Islamico, islamista, musulmano, jihadista. Spesso in questi
ultimi giorni abbiamo letto o ascoltato questi aggettivi, a volte usati
in modo improprio, a volte addirittura alternati come fossero sinonimi. Francesca Paci,
giornalista de La Stampa esperta di Islam, ci aiuta a far chiarezza sul
corretto utilizzo di questi termini e fornisce un breve glossario
dell’islam.
Islam: è una religione monoteista, una delle tre
religioni rivelate o anche dette “del Libro” (insieme a cristianesimo e
ebraismo). Nasce nel VII secolo d.C. nella penisola arabica per opera di
Maometto, un umile cammelliere a cui Dio avrebbe trasmesso oralmente il
Corano e che i musulmani considerano l’ultimo profeta (considerano un
profeta anche Gesù).
Islamismo: è l’espressione con cui si indica l’islam inteso come ideologia politica. Islamista è un aggettivo diverso da islamico,
nonostante spesso venga utilizzato come sinonimo. Mentre infatti la
parola islamico, così come musulmano, indica il fedele (musulmano o
islamico), il luogo di culto, un rito, una pratica o qualsiasi ambito
relativo alla sfera religiosa, dire “islamista” significa far
riferimento alla dimensione politica dell’islam.
Musulmano (o islamico): è il seguace dell’islam, la parola musulmano (in arabo muslim),
significa sottomesso. Ci sono circa 1,5 miliardi di musulmani nel
mondo, dei quali gli arabi sono poco più di 300 milioni. Tra i
principali paesi musulmani non arabi ci sono la Turchia, il Pakistan,
l’Iran e l’Indonesia (dove vive il 13% di tutti i fedeli dell’islam).
Jihad: che in arabo è maschile e si dice il jihad, significa “sforzo massimo”. Nell’islam ci sono due forme di jihad: il grande jihad, che indica lo sforzo individuale massimo per la crescita spirituale e il piccolo jihad, ossia la guerra santa, che può essere difensivo o offensivo. Jihad è anche un nome proprio.
Jihadista: è forse l’espressione più corretta per
indicare chi combatte, per esempio, con il Califfato in Siria. Il
termine “islamista” infatti, sebbene usato per indicare i movimenti
integralisti (e a quello scopo è comunque più appropriato di “islamico”)
si riferisce all’islam politico che non è necessariamente jihadista.
Mujaheddin: è la parola araba per indicare chi combatte il jihad, significa dunque combattente.
Umma: è la parola in arabo che indica la grande
famiglia del Profeta, vale a dire la comunità musulmana globale. Il
forte senso di appartenenza alla umma è quello che spesso viene
imputato ai musulmani perché si teme siano più fedeli alla propria
religione (una comunità transnazionale) che al Paese di cui sono
cittadini.
Corano: è il testo di riferimento dell’Islam, il più
sacro perché dettato da Dio a Maometto e viene considerato
ininterpretabile, vale a dire che a rigor di logica va preso così com’è
stato trascritto nel VII secolo (da qui gli infiniti problemi circa la
possibilità d’interpretare o meno il testo e aggiornarlo al presente,
istanza riformista che si è sempre scontrata con le scuole più
ortodosse). È diviso in 114 capitoli detti sure e a loro volta composti
di 6236 versetti.
Arabia Saudita: è la patria dell’islam perché è
nella penisola arabica che l’Islam è nato e perché è qui che si trovano i
due principali luoghi santi: la Mecca, città natale di Maometto e sede
della Ka’ba e Medina, dove Maometto si stabilì nel 622 e dov’è sepolto
(il terzo luogo santo è Gerusalemme).
