domenica 31 agosto 2014

L'invenzione del teatro moderno

Ernesto Ferrero
Professionali quei comici
Il Sole 24ore, 27 luglio 2014

Lo spettacolo "La Commedia dell'Arte incontra Molière" a Lucca, 30 luglio 2014

I luoghi comuni e le idee correnti, quelle stesse su cui Flaubert scatenava i suoi micidiali sarcasmi, sembrano avere maggior fortuna proprio quanto più sono superficiali. Della Commedia dell'Arte si pensa come a un teatro (molto) popolare, simpaticamente primitivo e quasi affine a quello dei burattini, in cui comici ruspanti, ridotti a maschere facilmente riconoscibili, poco più che dei ciarlatani, se le danno di santa ragione, strillano e saltano, improvvisando alla meglio per la gioia di un pubblico di bocca buona. Tocca ai più avvertiti storici del teatro dimostrare come da questo presunto «brodo primordiale» prendano laboriosamente forma esperienze complesse, che tra Cinque e Settecento contribuiranno in misura rilevante alla nascita del teatro moderno, autoriale, quale noi lo conosciamo. Nel Dna di Shakespeare, Molière, Marivaux, Goldoni e Gozzi ci sono anche questi attori girovaghi e polivalenti di svelto ingegno. Veri uomini di teatro, non saltimbanchi.
Tra questi storici, nella scia degli studi pionieristici di Ludovico Zorzi, un merito speciale se lo è conquistato Siro Ferrone, che insegna Storia dello spettacolo a Firenze, e sul tema lavora proficuamente da almeno vent'anni, pubblicando testi e documenti, e restituendo alla loro professionalità figure di attori-autori-manager le cui vite avventurose, ingegnose e picaresche farebbero la gioia di qualsiasi narratore. Attrici e attori italiani in Europa XVI-XVIII, recita il sottotitolo di questo suo nuovo lavoro, denso di aperture e risultati, che riporta correttamente la pratica teatrale a coloro che ne furono protagonisti. Dove si dimostra in primo luogo che il loro repertorio non era soltanto comico, ma comprendeva e miscelava creativamente generi diversi, dove il «lacrimoso» è più frequente del «ridicoloso» (tragedie, tragicommedie, pastorali, drammi esotici), che potevano inglobare canto, musica, danza, mimica, sempre con un occhio attento all'attualità e alle esigenze dell'audience o della committenza. Intelligente teatro d'azione, «negoziato tra culture diverse», esercizio continuo d'inventività viaggiante che si arricchiva della sua stessa itineranza, costituendosi in una sorta di network europeo. Nasceva così e si affinava una testualità «consuntiva» che veniva poi fissata su carta, non troppo diversamente da quello che poi avrebbe fatto Dario Fo con i suoi copioni in progress.
Di una internazionalità integrata parla chiaramente la cartina che Ferrone ha inserito nel volume. Dà conto di percorsi che dall'Italia si dipartono verso Lione e Parigi, sino ai Paesi Bassi e a Londra, ma anche a Lisbona e a Madrid; oppure passato il Brennero si spingono in Sassonia e Polonia, sino a Mosca e San Pietroburgo. Esperienze on the road, spesso rischiose, che forgiavano la professionalità di vere compagnie sempre meglio strutturate, ed è questo il tratto che Ferrone giustamente enfatizza, allegando tra l'altro sessanta pagine di un Dizionario biografico di attori e attrici, tra cui spiccano Isabella Andreini, autentica diva, morta a Lione nel 1604 e celebrata da Lope de Vega; o la «divina» Vittoria Piissimi, «bella maga d'amore che alletta i cori di mille amanti», lodata da Tommaso Garzoni. L'avvento delle donne (deprecato dai moralisti, che le equiparano senza mezzi termini alle meretrici) rappresenta, scrive convintamente Ferrone, «la più rilevante novità dello spettacolo europeo del Cinquecento e uno dei fattori decisivi per la formazione del teatro dei professionisti»; e un sostanziale arricchimento dei registri espressivi.
Genere effimero per definizione, quel «teatro d'attori» impone ad uno studioso le fatiche, ma anche le gratificazioni, di andare a scavare nei materiali più diversi, dagli atti di nascita, d'acquisto o di affitto alle lettere, ai preziosi zibaldoni-contenitori (poesie, citazioni letterarie, scene dialogate, frammenti di copione multiuso), alle testimonianze indirette, finendo per ricostruire un quadro d'epoca capace di coinvolgere anche il lettore non specialista. Ferrone vi aggiunge un prezioso inserto iconografico di quasi sessanta tavole, per lo più poco note, che forniscono una quantità d'informazioni supplementari e rendono l'immediatezza, il «colore» di quei consumi culturali: la calzamaglia rossa e il mantello nero di Pantalone, la divisa antiquata dei Capitani, i costume variopinto degli Arlecchini e quello monocolore degli Zanni, gli Arlecchini multicolori, l'abito nero dei dottori saccenti.

Siro Ferrone, La Commedia dell'arte, Einaudi, Torino, pagg. XIV-412, € 32,00

sabato 30 agosto 2014

Nizan, i funerali di Jaurès


La Conspiration
1938


Il primo ricordo politico del gruppo risaliva al millenovecentoventiquattro. Era stato un anno che aveva avuto inizio con i morti, con la scomparsa dei simboli o delle figure più significative nei primi anni della Pace: Lenin in gennaio, Wilson in febbraio, Hugo Stinnes in aprile. In maggio, elezioni piene di lirismo avevano portato al potere il blocco delle sinistre: visto che era finito il tempo della Camera blu orizzonte [= patriottarda, dal colore delle divise militari], si riteneva che la guerra fosse stata una volta per tutte liquidata e che stesse ricominciando  quel piccolo regolare scivolamento verso sinistra nel quale gli storici seri vedono il segreto della Repubblica, trovando che questo destino provvidenziale può sistemare molte cose e autorizza a dormire sonni tranquilli. In novembre, per far piacere a un paese che per cinque mesi non aveva cessato di sperare si è deciso di trasferire il corpo di Jean Jaurès al Pantheon, dove il morto del luglio 1914 era atteso dalla Patria riconoscente, e ciò che restava dei Grandi Uomini, La Tour d'Auvergne, Sadi Carnot, Berthelot, il conte Timoléon de Cosse-Brissac e il conte Paigne-Dorsenne. ...
Tutti gli ospiti assumevano delle facce da funerale, gruppetti di personaggi parlottavano sottovoce negli angoli; dei deputati distribuivano strette di mano con volti e inchini ridondanti di una familiarità smaccata; di tanto in tanto si udiva lo scoppio della voce arrochita di qualcuno che non riusciva a tenere bassa la voce. Gli uscieri che portavano la loro piccola feluca con coccarda tricolore sotto il bracciocamminavano con un passo solenne da svizzeri, in scarpe logore che non cigolavano; aprirono un varco tra il catafalco e la porta, attraverso la folla che si era addensata come se Jaurès avesse realmente avuto un gran numero di fratelli, parenti e amici inconsolabili
...
I minatori di Carmaux, con le loro casacche nere di lavoro e i loro cappelli di cuoio, si disposero goffamente intorno al catafalco, dove gli uscieri e i becchini delle pompe funebri accatastavano le corone avvizzite che avevano appena smesso di viaggiare nell'ombra gelida del vagone. Nessuno piangeva: un decennio di morte asciuga tutte le lacrime, ma gli uomini si erano convertiti in maschere. (...) In quella grande cella di pietra, Laforgue e i suoi amici avevano l'impressione di essere i complici silenziosi di politici abili che si erano con destrezza impadroniti di quella bara eroica e di quella polvere di uomo assassinato, per usarle come pezzi importanti in un gioco con altre pedine che erano senza dubbio monumenti, uomini, conversazioni, voti, promesse, medaglie e affari di denaro: essi sentivano di essere meno che niente tra tutti quei tipi calcolatori e cordiali. Per fortuna, ogni tanto, attraverso le pareti e il rumore soffocato del calpestio e della musica, arrivava come una raffica di grida, e si dicevano allora  che ci doveva essere nella notte una sorta di vasto mare che si spezzava con rabbia e tenerezza contro le scogliere cieche della Camera; non distinguevano le parole di cui erano intessute quelle grida, ma a momenti indovinavano "Jaurès" in fondo a quei clamori. (...)

