Lucrezia Reichlin
Berlino e la variabile greca
Non processate solo i debitori
Corriere della Sera, 5 gennaio 2015
Le modalità che le istituzioni e i governi europei adotteranno per
affrontare l’eventuale richiesta greca di una rinegoziazione del debito
sono essenziali per capire se le economie dell’Unione usciranno dalla
stagnazione nel 2015 e come evolverà il governo della moneta unica.
L’Italia deve quindi tenere gli occhi ben aperti: la visione che
prevarrà su come affrontare la crisi greca segnerà il futuro
di tutti, non solo quello di Atene. Secondo indiscrezioni riportate dal settimanale tedesco Der Spiegel , Angela Merkel starebbe considerando lo scenario
di un’uscita della Grecia dall’euro come preferibile a nuove concessioni sul debito.
Un passo di questo tipo da parte di Berlino stupirebbe — e non a caso
ieri fonti governative hanno negato cambi di linea. Nonostante i
progressi ottenuti dal 2010, infatti, è irrealistico pensare che
l’eurozona non sia più esposta a una crisi finanziaria e politica in
caso di «Grexit». Difficile credere che la Germania non tema questa
prospettiva. Interpreto piuttosto le indiscrezioni giunte dalla
Cancelleria come un segnale: la Germania non è disposta ad accettare,
anche di fronte al ricatto di un’uscita dalla zona euro, una sostanziale
svalutazione del debito che Atene ha con le istituzioni europee (il
cosiddetto «debito ufficiale»), in particolare con la Banca centrale. Un
default sul «debito ufficiale» — quello nei confronti di Stati ed enti
pubblici (pari ormai all’80% del totale) e non più con i privati, come
accadde in occasione della precedente ristrutturazione che portò il
debito greco a una riduzione stimata in circa 100 miliardi —
comporterebbe de facto un’uscita della Grecia: non tanto per
l’atteggiamento punitivo dei tedeschi, ma perché indurrebbe la Bce a non
accettare più il debito greco come collaterale nelle operazioni di
finanziamento alle banche.
È davvero questa l’intenzione di Alexis Tsipras? Io credo che l’astro
nascente della sinistra greca sia consapevole di quanto una posizione di
questo genere si rivelerebbe suicida. Suo obiettivo è invece chiamare
una trattativa che parta dal riconoscimento di come la sola combinazione
di riforme strutturali e consolidamento dei conti pubblici si sia
rivelata fallimentare. Pur in dissenso con gli aspetti populisti del
programma di Syriza, questo messaggio è ormai largamente condiviso da
osservatori di provenienza e matrice politica diversa.
Ne è un esempio il discorso pronunciato nel giugno scorso alla Banca dei regolamenti internazionali da Benjamin Friedman.
Il rispettato studioso di economia monetaria all’università di Harvard
ha sostenuto che alla radice della stagnazione europea c’è il fallimento
delle strategie sul debito sovrano: parliamo del problema rappresentato
dal fatto che alcuni Stati membri Ue hanno contratto un debito che non
saranno in grado di ripagare. Un’analisi che condividiamo ormai in
molti.
Le difficoltà nell’affrontare la questione sono oggettive. All’origine
c’è la peculiarità della situazione nell’eurozona, un’area dove il
debito di uno Stato membro è emesso in una moneta che quello Stato non
ha diritto di stampare. A questa peculiarità, si aggiunge quella per cui
il debito degli Stati più a rischio è ormai, quasi interamente,
detenuto da investitori istituzionali e soprattutto dalla Bce.
Il modo in cui l’Europa si è mossa sinora non convince. Sono state
imposte regole molto strette sul consolidamento di bilancio,
demonizzando ogni forza politica in dissenso dalla linea del rigore e
lasciando alla Banca centrale il monopolio delle politiche di management
della domanda. Una dinamica che sottopone la Bce a pressioni che
potrebbero mettere a repentaglio la sua stessa credibilità.
Trovare una soluzione diversa, che preveda un accordo sul debito capace
di alleggerirne il peso sull’economia senza far oscillare la stabilità
finanziaria dell’Unione, non è certo semplice. Accettare però che il
futuro dell’Eurozona sia dettato esclusivamente dagli interessi dei
creditori significa subordinare a questi interessi la crescita delle
economie di tutti i Paesi dell’Unione.
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