Victor Hugo (1802-1885)
Les Châtiments
1853
Waterloo! Waterloo! Waterloo! Morne plaine!
Comme une onde qui bout dans une urne trop pleine,
Dans ton cirque de bois, de coteaux, de vallons,
La pâle mort mêlait les sombres bataillons.
D'un côté c'est l'Europe, et de l'autre la France !
Choc sanglant ! des héros Dieu trompait l'espérance
Tu désertais, victoire, et le sort était las.
O, Waterloo ! je pleure, et je m'arrête, hélas !
Car ces derniers soldats de la dernière guerre
Furent grands; ils avaient vaincu toute la terre.
Chassés vingt rois, passé les Alpes et le Rhin,
Et leur âme chantait dans les clairons d'airain !
Le soir tombait; la lutte était ardente et noire.
Il avait l'offensive et presque la victoire;
Il tenait Wellington acculé sur un bois.
Sa lunette à la main, il observait parfois
Le centre du combat, point obscur où tressaille
La mêlée, effroyable et vivante broussaille,
Et parfois l'horizon, sombre comme la mer.
Soudain, joyeux, il dit: Grouchy ! - C'était Blücher !
L'espoir changea de camp, le combat changea d'âme.
La mêlée en hurlant grandit comme une flamme.
La batterie anglaise écrasa nos carrés.
La plaine où frissonnaient les drapeaux déchirés,
Ne fut plus, dans les cris des mourants qu'on égorge,
Q'un gouffre flamboyant rouge comme une forge;
Gouffre où les régiments, comme des pans de murs,
Tombaient, ou se couchaient comme des épis mûrs,
Les hauts tambours-majors aux panaches énormes,
Où l'on entrevoyait des blessures difformes!
Carnage affreux ! moment fatal ! L'homme inquiet
Sentit que la bataille entre ses mains pliait.
Derrière un mamelon, la garde était massée,
La garde, espoir suprême et suprême pensée !
-Allons, faites donner la garde, cria-t-il ! -
Et lanciers, grenadiers aux guêtres de coutil,
Dragons que Rome eût pris pour des légionnaires,
Cuirassiers, canonniers qui traînaient des tonnerres,
Portant le noir colback ou le casque poli,
Tous, ceux de Friedland et ceux de Rivoli,
Comprenant qu'ils allaient mourir dans cette fête,
Saluèrent leur Dieu debout dans la tempête,
Leur bouche, d'un seul cri, dit : "Vive l'Empereur ! "
Puis, à pas lents, musique en tête, sans fureur,
Tranquille, souriant à la mitraille anglaise,
La garde impériale entra dans la fournaise.
Hélas ! Napoléon, sur sa garde penchée,
Regardait et, sitôt qu'ils avaient débouché
Sous les sombres canons crachant des jets de soufre,
Voyait, l'un après l'autre, dans cet horrible gouffre,
Fondre ces régiments de granit et d'acier,
Comme fond une cire au souffle d'un brasier.
Ils allaient, l'arme au bras, fronts hauts, graves, stoïques
Pas un ne recula. Dormez, morts héroïques !
Le
reste de l'armée hésitait sur leurs corps
Et regardait mourir la garde. - C'est alors
Qu'élevant tout à coup sa voix désespérée,
La Déroute géante à la face effarée,
Qui, pâle, épouvantant les plus fiers bataillons,
Changeant subitement les drapeaux en haillons,
A de certains moments, spectre fait de fumées,
Se lève grandissant au milieu des armées,
La Déroute apparut au soldat qui s'émeut,
Et, se tordant les bras, cria : Sauve qui peut!
Sauve qui peut ! affront ! horreur ! toutes les bouches
Criaient à travers champs, fous, éperdus, farouches,
Comme si quelque souffle avait passé sur eux,
Parmi les lourds caissons et les fourgons poudreux,
Roulant dans les fossés, se cachant dans les seigles,
Jetant shakos, manteaux, fusils, jetant les aigles,
Sous les sabres prussiens, ces vétérans, ô deuil!