Il boulevard si riempì: erano gli operai della periferia, le masse dei quartieri popolosi dell'est e del nord della città; occupavano tutta la strada da un marciapiede all'altro, il fiume finalmente si era messo a scorrere. La gente del primo corteo, che erano persone degne, non cantava; questi cantavano, e siccome cantavano l'Internazionale, i residenti della via Soufflot e del boulevard Saint-Michel, che non ne avevano mai visti così tanti e avevano iniziato a non sentirsi orgogliosi dietro le loro tende e tendine, si misero a gridare insulti e a tendere il pugno, ma poiché nessuno poteva sentire le loro urla, queste manifestazioni di sedentari non avevano in fin dei conti nessuna importanza.  

Gli spettatori sui marciapiedi spalancavano gli occhi e leggevano torcendosi il collo le scritte dei cartelli che erano nello stile: "Jaurès vittima della guerra è glorificato dai suoi asssassini", e che protestavano contro il Piano Dawes, il Blocco delle sinistre, il fascismo, la guerra e reclamavano la rivoluzione e il rinvio a giudizio dei responsabili della guerra davanti a un Tribunale rivoluzionario: forse erano slogan un po' utopici, ma non c'era alcun dubbio sulla giovane verità di queste parole d'ordine considerando che i deputati socialisti avevano appena votato i fondi segreti degli Interni
Si poteva pensare solo  a forze piene di vigore, alla linfa, a un fiume, al flusso del sangue. Infine il boulevard meritava il suo nome di arteria.

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Le premier souvenir politique de l’équipe remontait à mil neuf cent vingt-quatre. C’était une année qui avait commencé par des morts, par la disparition des symboles ou des acteurs les plus considérables des premières années de la Paix : Lénine était mort en janvier, Wilson en février, Hugo Stinnes en avril. En mai, des élections pleines de lyrisme avaient amené au pouvoir le bloc des Gauches : comme on venait d’en finir avec la Chambre bleu horizon, on croyait que la guerre était définitivement liquidée et qu’on allait tranquillement recommencer le petit glissement régulier vers la gauche où les historiens sérieux voient le secret de la République en trouvant que cette fatalité providentielle arrange bien des choses et permet de dormir sur ses deux oreilles. En novembre, pour plaire à un pays qui n’avait pas fini en cinq mois d’espérer, on décida de transférer le corps de Jean Jaurès au Panthéon, où le mort du mois de juillet quatorze était attendu par la Patrie reconnaissante et ce qui restait des Grands Hommes, La Tour d’Auvergne, Sadi Carnot, Berthelot, le comte Timoléon de Cossé-Brissac et le comte Paigne-Dorsenne. ...
Tous les invités se composaient des figures de maison mortuaire, de petits groupes de personnages causaient bas dans les coins ; des députés serraient des mains avec une mine et un dos rond pleins de familiarité écrasée ; de temps en temps on entendait l’éclat de voix enrouée de quelqu’un qui n’arrivait pas à parler bas. Les huissiers qui portaient leur petit bicorne à cocarde tricolore sous le bras marchaient avec un pas solennel de Suisses, dans des souliers brisés qui ne craquaient pas ; ils ouvrirent un passage entre le catafalque et la porte, à travers la foule qui s’était épaissie comme si Jaurès avait réellement eu des quantités de frères, de parents et d’amis inconsolables. (...)
Les mineurs de Carmaux, qui portaient leurs blouses noires du fond et leurs chapeaux de cuir, se rangèrent maladroitement autour du catafalque où les huissiers et les porteurs des Pompes funèbres empilaient les couronnes flétries qui venaient de faire le voyage dans l’ombre glaciale du wagon. Personne ne pleurait : dix ans de mort tarissent toutes les larmes, mais des hommes se fabriquaient des masques. (...) Dans ce grand alvéole de pierre, Laforgue et ses amis avaient l’impression d’être les complices silencieux de politiques habiles qui avaient adroitement escamoté cette bière héroïque et cette poussière d’homme assassiné, qui devaient être les pièces importantes d’un jeu dont les autres pions étaient sans doute des monuments, des hommes, des conversations, des votes, des promesses, des médailles et des affaires d’argent : ils se sentaient moins que rien parmi tous ces types calculateurs et cordiaux. Heureusement, il venait parfois, à travers les murailles et la rumeur étouffée des piétinements et des musiques, comme une rafale de cris, et ils se disaient alors qu’il devait exister dans la nuit une espèce de vaste mer qui se brisait avec de la rage et de la tendresse contre les falaises aveugles de la Chambre ; ils ne distinguaient pas de quels mots ces cris étaient faits, mais ils devinaient quelquefois Jaurès au bout de ces clameurs. (...)
Le boulevard s’emplit : c’étaient les ouvriers de banlieue, la masse des quartiers denses de l’est et du nord de la ville ; ils tenaient la chaussée d’un bord à l’autre bord, le fleuve finalement s’était mis à couler. Les gens du premier cortège, qui étaient des gens dignes, ne chantaient pas ; ceux-ci chantaient, et comme ils chantaient l’ Internationale , les locataires de la rue Soufflot et du boulevard Saint-Michel, qui n’en avaient jamais tant vu et qui commençaient à ne pas se sentir fiers derrière leurs rideaux à embrasse et leurs brise-bise, se mirent à crier des injures et à tendre le poing, mais comme personne n’entendait leurs cris, ces manifestations de sédentaires n’avaient pas autrement d’importance.
Les spectateurs sur les trottoirs ouvraient les yeux et ils lisaient en se tordant le cou les inscriptions des pancartes qui étaient dans ce style : Jaurès victime de la guerre est glorifié par ses asssassins, et qui protestaient contre le plan Dawes, le Bloc des gauches, le fascisme, la guerre et réclamaient la Révolution et la mise en jugement des responsables de la guerre devant un Tribunal révolutionnaire : peut-être étaient-ce des mots d’ordre légèrement utopiques, mais il n’y avait pas un doute à avoir sur la jeune vérité de ces cris de ralliement quand on se disait que les députés socialistes venaient de voter les fonds secrets de l’Intérieur.
On ne pouvait penser qu’à des puissances drues, à la sève, à un fleuve, au cours du sang. Le boulevard méritait enfin son nom d’artère.

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Sui funerali di Jaurès ancora Avner Ben-Amos, La panthéonisation de Jean Jaurès 
"Terrain", 15 octobre 1990  http://terrain.revues.org/2983

venerdì 29 agosto 2014

Corpo, individuo e politica

Massimo Recalcati
Perché le persone sono diventate solo cose e le cose solo merce
Nel nuovo saggio di Roberto Esposito l’origine della separazione tra corpo, individuo e politica

