Marco Belpoliti
La società facciale
Thomas Macho, filosofo tedesco tra i più acuti e influenti, per
quanto ancora poco noto in Italia, ha scritto che viviamo in una
“società facciale”, la quale possiede la prerogativa di produrre volti
senza sosta. A ogni angolo di strada, su ogni tabellone, la pubblicità
c’insegue con volti, così che “senza un volto, nulla osa più invadere lo
spazio riservato alle affissioni”. Che dunque la nostra sia una società
fondata sulle facce, lo storico dell’arte e iconologo Hans Belting lo
dice sin dalle prime pagine del suo ponderoso saggio, Facce. Storia del volto
(tr. it. di C. Baldacci e P. Conte, Carocci 2014, pp. 359). E con ogni probabilità lo
studioso tedesco non conosce, o ricorda, la celebre espressione
berlusconiana “metterci la faccia”, che ha segnato una intera stagione
politica ed elettorale. Ma a noi basta accendere la televisione e
guardare un qualsiasi programma, da X Factor a Masterchef, per
ricordarci che è così: lo spettacolo come la politica è invasa dalle
facce. I volti sono stati commercializzati e politicizzati, ribadisce
giustamente l’iconologo nel suo studio. Siamo tutti volti anonimi che
consumiamo volti, su cui la società proietta la propria struttura di
potere, continua Belting, così che “il volto pubblico ha prodotto la sua
propria maschera”.
Il saggio cerca di stabilire cosa è volto e cosa invece maschera. In un libro dedicato al medesimo tema, apparso anni fa ma sempre attuale, Il volto e l’anima (Bompiani), la semiologa Patrizia Magli distingue tra Viso, che deriva dal latino visus, participio passato di videre, “vedere”, e Faccia, sempre dal latino facies, “aspetto”, “forma”, d’etimologia invece più incerta. Il viso non è una semplice parte del corpo, ma, per dirla con il filosofo Emmanuel Lévinas, è nel viso che si compie la presenza che trascende ogni rappresentazione che se ne può fare. Faccia è una forma dotata di una certa superficie, è un limite, come suggerisce il significato geometrico del termine; tuttavia il viso è anche faccia, superficie delimitata e carica di senso, su cui agisce lo sguardo di chi osserva. Patrizia Magli sostiene che la faccia è il risultato di una costante messa a fuoco e ritaglio di questa superficie da parte di un osservatore; sarebbe la parte che sta per il tutto. Volto, vultus, poi, è il termine latino più antico per indicare il viso. La semiologa afferma che il nesso tra faccia e socialità è molto forte, testimoniato da quelle espressioni d’uso comune come: “salvare” o “perdere” la faccia. Oggi che il contatto “faccia a faccia” si è trasferito su Internet – Facebook è uno dei termini più citati –, i mass media sottraggono al volto la sua presenza corporea, modificando una delle fondamentali abitudini della nostra percezione che comporta di necessità riconoscere i volti. Non a caso Don Abbondio, scrive Manzoni nei Promessi sposi, spiega al suo interlocutore che appena vide quelle facce, ovvero i volti dei bravi, pensò bene di scappare. Belting precisa che il passaggio a Internet ha fatto sì che il volto pubblico, nonché celebre, non è più espressione di una determinata classe sociale, dal momento che la celebrità è data solo dai media: anche i ricchi per essere celebri devono avere una faccia, come capì Andy Warhol quando propose ai suoi collezionisti i loro ritratti. L’artista americano cominciò così a riprodurre i volti celebri della sua epoca; dopo Marilyn e Mao, realizzò ritratti per personaggi come Gianni Agnelli, all’epoca tra le persone più cool e note del mondo occidentale: avevano tutti una faccia. Oggi, nell’era globale, il volto è stato svincolato dalle fisionomie nazionali o locali, oltre che dai contesti economici e, scrive Belting, siamo sommersi da maschere facciali. Warhol l’aveva intuito lavorando sul ritratto del leader della Cina popolare, Mao, il cui ritratto gigantesco ha campeggiato sulla immensa piazza di Pechino per decenni.