Tremblaient, hurlaient, pleuraient, couraient. - En un clin d'œil
Comme s'envole au vent une paille enflammée,
S'évanouit ce bruit qui fut la grande armée,
Et cette plaine, hélas! où l'on rêve aujourd'hui,
Vit fuir ceux devant qui l'univers avait fui!
Quarante ans sont passés, et ce coin de la terre,
Waterloo, ce plateau funèbre et solitaire,
Ce champ sinistre où Dieu mêla tant de néants,
Tremble encor d'avoir vu la fuite des géants!
Napoléon les vit s'écouler comme un fleuve ;
Hommes, chevaux, tambours, drapeaux; - et dans l'épreuve
Sentant confusément revenir son remords,
Levant les mains au ciel, il dit : - Mes soldats morts,
Moi vaincu! mon empire est brisé comme verre.
Est-ce le châtiment cette fois, Dieu sévère ?
Alors parmi les cris, les rumeurs, le canon,
Il entendit la voix qui lui répondait : non!
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Les Misérables
1862
parte seconda, libro primo
traduzione di Renato Colantuoni
XII • LA GUARDIA
Il resto è noto: l'irruzione d'un terzo esercito, la
battaglia spostata, ottantasei bocche da fuoco che tuonano
contemporaneamente, Pirch che sopravviene con Bülow,
la cavalleria di Zieten, guidata da Blücher in persona,
i francesi ricacciati, Marcognet spazzato via dalla
spianata d'Ohain, Durutte sloggiato da Papelotte, Donzelot
e Quiot costretti a indietreggiare, Lobau preso d'infilata,
una nuova battaglia che si precipita, sul cader della
notte, sopra i nostri reggimenti smantellati, l'intera linea
inglese che riprende l'offensiva e si spinge avanti, la
gigantesca breccia aperta nell'esercito francese, la mitraglia
inglese e la prussiana che s'aiutan fra loro, lo sterminio,
il disastro sulla fronte, sui fianchi e la guardia,
che entra in linea sotto quello spaventoso crollo.
Poiché sentiva d'andare a morire, essa gridò:
«Viva l'imperatore!» La storia non ha nulla di più commovente
di codesta agonia che esplode in acclamazioni.
Il cielo era stato coperto tutto il giorno. All'improvviso,
in quello stesso momento (erano le otto di
sera), le nuvole si squarciarono sull'orizzonte e lasciaron
passare, attraverso gli olmi della strada di Nivelles, il
grande e sinistro fulgore del sole di porpora che tramontava:
ad Austerlitz, era stato visto sorgere.
Ogni battaglione della guardia, in quel tragico finale,
era comandato da un generale: erano presenti
Friant, Michel, Roguet, Harlet, Mallet, Poret di Morvan.
Quando gli alti colbacchi dei granatieri della guardia,
col gran fregio metallico in forma d'aquila, apparvero,
simmetrici, allineati, tranquilli e superbi nella foschia di
quella zuffa, il nemico sentì il rispetto della Francia;
credette di vedere venti vittorie entrare sul campo di
battaglia ad ali spiegate e coloro ch'eran vincitori, ritenendosi
vinti, indietreggiarono. Ma Wellington gridò: In
piedi, guardie, e mirate giusto! e il reggimento delle
guardie, sdraiato dietro le siepi, s'alzò; un nugolo di mitraglia
crivellò la bandiera tricolore, fremendo intorno
alle nostre aquile, tutti si scagliarono e incominciò la suprema
carneficina. La guardia imperiale sentì nell'ombra
che l'esercito fuggiva intorno ad essa, sentì il grande
crollo della disfatta, sentì il Si salvi chi può, che aveva
sostituito il Viva l'imperatore; e, colla fuga dietro di sé,
continuò ad avanzare, sempre più fulminata e sempre
più morente ad ogni passo che faceva. Non vi furono né
dubbiosi, né timidi, e il soldato, fu eroe al pari del generale;
non uno mancò al suicidio.