Sunniti e sciiti: sono i due grandi rami in cui è diviso l’islam sin dai primi tempi della successione al Profeta. Alla morte di Maometto la umma
si divise tra sunniti – gli ortodossi, i seguaci della sunna
(tradizione), convinti che la successione spettasse ai governatori detti
Califfi – e gli sciiti – la fazione di Ali, il genero di Maometto che
avendo sposato la figlia del Profeta apparteneva alla medesima famiglia
ed era dunque considerato discendente per successione di sangue. I
sunniti sono la maggioranza del mondo musulmano (circa l’85%). Gli
sciiti si trovano soprattutto in Iran, Libano, Bahrein.
Wahabismo: è un movimento religioso interno all’islam sunnita fondato nel XVIII secolo in Arabia Saudita e basato sulla dottrina hanbalita. Quella hanbalita è una delle quattro scuole religiose dell’islam, la più rigorosa e integralista. I gruppi terroristi tipo al Qaeda ma anche lo Stato Islamico sono d’ispirazione wahabita.
Sharia: è la legge islamica che può essere
interpretata in modo metafisico o letterale. Quando viene interpretata
in modo letterale diventa (in potenza o in pratica) il codice
comportamentale di uno Stato. Le fonti della sharia sono soprattutto il Corano e la Sunna (gli hadith, i detti del Profeta). La sharia,
costruita nel VII/VIII secolo, prevede tra l’altro il taglio della mano
per i ladri, la lapidazione per le adultere, la legge del taglione
(occhio per occhio) e diverse altre forme di giustizia sommaria che però
nella realtà vengono applicate in pochissimi casi come nello Stato
Islamico in Siria, nell’Afghanistan dei talebani, in una certa misura in
Arabia Saudita.
P
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lunedì 26 gennaio 2015
domenica 6 luglio 2014
La sfida del califfo nero
Renzo Guolo
Il califfo nero
Quella sfida globale per guidare l’islam
la Repubblica, 6 luglio 2014
Esce allo scoperto il Califfo nero. Era una mossa attesa. Non si innesca una sfida simbolica di enorme portata, come proclamare la restaurazione del centro politico e religioso unitario dell’islam, senza uscire dalla clandestinità. Almeno da quella mediatica.
Per potersi imporre a uno scettico, frastornato, frammentato, mondo sunnita, Al Baghdadi ha bisogno di farsi conoscere. E, soprattutto, riconoscere. Oltre i confini del mondo delle avanguardie jihadiste.
Il nuovo ruolo gli impone l’inevitabile attenuazione delle regole di sicurezza che ne avevano sin qui occultato il volto. Almeno quello noto agli organi di sicurezza americani e iracheni, che ne avevano rilevato le fattezze sin dai tempi della sua detenzione a Camp Bucca, dove sino al 2009 è stato recluso per aver partecipato all’insurrezione seguita alla caduta di Saddam.
Così, anche per smentire le insistenti voci di una sua uccisione o ferimento, forse alimentate ad arte da rivali e intelligence ostili per farlo “emergere”, il Califfo nero si è fatto riprendere in una moschea di Mosul. Mentre pronuncia un sermone dall’alto del minbar, il pulpito usato dai predicatori musulmani. Un particolare meditato. Nella tradizione islamica, che secondo i radicali si chiude dopo la scomparsa dei primi quattro successori del Profeta, i cosiddetti ”ben guidati”, il califfo è insieme leader politico e religioso della umma, la comunità di fede islamica. Parlando in una moschea Al Baghdadi mette l’enfasi sul suo ruolo di capo religioso, legittimato dall’essere un dotto in scienze islamiche. Dunque un leader che, contrariamente ai molti autodidatti religiosi, spesso di formazione tecnica e scientifica che hanno guidato negli ultimi decenni la galassia jihadista, conosce davvero quella “teologia della legge” che è l’islam. E ne rivendica, in nome del gergo dell’autenticità tipico delle neotradizioni, il senso del messaggio originario.