la Repubblica, 29 agosto 2014

CON questo suo ultimo libro titolato Le persone e le cose, Roberto Esposito aggiunge un altro capitolo importante alla sua ricerca filosofica intorno alle origini della nostra civiltà e alle ragioni che rendono possibile (o impossibile) il dono-dovere della comunità, il nostro vivere insieme. La sua chirurgica e meticolosa genealogia si configura come uno dei cammini filosofici più originali e innovativi degli ultimi vent’anni. In queste due parole, “persone” e “cose”, si manifesta secondo Esposito una divisione ontologica che è stata la matrice di processi ben più ampi che hanno pesantemente coinvolto le fondamenta stesse della nostra vita collettiva. Questo binomio è infatti un “binomio escludente”. È una prima tesi del libro: l’operazione che fonda la persona come soggetto autorale, integralmente “decorporeizzato”, reso titolare di diritti e di patrimoni, è tutt’uno con quella che lo elegge a padrone delle cose. In questa doppia fondazione si produce un’esclusione di tutto ciò che contrasta con questa biforcazione metafisica. In primis l’esclusione del corpo: «Non rientrando compiutamente né nella categoria di persona né in quella di cosa, il corpo è stato cancellato come oggetto di diritto». Esposito mostra bene come la genealogia del concetto di “persona” sia il risultato di un’astrazione progressiva che finisce per disgiungerla nettamente dal corpo. Già nel diritto romano la persona giuridica appare autonoma dal corpo e come padrona delle cose. Quello che definisce le cose secondo l’ordinamento di quel diritto «è la loro appartenenza a uno o a più proprietari». Allo stesso modo anche le cose sono state private del loro corpo. Accade originariamente con la metafisica greca, ma ancora più chiaramente con l’affermazione della tecnica che da quella tradizione scaturisce già secondo l’insegnamento di Marx, prima ancora di quello di Heidegger: le cose non sono lasciate essere per quello che sono, ma sono ridotte a “risorsa” (Bestand) e sottoposte a uno sfruttamento illimitato. La spinta all’appropriazione appare così come una sorta di nucleo pulsionale originario che regola in Occidente il rapporto tra l’uomo e le cose. Questo comporta lo schiacciamento di altri esseri umani allo statuto inerte degli oggetti inanimati, delle cose anziché delle persone. Il corpo stesso viene colonizzato: il soggetto si divide in una parte animale e sensibile e in un’altra razionale e spirituale che deve esercitare il suo dominio su di essa.
Questo esito nichilistico troverebbe un suo antagonista irriducibile, anche se minoritario, in una tradizione di pensiero che Esposito fa risalire a Spinoza e che, passando da Vico, giunge sino a Nietzsche e alla fenomenologia francese (Sartre, Meleau-Ponty). Questa tradizione contesta radicalmente il taglio che disgiunge irreversibilmente l’anima dal corpo e la persona dalle cose e che ha fondato, a partire dal gesto inaugurale di Cartesio che distingue la res cogitans dalla res extensa, l’attuale primato narcisistico dell’Io come governatore del proprio corpo e del mondo delle cose. Siamo alla pars costruens del libro: il corpo può essere la pietra di scarto destinata a divenire la pietra angolare di un altro modo di pensare la vita. Una constatazione preliminare si impone: sebbene escluso, o proprio perché escluso, il corpo vivente torna incessantemente al centro della scena della politica e dei suoi conflitti. «La vita umana — scrive Esposito — da cornice dell’agire politico, ne diviene il centro — si fa affare di governo, così come la politica diventa governo della vita». Questo significa che l’esclusione del corpo dal regime della persona genera uno spazio vuoto dove domande sempre più pressanti restano senza risposta: «Da quando e sino a quando il corpo può essere considerato persona anziché cosa? Il trafugamento di un cadavere, oppure di embrioni, va considerato alla stregua di un rapimento o di un furto?».
Ecco apparire la dimensione più chiaramente politica della riflessione di Esposito: come individuare i modi del ritorno di ciò che è stato rimosso, bandito, esiliato? Non si deve dimenticare che questa parte esclusa non s’incarna solo nelle istanze del corpo individuale vivente, ma anche in quelle collettive di un popolo — di una moltitudine — che è stata tenuta fuori dalla rappresentanza e che oggi spinge per denunciare il limite costitutivo di quella stessa idea di rappresentanza (fondata arbitrariamente su di una esclusione). È l’aut-aut etico che il libro ci consegna: prevarrà la passione immunitaria che esalta il proprio sul comune, l’interesse individuale su quello collettivo, l’Io sull’Altro o la passione per la comunità e l’economia del dono insieme al rischio di smarrimento e di perdita di identità che l’esposizione all’Altro sempre comporta?

IL SAGGIO Le persone e le cose di Roberto Esposito (Einaudi pagg. 136, euro 10)

giovedì 28 agosto 2014

Lucrezio, inno a Venere


 
 
Lucrezio, De rerum natura
I, 1-20

traduzione di Luca Canali


Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dei,
Aèneadùm genetrìx, | hominùm divòmque volùptas,
alma Venere, che sotto gli astri vaganti del cielo
àlma Venùs, | caelì subtèr | labèntia sìgna
popoli il mare solcato da navi e la terra feconda
quaè mare nàvigerùm, | quae tèrras frugiferèntis
di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma,
còncelebràs, | per tè quoniàm | genus òmne animàntum
e una volta sbocciata può vedere la luce del sole:
còncipitùr | visìtque exòrtum | lùmina sòlis:
te, o dea, te fuggono i venti, te e il tuo primo apparire
tè, dea, tè fugiùnt | ventì, te nùbila càeli
le nubi del cielo, per te la terra industriosa
àdventùmque tuùm, | tibi suàvis daèdala tèllus
suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare,
sùmmittìt florès, | tibi rìdent aèquora pònti
e il cielo placato risplende di luce diffusa.
plàcatùmque nitèt | diffùso lùmine caèlum.
Non appena si svela il volto primaverile dei giorni
Nàm simul àc speciès | patefàctast vèrna dièi
E libero prende vigore il soffio del fecondo Zeffiro
èt reseràta vigèt | genitàbilis àura favòni,
Per primi gli uccelli dell’aria annunziano te, nostra dea,
àëriaè primùm | volucrìs te, dìva, tuùmque
e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale.
sìgnificànt initùm | percùlsae còrda tuà vi.
Poi anche le fiere e gli armenti balzano per i prati in rigoglio,
Ìnde feraè pecudès | persùltant pàbula laèta
e guardano i rapidi fiumi: così prigioniero al tuo incanto
èt rapidòs | tranànt amnìs: | ita càpta lepòre
ognuno ti segue ansioso dovunque tu voglia condurlo.
tè sequitur cupidè | quo quàmque indùcere pèrgis.
E infine pei mari e sui monti e nei corsi impetuosi dei fiumi,
Dènique pèr maria àc montìs | fluviòsque rapàcis
nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure,
fròndiferàsque domòs | aviùm campòsque virèntis
a tutti infondendo in petto la dolcezza dell’amore,
òmnibus ìncutièns | blandùm per pèctora amòrem
fai sì che nel desiderio propaghino le generazioni secondo le stirpi.
èfficis ùt cupidè | generàtim saècla propàgent.





versi 2-20
traduzione di Enzio Cetrangolo
 
Venere madre che apri sotto i giri degli astri
il mare, che la terra fai piena di frutti, 
ogni corpo animato per te si eterna 
e il giorno fa luce sul viso dell'infante. 
Se appari, la tempesta fugge col vento 
la terra operosa induce i fiori al tuo passo, 
le onde marine ti sorridono, 
diventa più casta la quiete dei cieli 
e appena la bella stagione di primavera 
porta sui zefiri il verde alle piante, 
gli uccelli dall'aria schiarita di te 
cantano la tua dolce presenza, 
gli armenti scherzano al prato, vanno sui fiumi 
e presi dal tuo piacere 
ti seguono dove ti è grado condurli. 
E tu sui mari, sui monti, su gorghi delle acque, 
sui campi virenti, sulle fronde dei nidi 
metti nei cuori terrestri 
desiderio d'amore: tu fai che queste 
ordinate famiglie si riproducano.


Le stelle, le strisce, la democrazia

Nadia Urbinati
Quanti errori e pregiudizi in quel viaggio di Tocqueville
Il saggio di Massimo Salvadori svela le inasattezze alla base del classico “La democrazia in America”. Senza offuscarne le geniali intuizioni 