Ney, smarrito, grande di tutta l'altezza della morte
accettata, s'offriva a tutti i colpi, in quella tormenta. Là
ebbe il quinto cavallo ucciso sotto di sé; sudato, cogli
occhi fiammeggianti e la schiuma alle labbra, coll'uniforme
sbottonata, una spallina tagliata in mezzo dalla
sciabolata d'un horse guard e l'aquila metallica della de-
corazione ammaccata da una palla, sanguinante, infangato
e magnifico, con in pugno una spada spezzata, diceva:
Venite a vedere come muore un maresciallo di
Francia sul campo di battaglia! Invano: egli non morì.
Feroce e indignato, buttava in viso a Drouet d'Erlon
questa domanda: E tu, non ti fai uccidere? E gridava in
mezzo a tutte quelle cannonate che schiacciavano un pugno
d'uomini: Non v'è dunque nulla per me? Oh, vorrei
che tutte queste palle inglesi m'entrassero nel ventre! Tu
eri serbato a palle francesi, disgraziato!
XIII • LA CATASTROFE
La disfatta, dietro la guardia, fu tremenda.
L'esercito ripiegò bruscamente da tutte le parti ad
un tempo, da Hougomont, dalla Haie-Sainte, da Papelotte
e da Plancenoit. Il grido: Tradimento! fu seguito dal
grido: Si salvi chi può! Lo sbandarsi d'un esercito è simile
al disgelo: tutto s'inflette, si fende, scricchiola, galleggia,
rotola, s'urta, s'affretta, precipita; è una disgregazione
incredibile. Ney, fattosi prestare un cavallo, vi balza
sopra e, senza cappello, senza cravatta, senza spada si
mette di traverso sulla strada di Bruxelles, fermando
contemporaneamente inglesi e francesi; tenta di trattenere
l'esercito, lo chiama e l'insulta e sembra s'aggrappi
alla disfatta. Ma viene lasciato indietro; i soldati lo fuggono,
gridando: Viva il maresciallo Ney! Due reggimenti di Durutte
vanno e vengono, sgomenti e come sballottati fra le sciabole
degli ulani ed i fucili delle brigate di Kempt, di Best, di Pack
e di Rylandt. La peggior mischia è la disfatta poiché gli amici
s'uccidono fra loro, per sfuggire, e gli squadroni e i battaglioni
si frangono e disperdono gli uni contro gli altri, enorme schiuma
della battaglia. Lobau ad una estremità e Reille all'altra sono
travolti dall'ondata: invano Napoleone erge una muraglia
con quello che gli rimane della guardia; invano impiega
in un ultimo sforzo i suoi squadroni di scorta.
Quoit indietreggia davanti a Vivian, Kellermann davanti
a Vendeleur, Lobau davanti a Bülow, Morand di fronte a
Pirch, Domon e Subervic di fronte al principe Guglielmo
di Prussia; Guyot, che ha condotto alla carica gli
squadroni dell'imperatore, cade sotto i piedi dei dragoni
inglesi. Napoleone corre al galoppo sulle orme dei fuggiaschi,
li arringa, li sollecita, li minaccia e li supplica;
ma tutte quelle bocche che al mattino gridavano: Viva
l'imperatore! rimangono spalancate: è molto se lo riconoscono.
