Visualizzazione post con etichetta Svevo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Svevo. Mostra tutti i post

giovedì 5 gennaio 2017

Svevo alias Bloom





Enrico Terrinoni, Joyce e Svevo, affinità elettive e biografiche, il manifesto 5 gennaio 2017


Il 20 settembre del 1928 James Joyce scrive a una sua mecenate: «Il povero Italo Svevo è morto giovedì scorso in un incidente automobilistico. In qualche modo quando si tratta di ebrei sospetto sempre un suicidio… Ne sono rimasto molto addolorato ma penso che i suoi ultimi cinque o sei anni siano stati felici». Parole che rispondono idealmente ai dubbi sollevati da Svevo stesso qualche mese prima nel suo Profilo autobiografico: «Lo Svevo seguiva con simpatia l’inaudito successo del Joyce, ma chissà se l’artista tanto differente da lui avrebbe trovato nel proprio cuore un po’ di simpatia per il confratello meno fortunato?»
SAPPIAMO ORA assai bene quanto l’artista più famoso non solo avesse a cuore il suo amico meno blasonato, ma anche quale fondamentale ruolo giocò nel diffonderne l’opera in quegli anni difficili. Joyce non si limitò a insegnare l’inglese a Joyce o a presentarne i romanzi a critici influenti. Egli ne rese immortale persino la moglie, Livia Veneziani, regalando il suo nome a un personaggio immortale del Finnegans Wake: Anna Livia Plurabelle; e questo dopo aver, in passato, modellato il personaggio di Leopold Bloom proprio sui caratteri di Ettore Schmitz.
Del rapporto tra Svevo e Joyce ci parla in maniera informata e godibilissima il bel libro di Stanley Price, James Joyce and Italo Svevo (Somerville Press, pp. 248, euro 18), entrando nel vivo non solo di un’amicizia letteraria, ma nel percorso di due vite parallele; come se ognuno idealmente vivesse, o volesse vivere la vita dell’altro. Le somiglianze biografiche sono scioccanti. Entrambi figli di padri economicamente poco avveduti, entrambi in gioventù addetti alla corrispondenza in banche austriache (Joyce a Roma, Svevo a Trieste), entrambi a lungo affiancati da fratelli che conservavano il loro mito e ne trascrivevano le gesta, entrambi autori «pubblicati» prima dei vent’anni; e infine, entrambi avversi alla religione.
MA FERMARSI alle affinità è riduttivo, perché nel caso della grande arte, ogni cosa è anche il suo opposto. A tenerli distanti vi era l’autostima, altissima nel caso dell’irlandese, bassissima in quello del triestino; e poi l’atteggiamento nei confronti della psicanalisi. Svevo ne era affascinato, Joyce la considerava soltanto fumo negli occhi. E infine, la passione per il fumo che ebbe Svevo fu pari soltanto all’amore che Joyce provò per l’alcool. Ma quel che allontanandoli più li avvicina, ovvero, quel che nella vita dell’uno diviene la fiction dell’altro, è l’atteggiamento nei confronti della morte. Svevo temeva d’esser sepolto vivo, e nel testamento del 1927 scrive: «Mi raccomando: puntura al cuore». Parole che ricordano macabre riflessioni di Bloom nel sesto episodio dell’Ulisse quando al cimitero osserva dei becchini lanciare pesanti zolle su una bara «E se fosse stato vivo tutto il tempo? Ops! Perbacco, sarebbe orribile! No, no: è morto, ovviamente. Ovviamente è morto. È morto lunedì. Dovrebbero avere una qualche legge per fargli trafiggere il cuore ed esserne certi».
UNICO ERRORE, allora, ma curiosamente molto rivelatore in questo libro affascinante, è che l’ironica ma serissima raccomandazione del testamento Svevo di cui sopra, in traduzione diviene: «Please: pierce my heart», ovvero: «per favore: trafiggetemi il cuore». Joyce avrebbe sorriso al pensiero di quanto quest’immagine sappia adattarsi ai sogni reconditi e repressi di Leopold Bloom, il personaggio tramite cui Italo Svevo vivrà in eterno.