la Repubblica, 28 agosto 2014

La democrazia in America, uscito in due volumi nel 1835 e 1840, fu uno dei primi bestseller: il primo volume ebbe varie ristampe in pochissimi mesi. È ancora oggi uno dei libri più venduti, letti e citati. La sua audience è trasversale. Albert Hirschman incluse Tocqueville tra i retori della reazione per la sua teoria della futilità della Rivoluzione francese, dannosa perché scoppiò quando l’ancien régime era già moribondo. Autore molto amato dai liberali della Guerra fredda, a Tocqueville Hannah Arendt si ispirò nel delineare i due modelli di rivoluzione, quello francese e quello americano, che hanno segnato nel male e nel bene la storia contemporanea fino al totalitarismo. La democrazia in America fa parte del bagaglio culturale di conservatori (è stato pochi anni fa ristampato in inglese con una nuovissima edizione a firma di Harvey Mansfield) e progressisti (la sua tesi sul ruolo delle associazioni civili ha guidato Robert Putnam nella ricerca sul civismo in Italia, debole o assente in quelle aree che non ebbero una storia repubblicana).
Tanto successo e tanta ammirazione corrispondono a quanto Tocqueville si era proposto di fare? Quanto corretta è la rappresentazione che ci ha lasciato della società americana del 1831, quando intraprese il suo viaggio con l’amico Gustave de Beaumont? A queste domande si ispira Massimo L. Salvadori nel suo Le stelle, le strisce, la democrazia uscito da Donzelli. E la risposta è tranchant (e molto ben documentata): la ricostruzione è pochissimo corretta. Tocqueville non vide o non capì o fraintese molte cose importanti. La sua immagine della democrazia fu certo il frutto di quel che vide,  ma il suo sguardo era guidato da una «sorta di pregiudizio » che divenne il suo punto di partenza ancora prima dei fatti osservati. Questi i limiti che Salvadori documenta: la sua concezione dell’eguaglianza delle condizioni sociali era immaginifica e ignorava l’esistenza di un’oligarchia potente, mentre vedeva una larga classe media che non c’era; la struttura e l’importanza della “macchina” dei partiti politici gli sfuggì completamente; la sua diagnosi della centralità degli stati dell’Unione sulla presidenza federale era sbagliata; l’analisi, toccante, dei rapporti tra neri e bianchi nel Sud produsse in lui la diagnosi, errata, di una rivolta spartachista degli schiavi; infine, la sua idea che le masse di poveri dominassero la politica e i rappresentanti eletti era a dir poco fantasiosa.
Il messaggio di Tocqueville sui rischi dispotici della democrazia, sui pericoli dell’apatia, sull’egemonia dei molti contro i pochi, sull’uguaglianza come passione che livella, è stato dunque più il frutto delle sue letture classiche (Platone, Aristotele, Pascal, e poi naturalmente Rousseau) e dei traumi subiti dalla sua famiglia e dalla società francese con il Terrore che delle  osservazioni raccolte durante il viaggio in America. Tocqueville non fu uno scienziato politico. Ma il raffinato esame che ci propone delle emozioni collettive, della funzione razionale delle passioni, delle conseguenze inattese che le scelte individuali hanno sulla società resta fondamentale per chi voglia capire i comportamenti sociali moderni. E la sua analisi innovativa sulla natura dell’individualismo, la formazione di una religiosità panteistica mossa dalla fede della scienza e nella tecnologia, la natura contraddittoria di molti beni sociali moderni come la stampa, l’informazione, l’associazione degli interessi resta un punto fondamentale di ispirazione. Tocqueville vide una democrazia nelle relazioni sociali: per esempio, il fatto che la cultura dei diritti induca a volere eguaglianza di considerazione e riconoscimento o che i rapporti di eguaglianza erodano l’autorià dei padri e dei mariti, cambiando la struttura della famiglia. Con Salvadori si può allora dire che non è l’America del suo tempo che dobbiamo cercare nel libro di Tocqueville. Ma forse è proprio questo anacronismo che ha reso La democrazia in America capace di resistere al tempo.

mercoledì 27 agosto 2014

Massimo Recalcati, l'amore senza aspettative

Massimo Recalcati

Ma ciò che conta davvero è l’amore, senza aspettative
la Repubblica, 27 agosto 2014

IL RAPPORTO padre-figlio è stato pensato dopo Freud a partire dalla figura conflittuale di Edipo: oltrepassare il padre o soggiacere al suo dominio? È il punto di snodo che marca il destino di ogni maschio: attività virile o passività femminea? Vincere o cedere al padre? Il rapporto padre-figlia sembra essere stato invece letto principalmente sotto la lente dell’amore. L’identificazione ambivalente verso il padre che caratterizzava il dramma virile di Edipo (essere come lui o contro di lui) lascia il posto alla bambina- Elettra che vuole essere amata incondizionatamente dal padre; l’ambivalenza si trasferirebbe così verso la madre che diviene oggetto di un’intensa relazione di odio e amore mentre il padre tenderebbe a occupare la posizione di oggetto d’amore ideale e irraggiungibile. Questo a sua volta comporterebbe una maggiore difficoltà dei padri stessi ad accettare la separazione e la libertà (intellettuale e sessuale) delle loro figlie. Mentre la separazione dal figlio maschio riflette più coerentemente la condizione del conflitto da cui deriva, la separazione da una figlia appare più contrastata perché implica una perdita amorosa senza ritorno.
Studi recenti dimostrerebbero che avere dei padri casalinghi, disponibili alla cura delle cose di casa e alle relazioni affettive — dunque meno idealizzati del padre di Elettra — , faciliterebbe le figlie ad avere futuri meno vincolati agli stereotipi sessisti. Professioni considerate tipicamente maschili diventerebbero accessibili a queste figlie liberate dalla presenza eccessivamente ingombrante di un padre dedito esclusivamente alla sua realizzazione personale.
Agli occhi di uno psicoanalista l’affermazione di nessi stringentemente causali per definire le vicende umane suscitano sempre un inevitabile allergia. Il cammino della vita non risponde a leggi deterministiche. Le figlie di padri casalinghi avranno più libertà nel decidere la propria vita professionale? Aver avuto un padre capace di realizzarsi nella vita professionale condizionerebbe la loro possibilità di intraprendere carriere ritenute tipicamente maschili?
Sappiamo come il tempo dell’evaporazione dei padri sia anche il tempo dove le distanze affettive e esistenziali con i propri figli e, soprattutto, con le proprie figlie si sono finalmente ridotte. Un padre casalingo fa allora meno danni di un padre concentrato sulla sua realizzazione professionale? Un padre presente è più utile per la crescita di una figlia di un padre assente? L’esperienza clinica mostra che non esistono risposte standard. Sono altre le cose (poche) certe. Un padre e una madre capaci di vivere la propria vita con slancio e generatività il loro lavoro e la loro relazione creano in famiglia quella circolazione di ossigeno di cui si nutre positivamente il desiderio dei loro figli. Un padre e una madre che sanno rinunciare al diritto di proprietà sui loro figli producono un clima positivo di libertà e di rispetto che favorisce la crescita non conformistica dei loro stessi figli. Non è questo forse il dono più grande della genitorialità? Non avere aspettative su di loro, non desiderare che diventino quello che noi abbiamo in mente che debbano diventare, lasciarli liberi di sbagliare e trovare la loro via. Un padre che si dedica alla casa può essere un padre sufficientemente solido come un padre che si consacra alla propria carriera professionale. Non è mai il contenuto di quello che fa a qualificarlo come padre (vi sarebbero allora professioni indegne per un padre? Un padre netturbino sarebbe meno padre di un padre scienziato?), ma solo la forza etica della sua testimonianza singolare. Ci sono padri-casalinghi o padri-mammi, assai frequentemente esperti in “educazione”, che sarebbe davvero meglio non incontrare mai e padri impegnati nella loro vita che offrono silenziosamente un modello identificatorio significativo ai loro figli. Ma, certamente, vale anche il caso contrario. La vera discriminante resta l’esistenza dell’amore come dono privo di contropartite, in perdita assoluta. È solo questo dono che spezza gli stereotipi sessisti perché lascia davvero liberi i nostri figli e, soprattutto, le nostre figlie, di essere quello che davvero desiderano.