Il saggio cerca di stabilire cosa è volto e cosa invece maschera. In un libro dedicato al medesimo tema, apparso anni fa ma sempre attuale, Il volto e l’anima (Bompiani), la semiologa Patrizia Magli distingue tra Viso, che deriva dal latino visus, participio passato di videre, “vedere”, e Faccia, sempre dal latino facies, “aspetto”, “forma”, d’etimologia invece più incerta. Il viso non è una semplice parte del corpo, ma, per dirla con il filosofo Emmanuel Lévinas, è nel viso che si compie la presenza che trascende ogni rappresentazione che se ne può fare. Faccia è una forma dotata di una certa superficie, è un limite, come suggerisce il significato geometrico del termine; tuttavia il viso è anche faccia, superficie delimitata e carica di senso, su cui agisce lo sguardo di chi osserva. Patrizia Magli sostiene che la faccia è il risultato di una costante messa a fuoco e ritaglio di questa superficie da parte di un osservatore; sarebbe la parte che sta per il tutto. Volto, vultus, poi, è il termine latino più antico per indicare il viso. La semiologa afferma che il nesso tra faccia e socialità è molto forte, testimoniato da quelle espressioni d’uso comune come: “salvare” o “perdere” la faccia. Oggi che il contatto “faccia a faccia” si è trasferito su Internet – Facebook è uno dei termini più citati –, i mass media sottraggono al volto la sua presenza corporea, modificando una delle fondamentali abitudini della nostra percezione che comporta di necessità riconoscere i volti. Non a caso Don Abbondio, scrive Manzoni nei Promessi sposi, spiega al suo interlocutore che appena vide quelle facce, ovvero i volti dei bravi, pensò bene di scappare. Belting precisa che il passaggio a Internet ha fatto sì che il volto pubblico, nonché celebre, non è più espressione di una determinata classe sociale, dal momento che la celebrità è data solo dai media: anche i ricchi per essere celebri devono avere una faccia, come capì Andy Warhol quando propose ai suoi collezionisti i loro ritratti. L’artista americano cominciò così a riprodurre i volti celebri della sua epoca; dopo Marilyn e Mao, realizzò ritratti per personaggi come Gianni Agnelli, all’epoca tra le persone più cool e note del mondo occidentale: avevano tutti una faccia. Oggi, nell’era globale, il volto è stato svincolato dalle fisionomie nazionali o locali, oltre che dai contesti economici e, scrive Belting, siamo sommersi da maschere facciali. Warhol l’aveva intuito lavorando sul ritratto del leader della Cina popolare, Mao, il cui ritratto gigantesco ha campeggiato sulla immensa piazza di Pechino per decenni.
Ora il processo è andato molto in là. La proliferazione dei volti è
senza dubbio l’effetto delle tecniche moderne di riproduzione del
ritratto, ribadisce Thomas Macho. Il Selfie è un perfetto esempio della
democratizzazione di quest’attività ritrattistica, come spiega Tiziano
Bonini, iniziata con l’irruzione della macchina fotografica, giustamente
definita da John Berger una scatola per trasportare “apparenze”. Senza
alcun moralismo, dobbiamo constatare che siamo tutti immersi in
quest’universo di apparenze. Non sarà che quello che oggi vediamo non
sono più volti, bensì maschere?, si chiede Belting. I vocabolari
etimologici definiscono Maschera il finto volto fatto di vario
materiale, indossato per motivi rituali; temine di origine etimologica
molto incerta, preromana, proviene probabilmente da un termine
piemontese-ligure masca, “strega”, presente già nell’editto di
Rotari nel VII secolo. Le maschere servivano nel passato per dare corpo
agli spiriti dei defunti, ma indicano anche l’elemento anonimo della
partecipazione al rito: chi la indossa si nasconde
Nel 1980 Roland Barthes in La camera chiara spiegò come la
fotografia può significare, ovvero definire, una generalità solo
assumendo una maschera. Era una riflessione che gli derivava da un
bellissimo racconto di Italo Calvino, L’avventura di un fotografo,
scritto negli anni Settanta; lo scrittore vedeva nella maschera “ciò
che fa di un volto il prodotto della società e della sua storia”. La
parola volto vale qui per faccia, nel significato che le attribuisce
Patrizia Magli; tanto è vero che nel corso del Novecento resta
paradigmatica l’impresa di August Sander. In Uomini del XX secolo
il fotografo tedesco ritrasse uomini e donne come maschere del tempo e
della società, tentativo paradigmatico cui furono, forse non a caso,
attivamente ostili i nazisti, tanto che Sander dovette nascondere il
materiale che aveva accumulato nella sua indagine. Cade qui il tema per
cui il libro di Hans Belting, per quanto non del tutto all’altezza dei
suoi precedenti, è comunque un’opera preziosa: la fotografia, dalle
macchine analogiche a quelle digitali, ha prodotto prima di tutto
maschere, là dove invece la pittura per metodo, forme e anche
intenzioni, produceva ritratti di volti. Si tratta di
quell’“effetto-Thanatos” descritto da Barthes, per cui fotografiamo i
vivi, e ora anche noi stessi nel Selfie, senza pensare che saranno
ricordati come morti, moltiplicando a dismisura con le macchine digitali
e i cellulari il nostro archivio d’immagini, e producendo così
inconsapevolmente maschere di morte. Barthes in modo preveggente ha
scritto che l’età della Fotografia “corrisponde all’irruzione del
privato nel pubblico, o piuttosto alla creazione di un nuovo valore
sociale, che è la pubblicità del privato”. Oltre vent’anni prima della
creazione di Facebook. Una profezia.
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