mercoledì 4 febbraio 2015

Italo Svevo, Angiolina



Senilità (1898), capitolo primo



Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il
volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute,
camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che
la fasciava, guardando il suolo ch'ella ad ogni passo toccava con l'elegante ombrellino
come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva. Quando
credette di aver compreso disse:
- Strano - timidamente guardandolo sottecchi. - Nessuno mi ha mai parlato così. - Non
aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio che a lui non
spettava, di allontanare da lei il pericolo. L'affetto ch'egli le offriva ne ebbe l'aspetto di
fraternamente dolce.
Fatte quelle premesse, l'altro si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla
circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei lunghi anni il
suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare
e ringiovanire come se fossero nate in quell'istante, al calore dell'occhio azzurro di
Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato, di comporre, di trarre
dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non
lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava!
Raggiante di gioventù e bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il
triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l'avvenire ch'ella,
certo, non avrebbe compromesso.

 

sabato 31 gennaio 2015

Philip Roth intervista Primo Levi





ROTH: Nel Sistema periodico, il tuo libro sul sapore forte e amaro della tua esperienza di chimico, tu parli di una collega, Giulia, che spiega la tua mania di lavorare con il fatto che tu, poco più che ventenne, eri timido con le donne e non avevi una ragazza. Ma credo che sbagliasse. La tua effettiva mania di lavorare ha un'origine più profonda. Il lavoro sembra un tema ossessivo per te, persino nel tuo libro sulla detenzione ad Auschwitz. "Arbeit Macht Frei," il “Lavoro rende liberi”:sono le parole incise dai nazisti all'ingresso di Auschwitz. Ma il lavoro ad Auschwitz è un'orrenda parodia del lavoro, senza scopo e senza senso; è fatica come punizione, che porta a una morte tormentosa. Si può considerare la tua intera fatica letteraria come tesa a restituire al lavoro il suo senso umano, redimendo la parola Arbeit dall'irridente cinismo con il quale i tuoi datori di lavoro di Auschwitz l'avevano sfregiata. Faussone ti dice: "Ogni lavoro che incomincio è come un primo amore". Gli piace parlare del suo lavoro quasi quanto gli piace lavorare. Faussone è l'Uomo Lavoratore, reso realmente libero dalla sua fatica.

