aperto (La pelle sarebbe uscito quattro anni dopo) e il
bisogno di Malaparte di accreditarsi nel mondo nuovo che andava
consolidandosi lo spingeva a cercare una sponda nelle fila del
Partito Comunista. Fu così che, mentre il consenso letterario
accoglieva una delle più straordinarie opere del Novecento,
nell’Italia ancora spezzata, Kaputt apparve anche come il
furbo prodotto di quell’uomo dal passato fascista che gran parte
del mondo politico e intellettuale si sarebbe poi affannato a
condannare. Negli anni seguenti, alle accuse contro l’abilità nel
destreggiarsi fra opposti poteri si aggiunse la critica
all’affidabilità dei resoconti. Tanto che si addensarono
sull’opera dello scrittore ombre che si sono allungate fino ai
nostri anni.
A rileggere oggi questo capolavoro (da poco
tascabile: Adelphi, pp. 476, euro 13), si resta sbalorditi. E
innanzitutto proprio per l’abilità della mano con cui Malaparte
riuscì a trasformare la realtà. Magia, grottesco, follia,
allegoria, sogno, delirio si alternano a raccontare una dimensione
che sfugge di continuo, tanto è l’orrore di un’umanità che
fatica a restare nell’alveo della sua animalità. Questo «viaggio
al termine della notte» nell’Europa in fiamme (Céline è stato
più volte chiamato in causa) fu sì il risultato dei viaggi del
Malaparte inviato sul fronte orientale per il Corriere della sera
(Romania, Polonia, Jugoslavia, Germania, Ucraina, Russia, Svezia e
Finlandia) ma fu soprattutto esso stesso un viaggio nel mondo animale
dominato da quel «mostro allegro e crudele» cui allude la «dura e
quasi misteriosa parola tedesca Kaputt, che letteralmente
significa “rotto, finito, andato in pezzi, in malora”».
Le sei parti del libro sono intitolate a cavalli,
topi, cani, uccelli, renne e mosche. Perché, come scrive Maurizio
Serra, autore della definitiva biografia (Malaparte. Vite e
leggende, trad. dal francese di A. Folin, Marsilio, pp. 587, euro
25), «gli animali sono gli unici innocenti per definizione, i soli
che soffrano di una pena che non ha la sua origine nell’espiazione
di una colpa, ma nel sacrificio puro, gratuito, cristologico».
Animali sono dunque gli uomini nella loro veste di vittime, laddove
nel momento in cui si fanno persecutori si assimilano piuttosto alla
perversione di «animali degradati dalla ragione».
Le storie che l’io narrante del libro, ovvero lo
stesso Malaparte, racconta in circostanze reali trasformate da una
penna trasfigurante, gettano luce, oltreché sugli esseri umani, sui
popoli. E principalmente, è ovvio, sui tedeschi di cui si racconta
in continuazione la paura: «Hanno paura sopra tutto degli esseri
deboli, delle donne, dei bambini. Hanno paura dei vecchi. La loro
paura ha sempre suscitato in me una profonda pietà. Se l’Europa
avesse pietà di loro, forse i tedeschi guarirebbero del loro
orribile male». Degli italiani, Malaparte ghigna in prima persona:
«Io ho perso l’abitudine di agire. Sono un italiano. Non sappiamo
più agire, non sappiamo più assumere alcuna responsabilità».
Degli spagnoli, invece, egli parla attraverso uno dei personaggi
principali del libro, il Conte Augustín de Foxá, Ministro di Spagna
a Helsinki: «È crudele e funereo come ogni buon spagnolo. Soltanto
per l’anima ha rispetto: il corpo, il sangue, le sofferenze lo
lasciano indifferente. Gli piace parlar della morte, si rallegra come
una festa nel veder passare un funerale».
Mai come in Kaputt, Malaparte ci appare nella
sua potenza di camaleonte. «Aristocratico con gli
aristocratici, diplomatico con i diplomatici, militare con i
militari, operaio con gli operai», compare sulla scena a Stoccolma,
a fianco del Principe Eugenio di Svezia, cui dopo poco comincia a
narrare di un villaggio ucraino dove con soldati romeni discorre di
Unione Sovietica pensando a Tolstoj e affondando sempre più in un
vortice di storie e di lingue. Tedesco, francese, romeno attraversano
la scena, mentre Malaparte porta ovunque il suo sarcasmo, il gusto
del paradosso, la battuta salace tipica del ragazzo nato a Prato da
padre sassone e madre milanese.
Dalla “corte” del Generalgoverneur di
Polonia, Hans Frank (poi condannato a morte a Norimberga), dove si
aprono gli scenari più atroci del ghetto di Varsavia e del tragico
pogrom romeno di Jassy (dove morirono 14000 ebrei), fino
all’amata Finlandia dove Malaparte affabula gli ascoltatori fra
l’altro con i bombardamenti di Belgrado vissuti da un cane.
Berlino, Zagabria, il mefistofelico duce croato Ante Pavelic, Capri,
Axel Munthe, Edda Ciano, e finalmente la Lapponia dove incontriamo
Himmler nudo in sauna, giunto lì a punire con la fucilazione i
soldati tedeschi presi dal desiderio del suicidio. Il paradosso
domina. Tutto si confonde. Vita e morte perdono i loro significati
elementari e l’abilità di scrittore di Malaparte raggiunge vette
inarrivabili.
Kaputt è anche un gioco di tempi. Presente e
passato s’intrecciano senza lasciar più
speranza al lettore. Sogni
e ricordi prendono il sopravvento, notti ebbre si riempiono di
violenza pronta a sciogliersi in risate folli. E, prima che l’autore
torni a Roma e Napoli (gli ultimi due capitoli) un aneddoto reale
viene trasformato al punto da chiarire definitivamente quella che è
la vera chiave del libro: il misero scontro fra uomini e uomini
s’illumina soltanto quando l’uomo affronta l’animale che è in
sé. È la storia della lotta contro i salmoni ingaggiata dai soldati
tedeschi nella loro pesca guidata dall’insana brama di estirpare la
specie ittica. Ma «i salmoni sono coraggiosissimi e non è facile
vincerli». Così, quando il generale von Heunert si troverà a dover
sconfiggere l’ultimo esemplare del fiume Juutuanjoki, Malaparte
regalerà al lettore una delle scene più indimenticabili.
Nell’appendice che Adelphi propone troviamo la vera
storia su cui lavorò letterariamente (p. 452). È una prova
eccezionale per capire quanto egli stesso avrebbe detto circa il suo
stile in Pelle, forse già difendendosi dalle accuse montanti.
È un manifesto di poetica, quello messo in bocca, nella finzione, a
un colonnello americano di nome Hamilton. Dovrebbe tranquillizzarci
per sempre e consentirci di ridare a questo fenomenale scrittore il
posto che gli è stato spesso negato. «Non ha alcuna importanza»
dice Hamilton «se quel che Malaparte racconta è vero o falso. La
questione da porsi è un’altra: se quel che egli fa è arte, o no».
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