Quanto alle capacità politiche e militari, altra prerogativa tipica del Profeta Muhammad, al Baghdadi le ha già dimostrate nel momento in cui ha trasformato l’Isis da un piccolo gruppo di sconfitti in nucleo combattente capace di controllare buona parte delle province sunnite irachene e siriane. E di minacciare Baghdad. Dunque di mettere in discussione, con la sua azione, l’assetto geopolitico del Medio Oriente. Ormai guadagnata sul campo la legittimazione politica e militare, Al Baghdadi ha messo l’enfasi sulla dimensione religiosa. Non a caso l’ufficio propaganda dell’ormai ex-Isis lo ha presentato come «comandante dei credenti».
Il suo discorso, pronunciato indossando il turbante nero che evoca l’appartenenza alle famiglie discendenti dalla tribù del Profeta, ha toccato i temi classici del radicalismo islamista. Come l’appello ai musulmani a considerare lo jihad come obbligo personale e a compiere la hijra, la migrazione, verso lo Stato islamico controllato dalle sue milizie: unico territorio nel quale, secondo i radicali, sarebbe possibile vivere prima della vittoria finale, secondo le regole islamiche. Ovvero, sotto il segno della sharia e la leadership califfale. Affermando che le sorti di Siria e Iraq non riguardano solo siriani e iracheni ma i musulmani tutti, Al Baghdadi ha poi voluto ribadire il rifiuto degli stati nazionali e dei confini nati dal tracollo dell’impero ottomano. Un messaggio che tende a calamitare, ancor più di quanto accada oggi, l’esodo, interiore e esteriore, dei mujahidin verso quello che un tempo fu il cuore dell’impero abbasside. E a rilanciare il messaggio dell’islam come religione che non riconosce che i legami di fede. Lo stesso accenno alla conquista di Roma, intesa come centro di riferimento religioso e spirituale delle “potenze crociate”, indica che nella lotta tra grandi sistemi culturali universali l’islam radicale non si pone limiti territoriali, bensì si presenta come forma di dominio globale.
Un discorso che metterà in allarme, per ovvi motivi, non solo le cancellerie occidentali e i governi della regione, ma anche Al Qaeda storica. Forse avremo presto un altro video: quello del Dottore. Impensabile che Al Zawahiri non si pronunci sul Califfato, istituzione che nemmeno Bin Laden aveva osato riesumare, ritenendo non ancora maturi i tempi. Accontentandosi, come faranno in seguito anche i leader delle organizzazioni regionali qaediste, a proclamare al massimo l’esistenza di un Emirato. La battaglia, non solo mediatica, tra il Califfo nero e l’Emiro di Al Qaeda è solo agli inizi. E costringerà anche gli altri gruppi qaedisti a schierarsi in una battaglia per l’egemonia che si annuncia senza risparmio di colpi. A meno che l’ingresso del vessillo nero cerchiato a Baghdad, non renda accettabile ciò che oggi anche numerosi leader jihadisti ritengono impensabile.
Il califfo nero
Quella sfida globale per guidare l’islam
la Repubblica, 6 luglio 2014
Esce allo scoperto il Califfo nero. Era una mossa attesa. Non si innesca una sfida simbolica di enorme portata, come proclamare la restaurazione del centro politico e religioso unitario dell’islam, senza uscire dalla clandestinità. Almeno da quella mediatica.
Per potersi imporre a uno scettico, frastornato, frammentato, mondo sunnita, Al Baghdadi ha bisogno di farsi conoscere. E, soprattutto, riconoscere. Oltre i confini del mondo delle avanguardie jihadiste.
Il nuovo ruolo gli impone l’inevitabile attenuazione delle regole di sicurezza che ne avevano sin qui occultato il volto. Almeno quello noto agli organi di sicurezza americani e iracheni, che ne avevano rilevato le fattezze sin dai tempi della sua detenzione a Camp Bucca, dove sino al 2009 è stato recluso per aver partecipato all’insurrezione seguita alla caduta di Saddam.