LEVI: Non credo che Giulia avesse torto nell'attribuire la mia mania di lavorare alla mia timidezza di allora con le ragazze. Questa timidezza, o inibizione, era un dato di fatto, concreto, doloroso e pesante. A quel tempo, era molto più importante per me che non la passione per il lavoro: del resto, il lavoro nella fabbrica di Milano che ho descritto nel capitolo Fosforo del Sistema periodico era un falso lavoro, in cui io non credevo; la catastrofe dell'armistizio italiano era già nell'aria, e non avrebbe avuto molto senso ignorarla per immergersi in un lavoro fittizio e scientificamente insensato. Non ho mai cercato seriamente di analizzare la mia timidezza sessuale di allora, ma è certo che essa era in buona parte condizionata dalle leggi razziali; anche altri miei amici ebrei ne soffrivano, alcuni nostri compagni di scuola << ariani >> ci deridevano, dicevano che la circoncisione non era altro, in sostanza, che una castrazione, e noi, almeno a livello inconscio, tendevamo a crederci (aiutati in questo dal puritanesimo che dominava nelle nostre famiglie). Di conseguenza, credo che a quel tempo il lavoro fosse effettivamente per me un equivalente sessuale piuttosto che una passione. Tuttavia, per quanto mi riguarda, sono ben consapevole che dopo il Lager il lavoro, anzi, i miei due lavori (la chimica e lo scrivere) hanno avuto, e tuttora hanno, un'importanza fondamentale nella mia vita. Sono convinto che l'uomo normale è biologicamente costruito per un'attività diretta a un fine, e che l'ozio, o il lavoro senza scopo (come l'Arbeit di Auschwitz) provoca sofferenza e atrofia. Nel mio caso, e in quello del mio alter ego Faussone, il lavoro si identifica con il “problem solving,” il risolvere problemi. Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale.
ROTH: Se questo è un uomo si conclude con un capitolo in titolato Storia di dieci giorni, nel quale tu descrivi, in forma di diario, come hai resistito dal 18 al 27 gennaio del 1945 tra un piccolo manipolo di malati e moribondi nell'infermeria improvvisata del campo, dopo la fuga dei nazisti verso Ovest con circa ventimila prigionieri sani. Quel racconto mi suona come la storia di Robinson Crusoe all'inferno, con te, Primo Levi, nei panni di un Crusoe che strappa ciò che gli serve per vivere ai magmatici avanzi di un'isola irriducibilmente spietata . Ciò che mi ha colpito in quel capitolo, come in tutto il libro, è quanto il pensare abbia contribuito a farti sopravvivere, il pensare di una mente pratica, umana, scientifica. La tua non mi pare una sopravvivenza determinata da una animalesca resistenza biologica o da una straordinaria fortuna, ma radicata semmai nel tuo mestiere, nel tuo lavoro, nella tua condizione professionale, nell'uomo della precisione, nell'uomo che verifica esperimenti e cerca il principio dell'ordine, posto di fronte al perverso capovolgimento di tutto ciò che per lui era un valore. Sì il pezzo numerato di una macchina infernale, ma un pezzo numerato con un'intelligenza metodica che deve sempre capire. Ad Auschwitz dici a te stesso: “penso troppo per resistere sono troppo civilizzato.” Ma secondo me l'uomo civilizzato che pensa troppo è inscindibile dal sopravvissuto. Lo scienziato e il superstite sono una cosa sola.
LEVI: Benissimo! Hai colpito nel segno. È proprio vero che, in quei memorabili dieci giorni del gennaio 1945, io mi sono sentito come Robinson Crusoe, ma con una importante differenza. Robinson si era messo al lavoro per la sua individuale sopravvivenza; io ed i miei due compagni francesi eravamo consci, e felici, di lavorare finalmente per uno scopo giusto e umano, quello di salvare le vite dei nostri compagni ammalati. Quanto al perché della sopravvivenza, è una questione che mi sono posto più volte, e che molti mi hanno posto. Insisto: regole generali non ce n'erano, salvo quelle fondamentali di entrare in Lager in buona salute e di capire il tedesco. A parte questo, ho visto sopravvivere persone astute e stupide, coraggiose e vili, pensatori e folli (ad esempio, quell'Elias che ho descritto in Se questo è un uomo). Nel mio caso personale, la fortuna ha avuto un ruolo essenziale in almeno due occasioni: nell'avere incontrato il muratore italiano a cui ho accennato prima, e nell'essermi ammalato una volta sola, ma al momento giusto. Tuttavia, quello che tu dici, e cioè che per me il pensare, l'osservare, è stato un fattore di sopravvivenza, è vero, anche se a mio parere ha prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva. Non so se questo dipenda dalla mia formazione professionale, o da una mia insospettata vitalità, o da un istinto salutare: di fatto, non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un'immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo.

ROTH: In Se questo è un uomo la descrizione e l’analisi del tuo atroce ricordo del gigantesco esperimento biologico e sociale fatto dai tedeschi sono controllate con grande puntualità da un interesse quantitativo per i modi in cui un uomo può venire trasformato o disgregato e può perdere le sue proprietà caratteristiche come una sostanza che si decompone per una reazione chimica. Se questo è un uomo equivale alle memorie di un teorico della biochimica morale che sia stato precettato come organismo campione per essere sottoposto alla più bieca sperimentazione di laboratorio. La persona prigioniera nel laboratorio dello scienziato folle riassume in sullo scienziato razionale. Nella Chiave a stella - che si sarebbe potuta benissimo intitolare Questo è un uomo - tu dici a Faussone tuo Shahrazad operaio che essendo agli occhi del mondo un chimico e sentendomi... il sangue dello scrittore nelle vene come risultato tu hai <due anime in corpo che sono troppe. Direi che c'è un anima sola capace e senza saldature. Che non sono inscindibili soltanto il sopravvissuto e lo scienziato ma anche lo scrittore e lo scienziato