lunedì 25 agosto 2014

Croce e la bella Angelina

Nello Ajello
Solo per amore
la Repubblica, 22 marzo 1994

Lei si chiamava Angelina Zampanelli, aveva ventitré anni. Era romagnola, di Savignano in provincia di Forlì. Bella, alta, estroversa, intelligente anche se non di molti studi, apparteneva a una famiglia modesta. Lui, Benedetto Croce, di anni ne aveva ventisette. Si conobbero casualmente a Salerno. Era il 1893. Lungo i successivi vent' anni il filosofo e la donna sarebbero convissuti a Napoli, mentre la fama del primo cresceva e l' unione con la sua compagna - diventata Angelinella, poi "Donna Nella" - acquistava molti crismi di legittimità, tranne quello ufficiale del matrimonio. Agli occhi del pubblico, conoscenti, colleghi studiosi, giornalisti, uomini politici, artisti, la giovane è, senz' altro, "la signora Croce". Lei stessa firma a volte le lettere "Angelina (o Nella) Croce". Per gli amici più assidui che si riuniscono la sera in casa dell' autore dell' Estetica - Salvatore Di Giacomo, Giustino Fortunato, Michelangelo Schipa, Roberto Bracco, Francesco Torraca, l' editore Riccardo Ricciardi - la sua è una presenza gradita, con quel tanto di passionale vitalità attribuito al prototipo romagnolo: sul quale viene a innestarsi il cliché napoletano. Croce cambia più volte abitazione, in quel ventennio, da viale Elena a via Atri, prima di approdare nel 1911 all' indirizzo definitivo di palazzo Filomarino. Angelina lo scorta in questi traslochi. Come una consorte "di fatto". I due viaggiano molto: visite a Parigi, puntate a Firenze, lunghe villeggiature in Romagna e poi in Abruzzo, permanenze a Perugia, a Palermo (in casa dei Gentile), sul lago Maggiore, in Svizzera. L' indaffarato Croce riconosce alla sua donna il "diritto di svago in comune". Fuori di casa, Angelina si conferma "vivace", "fresca", "allegra", così come la descriverà più tardi, rimpiangendola, il filosofo. Giovanni Gentile, Giuseppe Prezzolini, Renato Serra saranno variamente attratti dalla sua avvenenza priva di fatuità. Il direttore della Voce la definirà "donna di imperiale bellezza". Non le mancano i corteggiatori, scoraggiati dalla sua tenera dedizione a Benedetto, tetragono, per parte sua, ad ogni accesso di gelosia. Una convivenza felice, durata fino al 1913, che ora Antonio Cordeschi racconta minuziosamente nel volume Croce e la bella Angelina. Storia di un amore (Mursia, pagg. 150, lire 25.000). La ricostruzione non ha nulla di pettegolo, anche se il biografo si riconosce un ruolo di "avventurato ricercatore". Autodefinizione in parte giustificata, poiché il ménage fra Benedetto e Angelina è rimasto a lungo sepolto nella dimenticanza. Con il risultato di tramutarlo in leggenda, esporlo al gioco delle indiscrezioni o, peggio, offrirlo alle malignità di qualche "antipatizzante" del filosofo. Mentre Fausto Nicolini nella sua ricca biografia di Croce non accenna mai a donna Angelina in maniera decifrabile, un crociano di assai minore fama, Edmondo Cione, ne parla come di "un' antica attrice di café chantant": il massimo della dissipazione morale fine secolo. Mormorii che affioreranno assai più tardi nei Ricordi di un filosofo di Nicola Abbagnano, il quale preferirà il vocabolo "sciantosa", e aggiungerà un particolare infondato: Croce avrebbe sposato la sua donna quando lei era in punto di morte. Questa notizia delle nozze in extremis aveva trovato credito presso un altro filosofo, Augusto Guzzo, che però ammirava Angelina: a suo parere, nel "momento più creativo della carriera di scrittore", Croce "ha lavorato da innamorato, perdutamente innamorato della sua cara". A fare chiarezza su simili argomenti ha molto contribuito il libro di Gennaro Sasso, Per invigilare me stesso, redatto sui "taccuini di lavoro" di Croce e pubblicato nel 1989 dal Mulino. Che Angelina fosse di aspetto assai piacevole lo testimoniano le rare fotografie e alcuni ritratti che restano di lei. Uno, dipinto da Salvatore Postiglione, è sempre rimasto nella biblioteca crociana di palazzo Filomarino. "Donna Nella" vi appare nella grazia matronale dei suoi ventinove anni, avvolta in un abito vaporoso. Il simbolo stesso della salute. Una floridezza illusoria, essendo la donna di fibra delicata. I primi malanni spuntarono nel 1905. Angelina soffriva di cuore. Per la coppia, i viaggi si diradavano. Croce si muoveva spesso da solo, e ne soffriva. Gli amici si mostrano pieni di sollecitudine per le condizioni della Signora. Quando la cardiopatia si aggrava, nella primavera del 1913, lo scrittore Enrico Ruta raccomanda per lettera a Prezzolini di non mostrarsi colpito, incontrando Angelina, dal "suo deperimento". Notizie sullo stesso tema si scambiano Gentile, lo stesso Prezzolini e Torraca. Quanto a Croce, il suo stato d' animo di fronte a queste infermità più che a un' angoscia - testimonia Ruta - somiglia a un' "agonia". "Donna Nella" muore a Raiano, un paesino abruzzese la cui aria si pensava le giovasse. Ha quarantatré anni. Diagnosi: broncopolmonite con sopraggiunta pleurite. Croce subisce un crollo psicologico di cui soltanto gli intimi comprendono la gravità. Comunicando la notizia a Prezzolini, l' amico Ruta lacera l' aureola di impassibilità professorale che circonda, nell' opinione dei più, il filosofo: Benedetto, scrive, "il freddo loico, l' uomo che tiene una femmina per igiene e per divertirsi come con un grazioso cagnolino, ha pianto con me tutte le sue lacrime... Non ho mai visto un uomo che ama la sua donna con tale passione". Alla cugina Teresina, Croce confida: "La ferita che mi si è aperta nel cuore non si rimarginerà mai". E con Renato Serra esamina più in profondità il proprio stato d' animo: "Noi dobbiamo amare e legarci, ma dobbiamo essere pronti a distaccarci senza cadere. E per non cadere, non c' è altro modo che svolgere in sé il senso dei doveri verso la vita. Altrimenti cosa resta? Il lurido suicidio o il lurido manicomio". Cinque mesi più tardi, Enrico Ruta completa il quadro delle alternative. "Davanti a Croce", scriverà, "era un trivio: uccidersi, impazzire o ammogliarsi. La casa vuota era intollerabile". E infatti,la casa non è più vuota. Il 7 marzo 1914, Croce ha sposato Adele Rossi, una giovane torinese che, venuta a Napoli per preparare una tesi laurea, ha frequentato il filosofo legandosi di affetto anche alla povera Angelina. Della quale tuttavia nessuno, in quelle stanze, parlerà più: tranne quel ritratto gioioso su una parete della biblioteca.

L'Algeria di Pierre Bourdieu

Pierre Bourdieu
In Algeria. Immagini dello sradicamento
presentazione editoriale

Pensate per essere un supporto di ricerca senza alcuna velleità estetica, le immagini fotografiche presentate per la prima volta in Italia da questo libro sono scattate in Algeria durante la guerra di indipendenza (1954-1962)*. L’autore – il giovane Pierre Bourdieu – viene catapultato nel paese maghrebino per svolgere il servizio militare e qui decide di trattenersi sotto l’impulso di un faustiano desiderio di conoscenza. Sperimenta così un caleidoscopio di strumenti di inchiesta e realizza centinaia di foto [...]. Se il cuore di queste fotografie è certamente lo sradicamento inferto dalla politica coloniale, attorno, tuttavia, emerge il tema dello spazio di possibilità aperto dalla rivoluzione, che sembra incrinare alcuni rapporti di dominio tanto tra algerini e francesi, quanto all’interno della stessa società tradizionale araba: uomini e donne, padri e figli, giovani e vecchi. L’Algeria di Bourdieu, però, parla anche di noi e suggerisce un gioco di specchi con ciò che l’intero Occidente è oggi, con la sua identità, costruita storicamente in opposizione all’Altro orientale, all’“indigeno”, al “selvaggio” africano, al “musulmano”. Forse è proprio questa identità, oggi, a dover essere riconsiderata. Le periferie stanno diventando centro e il centro è incapace di governare la transizione.

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* Le foto risalgono più esattamente agli anni 1957-1960.
 
In Algeria
In Algeria

Immagini dello sradicamento
a cura di Franz Schultheis, Christine Frisinghelli, Andrea Rapini
Edizione: 2012
ISBN: 9788843066247



domenica 24 agosto 2014

La donna rasata di Chartres, il segreto svelato

L'immagine è famosa, non c'è che dire. Eccola:


E' una foto di Robert Capa. Fu scattata il 16 agosto 1944 nella città di Chartres appena liberata. Ritrae una donna con la testa rasata accompagnata da un gendarme e più a distanza da una folla che con un'aria ostile la osserva. Il grande fotografo scattò altre istantanee della medesima vicenda ma questa è la più famosa. La donna stringeva al petto il bimbo che aveva avuto dalla relazione con un ufficiale tedesco (e che poi si è saputo essere una bimba). Era sospettata anche di aver svelato ai nazisti l'indirizzo di cinque ebrei che furono arrestati e deportati a Auschwitz. Ma le cose, a quanto pare, non stavano esattamente così. Un giornalista, Guillaume de Morant, dopo una tortuosa indagine è giunto a stabilire un'altra versione dei fatti.