Così, anche per smentire le insistenti voci di una sua uccisione o ferimento, forse alimentate ad arte da rivali e intelligence ostili per farlo “emergere”, il Califfo nero si è fatto riprendere in una moschea di Mosul. Mentre pronuncia un sermone dall’alto del minbar, il pulpito usato dai predicatori musulmani. Un particolare meditato. Nella tradizione islamica, che secondo i radicali si chiude dopo la scomparsa dei primi quattro successori del Profeta, i cosiddetti ”ben guidati”, il califfo è insieme leader politico e religioso della umma, la comunità di fede islamica. Parlando in una moschea Al Baghdadi mette l’enfasi sul suo ruolo di capo religioso, legittimato dall’essere un dotto in scienze islamiche. Dunque un leader che, contrariamente ai molti autodidatti religiosi, spesso di formazione tecnica e scientifica che hanno guidato negli ultimi decenni la galassia jihadista, conosce davvero quella “teologia della legge” che è l’islam. E ne rivendica, in nome del gergo dell’autenticità tipico delle neotradizioni, il senso del messaggio originario.
Quanto alle capacità politiche e militari, altra prerogativa tipica del Profeta Muhammad, al Baghdadi le ha già dimostrate nel momento in cui ha trasformato l’Isis da un piccolo gruppo di sconfitti in nucleo combattente capace di controllare buona parte delle province sunnite irachene e siriane. E di minacciare Baghdad. Dunque di mettere in discussione, con la sua azione, l’assetto geopolitico del Medio Oriente. Ormai guadagnata sul campo la legittimazione politica e militare, Al Baghdadi ha messo l’enfasi sulla dimensione religiosa. Non a caso l’ufficio propaganda dell’ormai ex-Isis lo ha presentato come «comandante dei credenti».
Il suo discorso, pronunciato indossando il turbante nero che evoca l’appartenenza alle famiglie discendenti dalla tribù del Profeta, ha toccato i temi classici del radicalismo islamista. Come l’appello ai musulmani a considerare lo jihad come obbligo personale e a compiere la hijra, la migrazione, verso lo Stato islamico controllato dalle sue milizie: unico territorio nel quale, secondo i radicali, sarebbe possibile vivere prima della vittoria finale, secondo le regole islamiche. Ovvero, sotto il segno della sharia e la leadership califfale. Affermando che le sorti di Siria e Iraq non riguardano solo siriani e iracheni ma i musulmani tutti, Al Baghdadi ha poi voluto ribadire il rifiuto degli stati nazionali e dei confini nati dal tracollo dell’impero ottomano. Un messaggio che tende a calamitare, ancor più di quanto accada oggi, l’esodo, interiore e esteriore, dei mujahidin verso quello che un tempo fu il cuore dell’impero abbasside. E a rilanciare il messaggio dell’islam come religione che non riconosce che i legami di fede. Lo stesso accenno alla conquista di Roma, intesa come centro di riferimento religioso e spirituale delle “potenze crociate”, indica che nella lotta tra grandi sistemi culturali universali l’islam radicale non si pone limiti territoriali, bensì si presenta come forma di dominio globale.
Un discorso che metterà in allarme, per ovvi motivi, non solo le cancellerie occidentali e i governi della regione, ma anche Al Qaeda storica. Forse avremo presto un altro video: quello del Dottore. Impensabile che Al Zawahiri non si pronunci sul Califfato, istituzione che nemmeno Bin Laden aveva osato riesumare, ritenendo non ancora maturi i tempi. Accontentandosi, come faranno in seguito anche i leader delle organizzazioni regionali qaediste, a proclamare al massimo l’esistenza di un Emirato. La battaglia, non solo mediatica, tra il Califfo nero e l’Emiro di Al Qaeda è solo agli inizi. E costringerà anche gli altri gruppi qaedisti a schierarsi in una battaglia per l’egemonia che si annuncia senza risparmio di colpi. A meno che l’ingresso del vessillo nero cerchiato a Baghdad, non renda accettabile ciò che oggi anche numerosi leader jihadisti ritengono impensabile.
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