LEVI: Più che una domanda, questa è una diagnosi, che accetto e di cui ti ringrazio. Ho vissuto il Lager nel modo più razionale che potevo, e ho scritto Se questo è un uomo sforzandomi di spiegare agli altri, e a me stesso, i fatti in cui ero stato coinvolto, ma senza precisi intenti letterari. Il mio modello, o se preferisci il mio stile, era quello del weekly report, del rapportino settimanale che si usa fare nelle fabbriche: deve essere conciso, preciso, e scritto in un linguaggio accessibile a tutti i livelli della gerarchia aziendale. Non certo in linguaggio scientifico: del resto, scienziato avrei voluto diventare, ma la guerra e il Lager me lo hanno impedito, e ho dovuto accontentarmi di essere un tecnologo durante tutta la mia vita professionale. Sono d'accordo con te sul fatto che ho <una sola anima senza saldature>, e ancora una volta ti ringrazio. La mia affermazione che <due anime sono troppe> è per metà uno scherzo, ma per l'altra metà allude a cose molto serie. Ho vissuto in fabbrica per quasi trent'anni, e devo ammettere che non c'è contraddizione fra l'essere un chimico e l'essere uno scrittore: c'è anzi un reciproco rinforzo. Ma stare in fabbrica, anzi, dirigere una fabbrica, significa molte altre cose diverse e lontane dalla chimica: assumere e licenziare personale; litigare col padrone, con clienti e con fornitori; far fronte a incidenti, ed essere chiamati al telefono, magari di notte o durante una cena da amici; occuparsi di noiose faccende burocratiche; e tanti altri “soul destroying tasks”, compiti che distruggono l'anima. Tutti questi affari sono brutalmente incompatibili con lo scrivere, che esige una certa pace dell'anima; perciò mi sono sentito veramente nato una seconda volta quando ho raggiunto l'età della pensione e ho potuto dare le mie dimissioni, rinunciando così alla mia anima numero uno.

ROTH: Il seguito di Se questo è un uomo è La tregua. Il tema è il tuo viaggio di ritorno da Auschwitz in Italia. C'è davvero una dimensione mitica in questo tormentato viaggio, specialmente nella storia del tuo lungo periodo di gestazione in Unione Sovietica, in attesa di essere rimpatriato. Ciò che sorprende ne La tregua - che avrebbe potuto, e comprensibilmente, essere stata improntata al lutto, a un inconsolabile disperazione - è l'esuberanza. La tua riconciliazione con la vita si compie in un mondo che a tratti pareva simile al caos primordiale. Eppure tu vi appari straordinariamente interessato a tutto, pronto a ricavare da tutto divertimento e cultura al punto che mi sono domandato se nonostante la fame, il freddo e le ansie, persino nonostante i ricordi, davvero tu abbia mai vissuto mesi migliori di quelli che definisci una parentesi di disponibilità illimitata, un provvidenziale ma irripetibile regalo del destino. Tu sembri una persona la cui esigenza più profonda è innanzi tutto di aver radici - nella professione, nella razza, nel luogo, nella lingua, eppure, quando ti sei trovato più solo e sradicato di quanto si possa essere hai considerato quella condizione un regalo.