Elisabetta Rosaspina
L'ultimo segreto della donna rasata di Chartres
Corriere della Sera, 24 agosto 2014

... La donna della foto aveva 23 anni, si chiamava Simone Touseau e aveva lavorato come interprete per i tedeschi durante l'occupazione. Quel pargolo, dai folti capelli scuri, era l'inconsapevole prova di una "collaborazione orizzontale" come veniva trivialmente definito l'amore poco patriottico per qualcuno degli invasori. La sua identità è nota: Erich Göz, un ufficiale tedesco che, stando alla ricostruzione e alle testimonianze raccolte dallo storico Gérard Leray (autore con Philippe Frétigné di un libro sulla "rasata", La tondue 1944-1947, edizioni Vendémiaire) era innamorato di Simone e intenzionato a sposarla. Ma la Storia li separò: lui fu inviato sul fronte russo, mentre Simone scontava 26 mesi di prigione. 



Settant'anni dopo un reporter di Paris Match, Guillaume de Morant, l'ha ritrovata. Non lei, la ragazza della foto, morta da quasi cinquant'anni, divorata dall'alcol e dalla depressione. Ha ritrovato la figlia: era una bambina, si scopre ora, il lattante avvolto in quel fagotto tra le braccia di Simone. Si chiamava Catherine, e la madre ebbe appena il tempo di affidarla alla sorella, Annette, prima di entrare in carcere. 



E' stata un'altra foto a condurre il giornalista sulle tracce della bambina, oggi una pensionata di 70 anni che vive con il marito in un'imprecisata località di mare francese. E che non ha nessuna voglia di riaprire quel capitolo. [...]
Su Ebay il reporter di Paris Match ha trovato una fotografia scattata a Chartres un paio d'anni prima di quella di Robert Capa. Mostra nove donne sorridenti, nei loro cappottini, in mezzo a un centinaio di soldati in uniforme. La dedica in tedesco del comandante Ebmeier specifica che fu presa "in ricordo della nostra attività comune a Chartres, 1942". Una delle nove donne, tutte interpreti, era proprio Simone e, vicino a lei, Gérard Leray ha riconosciuto un'altra protagonista di quel periodo, Ella Meyer, madre di Erika e vera responsabile, quasi certamente, della "spiata" che aveva portato all'arresto di cinque vicini di Simone, poi deportati a Auschwitz. Sia Ella, ormai ultracentenaria, sia Erika vivono ancora, in Germania, con il peso di quella colpa che furono Simone (e Catherine) a pagare.

sabato 23 agosto 2014

Le donne rapate alla Liberazione

Accadde in Francia come in Italia. Al momento della Liberazione si verificarono in diverse località scene molto simili. Protagoniste involontarie erano le giovani donne sospettate di collaborazionismo. Erano andate a letto con militari tedeschi, si diceva, erano state loro complici o avevano praticato la delazione. Venivano rasate a zero in piazza ed esposte al ludibrio e alla violenza della folla. 

Nel giugno 1969, durante un conferenza stampa, il presidente Georges Pompidou si trovò a dover reagire al suicidio di Gabrielle Russier, una giovane insegnante condannata per sottrazione di minore; aveva avuto una relazione amorosa con un suo allievo sedicenne. Tacque per alcuni lunghi istanti, poi disse di non volersi soffermare su ciò che poteva aver pensato o fatto in proposito. E poi senza altri indugi recitò i primi versi della poesia «Comprenne qui voudra»: « Moi, mon remords, ce fut la victime raisonnable au regard d’enfant perdu, celle qui ressemble aux morts qui sont morts pour être aimés». E' Eluard che parla, concluse.























La poesia era preceduta, alla pubblicazione, da un breve testo in prosa.

A quei tempi, per non punire i colpevoli, si maltrattavano delle ragazze. Si arrivava fino alla tosatura dei loro capelli.

Capisca chi vorrà capire
Io il mio rimorso fu
l'infelice rimasta
sul lastrico

la vittima ragionevole
con il vestito strappato
lo sguardo di bambina smarrita
deposta sfigurata
quella che somiglia ai morti
che sono morti per essere amati

Una ragazza fatta per un bouquet
e coperta
dallo sputo nero delle tenebre

Una ragazza galante
come un'aurora di primo maggio
la più amabile delle bestie

Sporcata e che non ha capito
di essere sporca
Una bestia intrappolata
Dagli amanti della bellezza

E a mia madre la donna
piacerebbe coccolare
Questa immagine ideale
Della sua disgrazia sulla terra.

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Paul Eluard


En ce temps-là, pour ne pas châtier les coupables, on maltraitait les filles. On allait même jusqu'à les tondre.

 
Comprenne qui voudra
Moi mon remords ce fut

La malheureuse qui resta
Sur le pavé
La victime raisonnable
À la robe déchirée
Au regard d’enfant perdue
Découronnée défigurée
Celle qui ressemble aux morts
Qui sont morts pour être aimés

Une fille faite pour un bouquet
Et couverte
Du noir crachat des ténèbres

Une fille galante
Comme une aurore de premier mai
La plus aimable bête

Souillée et qui n’a pas compris
Qu’elle est souillée
Une bête prise au piège
Des amateurs de beauté

Et ma mère la femme
Voudrait bien dorloter
Cette image idéale
De son malheur sur terre.


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Nel 1965 anche Georges Brassens tornò sul tema in una sua canzone

La tondue

La belle qui couchait avec le roi de Prusse
Avec le roi de Prusse
A qui l'on a tondu le crâne rasibus
Le crâne rasibus

Son penchant prononcé pour les " ich liebe dich ",
Pour les " ich liebe dich "
Lui valut de porter quelques cheveux postich's
Quelques cheveux postich's

Les braves sans-culott's et les bonnets phrygiens
Et les bonnets phrygiens
Ont livre sa crinière à un tondeur de chiens
A un tondeur de chiens

J'aurais dû prendre un peu parti pour sa toison
Parti pour sa toison
J'aurais dû dire un mot pour sauver son chignon
Pour sauver son chignon

Mais je n'ai pas bougé du fond de ma torpeur
Du fond de ma torpeur
Les coupeurs de cheveux en quatre m'ont fait peur
En quatre m'ont fait peur

Quand, pire qu'une brosse, elle eut été tondue
Elle eut été tondue
J'ai dit : " C'est malheureux, ces accroch'-cœur perdus
Ces accroch'-cœur perdus "

Et, ramassant l'un d'eux qui traînait dans l'ornière
Qui traînait dans l'ornière
Je l'ai, comme une fleur, mis à ma boutonnière
Mis à ma boutonnière

En me voyant partir arborant mon toupet
Arborant mon toupet
Tous ces coupeurs de natt's m'ont pris pour un suspect
M'ont pris pour un suspect

Comme de la patrie je ne mérite guère
Je ne mérite guère
J'ai pas la Croix d'honneur, j'ai pas la croix de guerre
J'ai pas la croix de guerre

Et je n'en souffre pas avec trop de rigueur
Avec trop de rigueur
J'ai ma rosette à moi: c'est un accroche-cœur
C'est un accroche-cœur




Versione italiana di Mario Mascioli e Nanni Svampa
Dal volume: "Brassens. Tutte le canzoni tradotte da Nanni Svampa e Mario Mascioli", Padova, Franco Muzzio editore, 1991, pp.169/170.

LA RAPATA A ZERO

Alla bella che andava a letto con il re di Prussia,
con il re di Prussia,
che è stata rapata a zero,
a zero,

La sua spiccata inclinazione per gli "ich liebe dich",
per gli "ich liebe dich",
costò di dover portare un po' di capelli finti,
capelli finti.

I bravi sanculotti e i berretti frigi,
e i berretti frigi,
hanno consegnato la sua criniera ad un tosacani,
ad un tosacani.

Avrei dovuto un po' prendere le difese della sua capigliatura,
le difese della sua capigliatura,
avrei dovuto mettere una buona parola per salvare il suo chignon,
per salvare il suo chignon.

Ma non mi sono mosso dal fondo del mio torpore,
dal fondo del mio torpore,
quelli che spaccano i capelli in quattro, mi hanno fatto paura,
mi hanno fatto paura.

Quando fu tosata peggio di una spazzola,
peggio di una spazzola,
ho detto: "Che tristezza, quei tirabaci persi!
Quei tirabaci persi!"

E, raccogliendone uno che era rimasto sulla strada,
sulla strada,
a mo' di fiore me lo sono messo all'occhiello,
messo all'occhiello.