La cavalleria prussiana, sopraggiunta in quel
mentre, si slancia, vola, sciabola, taglia, fa a pezzi, uccide,
stermina. I carriaggi si danno alla fuga in corsa, i
cannoni scappano; i soldati dell'artiglieria staccano i
cassoni e ne prendono i cavalli per fuggire: le carrette ribaltate
colle quattro ruote in aria ingombrano la strada e
sono cagione di massacro. Ci si schiaccia, ci si pigia, si
cammina sui morti e sui vivi; le braccia sono come paralizzate
e una vertiginosa moltitudine riempie le strade, i
sentieri, i ponti, le pianure, le colline, le valli e i boschi,
strabocchevolmente ingombrati da quell'evasione di
quarantamila uomini. Urli, disperazioni, zaini e fucili
buttati nei campi di segale, non più camerati, non più ufficiali,
non più generali, uno spavento inesprimibile,
Zieten che sciabola la Francia a suo piacimento, i leoni
diventati pecore: ecco che cosa fu quella fuga.
A Genappe venne fatto un tentativo di resistere, di
far fronte, di tener duro. Lobau riunì trecento uomini e
venne barricato l'ingresso del villaggio; ma alla prima
raffica della mitraglia prussiana tutti si diedero alla fuga
e Lobau fu preso. Si vede ancor oggi quella scarica di
mitraglia impressa sulle facciate d'una vecchia bicocca
in mattoni, a destra della strada, pochi minuti prima
d'entrare in Genappe. I prussiani si gettarono in Genappe,
certo furiosi d'esser così poco vincitori, e l'inseguimento
fu mostruoso, perché Blücher aveva ordinato lo
sterminio. Era stato Roguet a dare quel tristo esempio di
minacciare di morte qualunque granatiere francese che
gli avesse portato un prigioniero prussiano: ma Blücher
superò Roguet. Il generale della giovane guardia, Duhesme,
addossato all'uscio d'un albergo di Genappe, cedette
la spada a un ussaro della Morte, che la prese ed uccise
il prigioniero. La vittoria finì coll'assassinio dei vinti.
Poiché siamo la storia, puniamo: il vecchio Blücher si
disonorò. Ma quella ferocia portò al colmo il disastro: la
disperata rotta attraversò Genappe, attraversò Quatre-
Bras, attraversò Gosselies, attraversò Frasnes, attraversò
Charleroi, attraversò Thuin e si fermò solo alla frontiera.
Ahimè, chi fuggiva in quel modo? La grande armata!
Quella vertigine, quel terrore, quel rovinìo del
maggior coraggio che abbia mai fatto stupire la storia,
sarebbero dunque senza causa? No: l'ombra d'una enorme
mano destra si proietta su Waterloo. È la giornata del
destino, prodotta da una forza che sta al disopra dell'uomo;
per questo le teste si curvano sgomente, per questo
le anime grandi cedono la spada; coloro che avevan vinto
l'Europa caddero atterrati senza aver più nulla da dire
e da fare, perché sentirono nell'ombra una presenza terribile.
Hoc erat in fatis. Quel giorno, si mutò la prospettiva
del genere umano: Waterloo è il cardine del secolo
decimonono. La scomparsa del grand'uomo era necessaria
all'avvento del gran secolo e qualcuno al quale non si
può ribattere se ne incaricò. Il panico degli eroi si spiega:
nella battaglia di Waterloo, più che una nube, è stata
una meteora, è passato Dio.
Sul cader della notte, in un campo vicino a Genappe,
Bernard e Bertrand agguantarono per un lembo
della giubba e fermarono un uomo torvo, pensoso e sinistro
il quale, trascinato fin lì dalla corrente della disfatta,
era sceso di sella e, dopo aver passato sotto il braccio la
briglia del cavallo, se ne tornava collo sguardo smarrito,
solo, verso Waterloo. Era Napoleone che tentava ancora
d'andare avanti, immenso sonnambulo di quel sogno
crollato.