LEVI: Un amico, ottimo medico (era fratello di Natalia Ginzburg. conosci i suoi libri ? È una Levi anche lei, ma non mia parente), mi ha detto molti anni fa: “I tuoi ricordi di prima e di dopo sono in bianco e nero; quelli di Auschwitz e del viaggio di ritorno sono in technicolor”. Aveva ragione. La famiglia, la casa e la fabbrica sono cose buone in sé, ma mi hanno privato di qualcosa di cui ancora oggi sento la mancanza, cioè dell’avventura. Il mio destino ha voluto che io trovassi avventura proprio in mezzo al disordine dell'Europa devastata dalla guerra. Tu sei del mestiere, e sai come vanno queste cose. La tregua è stato scritto quattordici anni dopo Se questo è un uomo; è un libro più consapevole, più letterario, e molto più profondamente elaborato, anche come linguaggio. Racconta cose vere, ma filtrate. E stato preceduto da innumerevoli versioni verbali: intendo dire, ogni avventura era stata da me raccontata molte volte a persone di cultura diversa (spesso a ragazzi delle scuole medie), e aggiustata a poco a poco in modo da provocare le reazioni più favorevoli. Quando Se questo è un uomo ha cominciato ad avere successo, e io ho cominciato a intravedere per me un futuro come scrittore, mi sono accinto alla stesura. Volevo divertirmi scrivendo, e divertire i miei futuri lettori; perciò ho dato enfasi agli episodi più strani, più esotici, più allegri: soprattutto, ai russi visti da vicino. Ho relegato all'inizio e alla fine del libro i tratti, come tu dici, di lutto e di disperazione inconsolabile. A proposito del radicamento, della “rootedness”: è vero che io ho radici profonde, e che ho avuto la fortuna di non esserne stato privato: la mia famiglia è stata in buona parte risparmiata dalla strage, e oggi io continuo ad abitare addirittura nell'alloggio dove sono nato. La scrivania su cui scrivo sta esattamente nel luogo in cui, secondo la leggenda, sono stato partorito. Perciò, quando mi sono trovato sradicato quanto più non si potrebbe, ho certo provato sofferenza; ma questa è stata compensata dal fascino dell'avventura, dagli incontri umani, dalla dolcezza della “convalescenza” dal morbo di Auschwitz. La mia “tregua” russa, nella sua realtà storica, ha cominciato ad apparirmi come un dono solo molti anni dopo, quando l'ho depurata rivivendola e scrivendola.

ROTH: Se non ora, quando? è diverso da tutto ciò che ho letto di tuo. Pur essendo puntualmente tratto da reali eventi storici, il libro è presentato come un puro racconto picaresco delle avventure di un piccolo gruppo di partigiani ebrei di origine russa e polacca, che tendono imboscate ai tedeschi dietro le loro linee sul fronte orientale. Gli altri tuoi libri hanno forse trame meno <fantasiose, ma mi hanno colpito per una maggiore fantasia sul piano tecnico. L'impulso creativo che sta alle spalle di Se non ora, quando? dà l'impressione di essere più limitato, più parziale - e quindi meno liberatorio per lo scrittore - di quelli che hanno dato vita alle opere autobiografiche. Mi domando se tu concordi su questo: se scrivendo dell'audacia degli ebrei che si ribellarono, tu abbia sentito di fare un qualcosa che bisognava fare, se ti sentissi responsabile di una rivendicazione politica e morale che non poteva comparire altrove, anche quando il tema è il tuo destino, inconfondibilmente ebraico.