Nel vedermi andare via, ostentando la mia faccia tosta,
la mia faccia tosta,
tutti quei tagliatori di trecce m'hanno preso per un tipo sospetto,
m'hanno preso per un tipo sospetto.

Siccome non sono affatto un benemerito della patria,
non sono affatto un benemerito,
non ho la croce d'onore, non ho la croce di guerra,
non ho la croce di guerra,

E non ne soffro poi così tanto,
così tanto,
ho una coccarda tutta mia: è un tirabaci,
è un tirabaci.

Agosto 1939: il dissenso di Umberto Terracini

Gianni Corbi
Camilla l'intrigante e Scoccimarro il debole
la Repubblica, 18 febbraio 1992


La lettera inviata da Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco in cui si affronta il caso Terracini-Ravera è di grande interesse per la comprensione di un capitolo importante della storia del Pci. Togliatti la scrive da Ufa - capitale della Baschiria - dove si è rifugiata una parte della Nomenklatura del Comintern. Nella lettera non si parla dei drammi dell' Armir, della guerra mortale con Hitler, ma di fatti politici e personali che si svolgono nell' assolata isola di Ventotene, a molte migliaia di chilometri da Ufa. Ma il lettore non si lasci ingannare. In tre paginette il leader del Pci e dell' Internazionale comunista affronta casi personali drammatici, mette le dita in una piaga purulenta, scoperchia una pentola nella quale hanno bollito a lungo alcuni veleni mortali del comunismo italiano. Oggetto della corrispondenza è la sorte da riservare a Umberto Terracini e a Camilla Ravera, due fondatori del partito, da moltissimi anni in carcere, indiziati di revisionismo, di trotzkismo, di scarsa o nessuna comprensione delle esigenze della politica sovietica. Che fare di questi eminenti compagni? Espellerli tout court, come sembra abbiano già fatto i dirigenti del collettivo comunista di Ventotene? O tentare di recuperarli? Per comprendere appieno il significato della lettera di Togliatti bisogna tornare indietro di quattro anni. Riandare con la memoria al 23 agosto del 1939. Quel giorno viene firmato il patto Ribbentrop-Molotov. La "terribile" fotografia in cui si vede Stalin stringere la mano al ministro degli esteri nazista sprofondò il comunismo occidentale in una crisi micidiale. Togliatti in quei giorni è a Parigi e fa propria la tesi del segretario del Pcf Maurice Thorez: "Si deve distinguere tra un giudizio sul Patto, che è positivo, e la necessità di battersi contro il nazismo se Hitler scatena la guerra". Poi anche il compassato Togliatti sbracherà, e scriverà alcune delle più vergognose pagine sul socialfascismo delle democrazie occidentali.

 Ventotene nella tempesta

 A Ventotene, dove è rifugiato il Gotha del comunismo italiano, è la tempesta. Oltre Terracini, Secchia, Scoccimarro, la Ravera, ci sono in quell' isola più di 1700 quadri di partito e una minoranza qualificata di non comunisti. Fra i comunisti il dibattito fu intenso, drammatico. L' unico a dare una risposta, dura e immediata, contro l' accordo Molotov-Ribbentrop fu Terracini. Per lui quel Patto era innaturale e scellerato e non avrebbe impedito a Hitler di attaccare l' Urss come aveva scritto nel suo Mein Kampf. Ma il dissenso di Terracini, e in parte della Ravera, andava oltre il patto germano-sovietico. Mauro Scoccimarro, - dirigente settario e molto pieno di sé - sosteneva, insieme ad altri compagni molto autorevoli, che una vittoria della coalizione anglo-francese sui nazisti non sarebbe stata di per sé una vittoria della democrazia. C' era la tendenza - dirà Terracini in un libro-intervista curato da Arturo Gismondi - "a vedere nelle correnti democratico-borghesi il nemico peggiore, il più insidioso, o l' ultimo". Per Scoccimarro e Secchia, aggiunge Terracini, "il dato significante fra i diversi regimi, democratici o fascisti, era che tutti e due si basavano sullo sfruttamento, e dunque sulla dittatura di classe della borghesia". La posizione di Camilla Ravera, apparentemente un po' più sfumata, era in sostanza in piena sintonia con quella di Terracini. Anche lei aveva espresso qualche dubbio sul patto Molotov-Ribbentrop. Anche lei, come Terracini, era dell' idea che in previsione della caduta del fascismo si dovevano preparare le basi per una coalizione di forze antifasciste. Una coalizione antifascista, sosteneva Terracini, che avrebbe dovuto preparare il terreno per soluzioni politicamente più avanzate. Con queste idee gramsciane in testa, Terracini e la Ravera - all' inizio del 1943 - sono definitivamente fuori del partito. E proprio agli inizi del 1943 i due "reprobi" preparano separatamente, due ricorsi da sottoporre all'attenzione dell'Ufficio politico, di Togliatti e dell'Internazionale. Terracini conclude il suo esposto parlando di un "brutto episodio che non ha nulla a che vedere con l' avanguardia organizzata del proletariato italiano". La Ravera invita invece l' Ufficio politico alla prudenza, a non prendere decisioni affrettate, a non "pregiudicare il mio prezioso diritto alla milizia nel partito con una conclusione non graniticamente fondata". Non sappiamo se e quando i ricorsi di Terracini e della Ravera - scritti nel febbraio del 1943 - siano stati conosciuti da Togliatti. Nella lettera indirizzata a Bianco - scritta il 10 febbraio del 1943 - Togliatti si riferisce sicuramente alle polemiche violente che a Ventotene avevano investito Terracini e la Ravera provocando, nelle settimane a cavallo tra il 1942 e il 1943, la loro definitiva espulsione, peraltro non ufficializzata e conosciuta solo da pochissimi compagni. Che fare ora? E' quello che si chiede Togliatti dal freddissimo rifugio di Ufa. La lettera che egli manda a Vincenzo Bianco perché sia possibilmente trasmessa al referente in Italia "Quinto" - uno dei nomi di battaglia di Umberto Massola - è un vero classico del repertorio togliattiano. Anzitutto il capo del Pci si protegge le spalle affermando che ogni posizione trotzkista deve essere combattuta con estrema decisione. Ma subito dopo Togliatti arriva al cuore del problema e si chiede: dobbiamo arrivare all' espulsione di Terracini come propone "Tistino" (Togliatti vuole probabilmente riferirsi a "Quintino", nome di battaglia di Scoccimarro), oppure dobbiamo salvaguardare la figura del compagno Terracini in vista dei compiti che attendono il Pci dopo la caduta del fascismo? Togliatti non sembra aver dubbi. Dopo averne sottolineato i difetti (cocciutaggine, orgoglio smisurato, ostinazione nel sostenere le proprie idee anche in minoranza), Togliatti mette bene in chiaro che però bisogna fare il possibile perché Terracini non esca dal carcere "come il dirigente di un gruppo di opposizione in lotta con il partito". La lettera è cosparsa di giudizi velenosi. Il più cattivo riguarda il dogmatico Scoccimarro che non si sarebbe dimostrato, al contrario di Terracini, un esempio di combattività in carcere, e che spinge il suo settarismo fino al ridicolo. Un altro, e la cosa sorprende un po', riguarda Camilla Ravera che, scrive Togliatti, "non vale niente, né come dirigente politico, né come organizzatore. Eccelle solo come intrigante". Ma come, proprio Camilla Ravera, la "maestrina di Acqui", l' intellettuale del gruppo "Ordine nuovo", la più dotata politicamente, in carcere da quasi tre lustri, è liquidata come una poco di buono, capace solo di tessere intrighi? Eppure, quell' "intrigante" era stata - nella drammatica crisi del 1929 - l'unica ad appoggiare incondizionatamente Togliatti contro i "giovani" Longo e Secchia, a rincuorarlo, a convincerlo a non abbandonare la politica di partito.