XIV • L'ULTIMO QUADRATO
Alcuni quadrati della guardia, immobili nell'impetuosa
corrente della disfatta, come le rocce nell'acqua
che scorre, resistettero fino a notte. Scendeva la notte e,
con lei, la morte; essi attesero la duplice ombra e, incrollabili,
se ne lasciarono ravvolgere: ciascun reggimento,
isolato dagli altri, rotto da ogni parte, periva per
conto proprio. Per quest'azione estrema, alcuni avevan
preso posizione sulle alture di Rossomme, altri nella
pianura di Mont-Saint-Jean e colà, abbandonati, vinti e
terribili, quei sinistri quadrati finivano in una grandiosa
agonia. Ulma, Wagram, Jena e Friedland morivano con
essi.
Al crepuscolo, verso le nove di sera, sul limite inferiore
della spianata di Mont-Saint-Jean, ne rimaneva
uno. In quella valletta funesta, ai piedi di quel pendio
superato dai corazzieri ed ora inondato dalle masse inglesi,
sotto i fuochi convergenti della vittoriosa artiglieria
nemica, sotto una spaventosa densità di proiettili,
quel quadrato lottava. Era comandato da un oscuro ufficiale,
chiamato Cambronne; ad ogni scarica, il quadrato
si faceva più piccolo e rispondeva, ribattendo alla mitraglia
colla fucileria e restringendo sempre più i suoi quattro
muri. Da lungi i fuggiaschi, quando si fermavano a
riprender fiato, udivano nelle tenebre quel sinistro tuono
decrescente.
Quando quella legione non fu più che un manipolo,
quando la loro bandiera non fu più che un brandello,
quando i loro fucili senza munizioni non furono più che
bastoni e il mucchio dei morti fu più grande del gruppo
dei vivi, vi fu fra i vincitori una specie di terrore sacro,
intorno a quei sublimi moribondi, e l'artiglieria inglese,
riprendendo fiato, tacque. Fu una specie di tregua. Quei
combattenti avevano intorno ad essi come un formicolio
di spettri, profili d'uomini a cavallo, nere sagome di cannoni,
mentre attraverso le ruote e gli affusti scorgevano
il cielo ormai sereno; la colossale testa da morto che gli
eroi intravedono sempre, nel fumo dello sfondo della
battaglia, andava avanzando su di essi e li guardava. Poterono
sentire nell'ombra crepuscolare che venivan caricati
i cannoni, mentre le micce accese, simili ad occhi di
tigre nell'oscurità, formavano un cerchio intorno alle
loro teste e tutti i cannonieri delle batterie inglesi s'avvicinavano
ai cannoni; ed allora, commosso, tenendo sospeso
su quegli uomini il minuto supremo, un generale
inglese, Colville secondo alcuni, Maitland secondo altri,
gridò loro: «Arrendetevi, valorosi francesi!» Cambronne
rispose: «Merda!»
XV • CAMBRONNE
Poiché il lettore francese ci tiene ad essere rispettato,
la parola forse più bella che un francese abbia mai
detto non può essergli ripetuta. È vietato scaricare il sublime
nella storia; ma, a nostro rischio, infrangiamo
questo divieto.
Dunque, fra tutti quei giganti vi fu un titano,
Cambronne.
Dire quella parola e poi morire: cosa v'è di più
grande? Poiché voler morire è morire e non fu colpa di
quell'uomo se, mitragliato, sopravvisse.
Colui che ha vinto la battaglia di Waterloo non è
Napoleone messo in rotta, non è Wellington, che alle
quattro ripiega e alle cinque è disperato, non è Blücher
che non ha affatto combattuto; colui che ha vinto la battaglia
di Waterloo è Cambronne. Poiché fulminare con
una parola simile il nemico che v'uccide, significa vincere.