LEVI: Se non ora, quando? è un libro che ha avuto un destino imprevisto. I motivi che mi hanno spinto a scriverlo sono diversi: li enumero qui per ordine di importanza. Avevo fatto una specie di scommessa con me stesso: dopo tanta autobiografia aperta o mascherata, sei o non sei uno scrittore a pieno titolo, capace di costruire un romanzo, di creare personaggi, di descrivere ambienti in cui non sei stato ? Mettiti alla prova ! Volevo divertirmi a scrivere un “western” ambientato in uno scenario poco comune; volevo divertire i miei lettori raccontando loro una storia sostanzialmente ottimistica, piena di speranza, a tratti allegra, anche se sullo sfondo della strage. Volevo rompere un luogo comune ancora prevalente in Italia: un ebreo è un mite, uno studioso (pio o laico), una persona ribelle, umiliata che ha subìto secoli di persecuzioni senza mai ribellarsi. Mi sembrava doveroso rendere omaggio a quegli ebrei che in condizioni disperate avevano trovato la forza e l'intelligenza di resistere ai nazisti. Nutrivo anche l'ambizione di essere il primo scrittore italiano a descrivere il mondo yiddish; volevo insomma “utilizzare” la mia popolarità in Italia per far giungere fra le mani di molti lettori un libro che avesse come soggetto la cultura, la lingua, la mentalità e la storia, dell'ebraismo ashkenazita, che in Italia è virtualmente sconosciuta. Questi motivi sono stati riconosciuti come validi in misura diversa nei diversi paesi in cui il libro è stato pubblicato. In Italia esso ha avuto pieno successo, sotto tutti i suoi aspetti. Lo stesso si può dire per l'Inghilterra e la Germania, almeno a giudicare dalle prime reazioni del pubblico e della critica. In Francia è passato sostanzialmente inosservato. Negli Stati Uniti, come sai, ha avuto un successo moderato: la sua Yiddishkeit è stata giudicata risaputa; un soggetto insomma troppo noto perché ancora se ne parli. Inoltre, il lettore americano si è accorto di un fatto vero, che cioè si tratta di un libro “yid” scritto da un autore che “yid” non è, ma che ha cercato di diventarlo studiando testi e ascoltando racconti. Personalmente io sono soddisfatto di questo libro, soprattutto perché mi sono divertito molto nel progettarlo e nello scriverlo. Per la prima e unica volta nella mia carriera di scrittore, ho avuto l'impressione (quasi un'allucinazione) che i miei personaggi fossero vivi, mi stessero intorno, e mi suggerissero loro stessi le loro avventure e i loro dialoghi. L'anno che ho impiegato a scriverlo è stato un anno felice; perciò, indipendentemente dal risultato, per me questo libro è stato liberatorio.

ROTH: Parliamo ora della fabbrica di vernici. Oggigiorno molti scrittori hanno fatto gli insegnanti, altri i giornalisti, e la maggior parte degli scrittori sopra i 50 anni hanno prestato servizio militare; per questo o quel paese. C'è un elenco impressionante di scrittori che hanno esercitato la medicina e contemporaneamente fatto libri, e altri che sono stati uomini di chiesa. T. S. Eliot era editore, e, come noto, Wallace Stevens e Franz Kafka lavoravano per grandi società assicurative. Che io sappia, solo due scrittori di rango sono stati dirigenti di una fabbrica di vernici: tu a Torino, in Italia, e Sherwood Anderson a Elyria, nell'Ohio. Anderson dovette abbandonare la fabbrica di vernici (e la famiglia) per diventare scrittore; sembra invece che tu sia diventato lo scrittore che sei oggi rimanendovi, e continuandovi la tua carriera. Mi domando se ti consideri addirittura più fortunato - e magari più agguerrito per scrivere - di quanti tra noi non hanno alle spalle una fabbrica di vernici e tutto quanto comporta quel tipo di contesto.