Verso la ' svolta' 

L' impressione che si ricava dalla lettera è poi che Togliatti abbia perfettamente capito che le idee di Terracini non sono più tabù ma cominciano anzi a collimare con le sue. Dal suo eremo di Ufa Togliatti può immaginare il clima, pesante e intollerante, che si è instaurato nel collettivo di Ventotene, dove spadroneggiano Longo, Secchia e Scoccimarro che non hanno mai amato la politica delle grandi alleanze e gli accordi con i partiti democratici e borghesi. Proteggere e salvare Terracini è per Togliatti un modo per rafforzare quella politica che si tradurrà - nella primavera del 1943 - nella "svolta" di Salerno. In una lezione tenuta agli allievi della scuola di Kusnarienko, non lontana da Ufa e dove studiano alcuni italiani, Togliatti ribadisce questi concetti. Bisogna evitare, dice, "l' errore di considerare l' attuale alleanza con le forze democratiche dell' Occidente sinceramente antifasciste, come l' Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti, come qualcosa di passeggero. Non dobbiamo mettere sullo stesso piano il fascismo e le democrazie borghesi. Questa alleanza non è un trucco; ma risponde alle più profonde esigenze della classe operaia". Era in sostanza quello che Terracini non poteva dire nel 1939 e che invece, nell' inverno del 1943, al culmine della "guerra patriottica" combattuta nel nome di Stalin, è diventata una strategia politica finalmente praticabile. C' è poi nell' aria la sensazione che il fascismo abbia le ore contate. Gli alleati ammassano truppe in Nord Africa per lo sbarco in Italia. Il Comintern sta vivendo, in penombra, i suoi ultimi giorni prima del definitivo scioglimento. Dopo trent'anni di esilio Togliatti lascia, come un abito sdrucito il vecchio nome di Ercoli. Sta per aprirsi il fronte italiano, e Togliatti avverte che il combattivo Terracini, uno dei dirigenti più intelligenti espressi dal Pci. potrebbe tornargli utile.

venerdì 22 agosto 2014

Cézanne e Zola: un'amicizia finita male

Amis depuis l’enfance, Cézanne et Zola vont être liés pendant près de quarante ans. L’écrivain n’oublie jamais son vieil ami et lui envoie chacun de ses romans dès leur parution. Chaque fois, Cézanne lui répond. A chacune de ses visites à Paris, Cézanne se rend à Médan. En mai 1883, il demande conseil à Zola au moment de la rédaction de son testament.
Il a toujours été communément admis que les deux amis se sont brouillés à la suite de la publication de L’Oeuvre, Cézanne s’étant reconnu sous les traits peu flatteurs de Claude Lantier, peintre maudit et aigri, au génie avorté. A la fin de sa lecture, il écrira une lettre (datée du 25 août 1885 par la fille de l’écrivain ; du 4 avril 1886 par Henri Mitterand), considérée par beaucoup et à tort comme la dernière du peintre au romancier, lettre qui se termine ainsi : « Tout à toi sous l’impulsion des temps écoulés ». « Pourquoi Zola n’est-il pas allé fraternellement le trouver, pourquoi ne se sont-ils jamais expliqués? À ces questions, Mme Zola m’a toujours répondu: « Tu n’as pas connu Cézanne, rien ne pouvait l’obliger à changer d’avis ». » (Zola et Cézanne, par Denise Leblond-Zola, Encyclopédie de l’Agora: agora.qc.ca).

Paul Cézanne, La lecture de Paul Alexis chez Zola, 1869-70 (museo di San Paolo del Brasile)



Alessandro Piperno
Cézanne: spietato Zola, mise a nudo le sue paure
Corriere della Sera, 1 marzo 2007 

Odore di sesso e morte. E un’opera non finita per incapacità 


Chi risarcirà i grandi diffamati della letteratura? Parlo dei disgraziati la cui immagine postuma è stata rovinata da qualche nevrotico genio letterario. Pensate solo all’esercito di mamme: alla madre di Baudelaire, di Proust, di Gadda: brave donne che dall’aldilà hanno dovuto assistere alla propria capziosa demonizzazione. Il problema è che uno scrittore non ha alternative. La calunnia e l’auto-denigrazione fanno parte della sua deontologia. Perfino un genio epico come Tolstoj - per inventare coppie del calibro di Pierre-Natacha o di Levin-Kitti - dovette attingere alle proprie traumatizzanti esperienze coniugali. Tutto questo per dire che uno scrittore deve arrendersi all’idea che porterà scompiglio nella vita delle persone amate, che, nel caso migliore, condannerà a essere mistificate da una posterità pettegola. Chissà se Emile Zola, mentre scriveva il romanzo «L’opera», nel 1885, poteva sapere che quel libro avrebbe guastato i rapporti con il suo migliore amico: quel Paul Cézanne, alla cui vita di artista fallito Zola si era ispirato per creare il personaggio di Claude Lantier. Zola non faceva che lamentarsi della sua assenza di fantasia. Per lui la vita era importante proprio perché forniva gli spunti che la sua immaginazione non era in grado d’inventare. Scrivere un libro sul mondo degli artisti era una sua vecchia ambizione. Per molti anni li aveva frequentati, li aveva visti vivere, discutere, litigare, dipingere, sospesi, com’erano, in quel limbo lattiginoso che divide l’euforia dallo sconforto. Così scrisse «L’opera», la storia di Claude Lantier, pittore di formidabile insuccesso che si suicida per il sospetto di non avere talento. L’uscita del libro scatenò una vera bagarre. Monet, Renoir e soprattutto Cézanne si sentirono traditi dal quel vecchio amico, il quale, piuttosto che illustrare il successo dei loro esperimenti pittorici, aveva enfatizzato la deriva fallimentare delle loro esistenze. Lo accusarono di sciacallaggio: aveva dato in pasto ai filistei parigini i suoi amici di una vita. Cézanne non si riprese. Lui era Claude Lantier, il pittore pazzo e suicida de «L’opera». Conosceva tutto di quel libro. Aveva assistito alla sua gestazione. Sapeva quanto Zola si fosse ispirato a lui e una sua controversa storia d’amore. Ma ciò che lo insultava non era che la sua vita fosse stata usata per un romanzo, né che il personaggio di Claude fosse descritto come un perdente. Ciò che Cézanne non poteva perdonare a Zola era di averlo descritto come un artista incompleto che aveva inseguito tutta la vita una perfezione pittorica che gli era preclusa. Cézanne sentì nelle pagine di quel romanzo la pietà e il disprezzo dell’autore - le stesse che lui provava per sé - e si sentì smascherato. Era come se Zola avesse affondato l’unghia nella piaga purulenta della sua anima. È come se, con quel suicidio finale, avesse spettacolarizzato il senso d’inadeguatezza che aveva deciso della vita di Cézanne. Inadeguatezza, appunto. Perché, per quanto a noi possa sembrare ridicolo, Cézanne non sapeva di essere Cézanne. Perché se nessuno ti dice che sei Cézanne è difficile per te capirlo da solo. Anche se sei un genio, anche se stai rivoluzionando la pittura, anche se stai preparando l’avvento di una nuova era. E allora si capisce l’ultimo biglietto che Cézanne scrisse al suo ex amico: «Caro Emile, ho ricevuto ora "L’opera". Ringrazio l’autore dei Rougon-Macquart del buon ricordo e gli chiedo di permettermi di stringergli la mano, ripensando agli antichi anni». Il risentimento è perfettamente descritto dal passaggio dall’affettuoso «Caro Emile» al sarcastico «autore dei Rougon-Macquart». Era la fine dell’amicizia di una vita. E oggi? Cosa resta del compendio di tante sottese meschinerie? I quadri di Cézanne certo, ma anche quelle ultime pagine de «L’opera»: un atelier di pittore disgraziato, una notte fredda, un quadro che non viene completato per incapacità, che l’accanimento del pittore rende a ogni pennellata più grottesco, una ragazza gelosa che vuole strappare il suo uomo alla schiavitù di quella tela assassina, e lo alletta mostrando le sue grazie, il letto in cui il pittore e la sua donna si amano col vigore della disperazione. E lei che, dopo questo amplesso terribile, lo fa giurare che brucerà il quadro e la farà finita con la pittura. Per poi addormentarsi sicura di averlo convinto e svegliarsi che lui si è già impiccato nello studio di fronte alla sua opera incompiuta. La scena odora di sesso e di morte. Con essa non solo Zola ha catturato il segreto di una stagione, ma anche l’ossessione di chi è stato fregato dall’arte, per sempre. Di chi darebbe tutto per compiacerla. Di chi s’ammazza perché non è stato attrezzato dalla natura a convivere con l’idea della propria mediocrità e della propria irrilevanza.