Dar questa risposta alla catastrofe, dire siffatta
cosa al destino, dare codesta base al futuro leone, gettar
codesta ultima battuta in faccia alla pioggia della notte,
al muro traditore d'Hougomont, alla strada incassata
d'Ohain, al ritardo di Grouchy e all'arrivo di Blücher;
esser l'ironia nel sepolcro, fare in modo di restar ritto
dopo che si sarà caduti, annegare in due sillabe la coalizione
europea, offrire ai re le già note latrine dei cesari,
fare dell'ultima delle parole la prima, mescolandovi lo
splendore della Francia, chiudere insolentemente Water-
loo col martedì grasso, completare Leonida con Rabelais,
riassumer questa vittoria in una parola impossibile
a pronunciare, perder terreno e conquistare la storia,
aver dalla sua, dopo quel macello, la maggioranza, è una
cosa che raggiunge la grandezza eschilea.
La parola di Cambronne fa l'effetto d'una frattura:
la frattura d'un petto per lo sdegno, il soverchio dell'agonia
che esplode. Chi ha vinto? Wellington? No, perché
senza Blücher era perduto. Blücher non avrebbe potuto
finire. E quel Cambronne, quel viandante dell'ora estrema,
quel soldato ignorato, quell'infinitamente piccolo
della guerra sente che lì v'è una menzogna e, straziante
aggiunta, una menzogna in una catastrofe; nel momento
in cui esplode di rabbia, gli offrono quella derisione che
è la vita! Come fare a non scattare?
Eccoli lì, tutti i re d'Europa, ecco i generali fortunati,
i Giove tonanti, che hanno centomila soldati vittoriosi
e, dietro i centomila, un milione d'altri soldati; i
loro cannoni, colle micce accese, spalancano le fauci ed
essi tengono sotto il tallone la guardia imperiale e la
grande armata; hanno schiacciato or ora Napoleone ed
ora resta soltanto Cambronne; rimane solo, a protestare,
quel verme. E protesterà. Cerca allora una parola, come
si cerca una spada, gli viene la bava alla bocca e quella
bava è la parola. Al cospetto di quella vittoria prodigiosa
e mediocre, davanti a quella vittoria senza vittoriosi,
quel disperato si erge ritto; ne subisce l'enormità, ma ne
constata la nullità; fa più che sputarle addosso e, sotto
l'oppressura del numero, della forza e della materia, trova
un'espressione all'animo: l'escremento. Ripetiamolo:
dire cosa siffatta, far ciò, trovar ciò, significa esser vincitore.
L'anima dei grandi giorni entrò, in quel momento
fatale, in quello sconosciuto. Cambronne trovò la parola
di Waterloo come Rouget de l'Isle trovò la Marsigliese,
per visitazione dell'alito divino; un effluvio dell'uragano
celeste si stacca e viene a passare attraverso a quegli uomini
ed essi trasaliscono ed uno canta il canto supremo,
come l'altro getta il grido terribile. E quella parola dello
sdegno titanico, Cambronne non la getta soltanto in faccia
all'Europa in nome dell'impero, poiché sarebbe ben
poca cosa; la getta al passato, in nome della rivoluzione.
Si sente e si riconosce in Cambronne la vecchia anima
dei giganti; sembra che sia Danton che parla o Kléber
che rugge.
Alla parola di Cambronne, la voce inglese rispose:
«Fuoco!» Le batterie avvamparono, la collina tremò
e da tutte quelle bocche di bronzo uscì un ultimo vomito
di mitraglia; una gran nube di fumo, vagamente rischiarata
dalla luna nascente, roteò nell'aria e, quando il fumo
fu dissipato, non v'era più nulla. Quel formidabile avanzo
era annientato: la guardia era morta. I quattro muri
della ridotta vivente giacevano a terra e a malapena si
distingueva qua e là un sussulto, in mezzo ai cadaveri;
così spirarono a Mont-Saint-Jean le legioni francesi, più
grandi delle legioni romane, sulle zolle bagnate di piog-
gia e di sangue, fra le spighe sinistre, nel luogo dove ora
passa, alle quattro del mattino, fischiettando e sferzando
allegramente il cavallo, Giuseppe, che fa il servizio della
diligenza di Nivelles.
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