LEVI: Sono approdato all'industria delle vernici per puro caso. Mi sono occupato piuttosto poco di vernici propriamente dette: la nostra fabbrica, fin dai primi anni, si è specializzata nella produzione di smalti isolanti per conduttori elettrici di rame. A quel tempo contavo fra i trenta o quaranta specialisti del mondo in questo ramo: di filo smaltato sono fatti gli animali che hai visto nel mio studio. Onestamente non conoscevo il nome di S. Anderson. Ho letto ieri una sua breve biografia: no, a me non sarebbe mai venuto in mente di abbandonare la famiglia e la fabbrica per mettermi a fare lo scrittore a tempo pieno come ha fatto lui; avrei avuto paura del salto nel buio, ed oltre tutto avrei perso il diritto alla pensione. Al tuo breve elenco di scrittori verniciai devo però aggiungere un terzo nome, quello di Italo Svevo (1861 1928), ebreo triestino convertito al cattolicesimo: Svevo fu direttore commerciale di una fabbrica di vernici di Trieste, la Società Veneziani, che apparteneva a suo suocero e che si è sciolta pochi anni fa. Fino al 1918 Trieste apparteneva all'Austria, e questa Società era famosa perché forniva alla Marina austriaca una eccellente vernice antivegetativa per le carene delle navi da guerra; dopo il 1918 Trieste divenne italiana, e la vernice venne fornita alla Marina italiana e a quella inglese. Per trattare con la British Admiralty Svevo prese lezioni d'inglese da James Joyce, che a quel tempo insegnava a Trieste; Joyce divenne amico di Svevo, e lo aiutò nella pubblicazione delle sue opere. La vernice accennata si chiamava Moravia. La coincidenza con lo pseudonimo del noto scrittore italiano non è casuale: sia l'industriale triestino, sia lo scrittore romano ricavarono questo nome dal cognome di una loro comune parente dal lato di madre. Scusami per questo pettegolezzo che forse è poco pertinente. Sì, come accennavo prima, non ho rimpianti. Non credo di aver sprecato il mio tempo dirigendo una fabbrica (di vernici o di qualsiasi altra roba): ho acquistato altre esperienze preziose, che si sono addizionate e combinate con quelle di “Auschwitz.” 

  New York Times Book Review. October 12 (1986):1,40,41.

domenica 12 maggio 2013

Camilleri, il rapporto con il padre

 

 


Walter Porcedda
La Nuova Sardegna, 11 maggio 2013

«Tenente Camilleri! Cosa fa? Si defili». Chi dà quell'ordine nei giorni della Grande Guerra fu Emilio Lussu comandante della Brigata Sassari.E così salvò la vita a un ufficiale siciliano. A raccontarlo dopo cento anni è il figlio, lo scrittore Andrea Camilleri. Rivela l'episodio, come in un coup de théâtre, al termine dell’appassionante lezione magistrale, ieri nell'aula magna del Rettorato, rigurgitante di pubblico accorso ad ascoltare le parole del letterato che seguono quelle della laudatio del docente Giuseppe Marci. E’ l’inizio della cerimonia che si concluderà con la consegna allo scrittore, da parte del rettore Giovanni Melis, della Laurea honoris causa in Lingue e letterature moderne europee e americane.
L'aneddoto giunge alla fine di una avvincente analisi sul rapporto tra genitori e figli che ha visto lo scrittore concentrarsi tra Giovanni Verga, Luigi Pirandello, Grazia Deledda e Italo Svevo. E' in questo contesto che emerge quel racconto. Dopo un rapporto contrastato come spesso sono quelli tra un genitore e un figlio, giunge il momento tra i due di dirsi tutto. Accade quando il padre di Camilleri sarà ricoverato per una grave malattia. Lo scrittore allora ultraquarantenne, decide di stargli accanto ogni sera.
Come quella notte. Verso l'alba «aveva aperto gli occhi e, alzatosi mi fissava. A voce alta gridava: "Tenente Camilleri, tenente Camilleri". Io non sapevo cosa rispondere. Continuò a chiamarmi con tono imperioso "Tenente Camilleri". Capii allora che stava rivivendo un momento di guerra e io ero lui. E lui era Lussu. "Signorsì" risposi. "Presto tenente si defili, non vede che è sotto tiro?". Indugiai. Ero commosso, emozionato. Allora lui insistette imperioso: "Si defiliii !".
Molti anni prima gli avevo domandato: "Babbo, ma tu quando andavi all'attacco non provavi paura?" E lui: "Certo! Ma con quella gente lì, se non ti dimostravi coraggioso…".
"Si defili", ripetè. Non sapevo più che cosa rispondere. Allora lui disse: "Si defili, gli ho detto, o vuole insegnarci il coraggio, coglione di un siciliano". "Signorsì”.
Prima di quella notte Camilleri come Zeno di Svevo sentì immediato il bisogno di stare accanto al padre. «Non potevo lasciare che se ne andasse senza avergli spiegato le ragioni di certe mie convinzioni che l'avevano profondamente addolorato. Ero l'unico figlio che aveva, e penso, di averlo deluso da ragazzo e nella prima giovinezza in tante aspettative. Voleva che andassi con lui alle partite di calcio. E io mi rifiutai. Voleva che lo accompagnassi a caccia, qualche volta ci andai ma poi smisi. Voleva insegnarmi a giocare a biliardo, ma non riuscì mai a farmi prendere in mano una stecca. L'amavo intensamente ma non mi piacevano le cose che faceva. Al contrario amavo molto i libri che leggeva. Non era un intellettuale ma un uomo di buone letture. Era stato fascista della prima ora, squadrista, ma non facinoroso, né settario (e infatti sugli ebrei disse che "quella della razza era una tragica buffonata per fare piacere a Hitler"). Fu negli ultimi mesi del ’42 che prese le distanze pubblicamente dal regime. Su per giù nello stesso periodo io maturai segretamente la mia conversione al comunismo».
Adesso sentiva la necessità di un ultimo colloquio con lui che chiudesse il discorso. «Prendendoci per mano ci parlammo. A cuore aperto, sussurrando. Quasi una lunga confessione. Le parole ora scorrevano fra di noi, senza intoppi. Non ci fu una domanda che non ebbe una risposta». Ed è proprio in questo intimo racconto la chiave per comprendere le relazioni tra giovani e vecchi. Camilleri prende le mosse dal "Mastro Don Gesualdo" di Verga focalizzandosi sulla "roba", cioè il patrimonio accumulato che andrà disperso. Sono quelle linee di contrasto di tradizione rintracciabili anche in "L'incendio nell'oliveto" di Deledda in cui viene fuori la paura del nuovo. Lo scontro tra due mondi chiusi sulle proprie certezze, senza dialoghi che possano aprire spiragli.
E solo con il passare dei tempi questa lacerazione muta. Non sta più nell'avere ma nell'essere come in "I vecchi e i giovani" di Pirandello. Ma è proprio in "La coscienza di Zeno", nel quarto capitolo che si legge come questo conflitto sia collegato alla difficoltà di comunicare. Entrambi, dice Camilleri, hanno difficoltà a farlo perché non hanno la stessa età e non condividono le identiche esperienze. Il contatto può avvenire solo se c'è la volontà reciproca di aprire un dialogo. Rendendo omaggio alla memoria del padre, Camilleri ha dimostrato come la letteratura sia il racconto del mondo. Di quello che siamo stati e saremo.
Ed ecco gli ultimi attimi di quei momenti vissuti con il padre.
“Ricadde in un torpore quieto. Io invece ero profondamente scosso. Dopo un po’ vidi alzare la mano all'altezza del viso e credetti che volesse fare qualcosa che non gli riusciva. Pensando che gli dava fastidio il boccaglio dell'ossigeno, gli presi la mano, ma lui a fatica se la portò sulla fronte. Capii che si voleva fare il segno della croce. Aprì gli occhi, mi guardò. Aveva uno sguardo lucidissimo. "Vai via", mi disse, "vai via e torna dopo che ti sei fumato una sigaretta". Ubbidii. E quando, dopo aver fumato, andai verso la sua camera, sapevo che non l'avrei trovato più”.

-----------------------------------------------------------------------------------------------

Il testo della lectio magistralis esce sul Sole24ore di oggi http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-05-11/camilleri-domani-domenicale-sole-170611.shtml?uuid=AbIdr4uH&fromSearch
Sullo stesso tema, qui, nel blog belfagor
http://machiave.blogspot.it/2013/05/in-mancanza-del-padre-psicologia-e.html
http://machiave.blogspot.it/2013/04/recalcati-la-pastorale-americana.html