Paolo Pombeni
Perché non avremo più una DC
Reset, 12 giugno 2014
Se si vuole valutare in maniera appropriata il tema della presenza
dei cattolici (o più genericamente dei cristiani) nella sfera politica
bisogna ragionare in maniera appropriata sulla specificità
dell’evoluzione del sistema politico in senso costituzionale nell’Europa
del XIX e XX secolo, e del problema che esso ha costituito per le
comunità ecclesiali da un lato e per il vertice gerarchico della Santa
Sede dall’altro. Senza voler esser provocatorio, affermo che non ha
senso porre il tema sotto l’etichetta del rapporto fra religione e
politica: da questo punto di vista il tema esiste sin dalle origini del
cristianesimo, ed ha avuto varie risposte a seconda dei diversi tempi
storici, anche quando i sistemi politici e culturali erano ben diversi.
Il fatto è che ciò di cui oggi ci si occupa è un aspetto peculiare, e
a mio parere ormai circoscritto e tramontato: la lotta per salvare
spazio e ruolo di una tradizione culturale sviluppatasi sotto l’egida di
una confessione religiosa all’interno di un sistema costituzionale – il
liberalismo occidentale con le sue evoluzioni e variazioni – che
all’origine e per un certo tempo si era opposto al riconoscimento di
appartenenze culturali diverse da quella “laica” dello Stato. Ciò aveva
portato a due fenomeni cui debbo accennare sinteticamente, perché
altrimenti non si coglie il nodo che alla fine è venuto al pettine.
Il primo è stato la lunga opposizione della Chiesa gerarchica al
liberalismo costituzionale, che essendo fondato sul sistema della
rappresentanza a base elettorale non riconosce altra autorità che quella
che deriva da tale percorso, e che fonda il government by discussion.
Per la Santa Sede accettare quel principio significava mettere in crisi
il principio della primazia gerarchica non contestabile, ormai
interpretata come una forma di monarchia sacralizzata. Solo quando si
capì – ma tutto sommato si dovette attendere il tornante della seconda
guerra mondiale – che si sarebbe potuto affermare che una cosa erano i
principi nel campo politico-profano, altra cosa quelli in materia di
governo della Chiesa, la faccenda si stemperò (ma vorrei ricordare che i
vescovi italiani ancora negli anni ’50 e primi ’60 del secolo scorso si
opposero alla cosiddetta apertura a sinistra sulla base del principio
che non potevano accettare che fossero dei laici a decidere cosa era
bene e cosa male in politica).
Il secondo fenomeno è la volontà di una ampia fetta di classe
dirigente cristiana in alcuni paesi (Italia, Francia, Germania, Belgio)
di non essere tagliata fuori dalla vita costituzionale dei rispettivi
Stati. Furono gli uomini di queste classi dirigenti (in cui erano da
annoverare sia laici che sacerdoti) a comprendere che il sistema basato
sull’elettorato di massa (sempre più esteso) apriva ampi spazi per lo
sfruttamento delle capacità aggregative del “mondo cattolico”, grazie a
quella “forma partito” che dagli anni 70 dell’Ottocento in poi diveniva
sempre più l’articolazione portante del governo dei sistemi
parlamentari. È chiaro che in questo contesto basato sul mantenimento di
identità subculturali l’inserzione dei cattolici in un sistema
giudicato dalle loro gerarchie “sbagliato” poteva avvenire solo sulla
base dell’affermazione che quel sistema poteva essere “convertito” ad
una dimensione accettabile dalla dottrina della Chiesa. Per dirla con
una battuta: democrazia non andava bene, a meno che non la si potesse
far diventare “cristiana”.
In realtà questa risorsa si sarebbe rivelata come pienamente
spendibile solo con la crisi della seconda guerra mondiale, che veniva
dopo la prima, e che sembrava far toccare con mano l’avverarsi della
profezia apocalittica delle gerarchie cattoliche sul naufragio della
civiltà moderna. Allora si sarebbero aperte per il Papa e i vescovi
occasioni di leadership sino a quel momento impensabili. Quando nel
famoso radiomessaggio del Natale 1942 Pio XII lanciò il motto “non
lamento, ma azione è il precetto dell’ora”, si intendeva proprio la
necessità di cogliere l’opportunità di costruire un sistema politico
alternativo al vecchio liberalismo.
Intendiamoci: non si trattava più di negare la centralità di un
sistema fondato su rappresentanza, sovranità popolare, sistema dei
diritti, e via elencando (fra l’altro negare quello avrebbe esposto al
rischio di dare ragione alla critica comunista). Si trattava di avanzare
la pretesa che “l’anima” del sistema politico che doveva uscire dalle
macerie della guerra fosse l’anima “cristiana”. È importante notare
questo aspetto, perché il cattolicesimo tese a presentarsi come
coincidente tout court col cristianesimo, accettando alcune
eccezioni di multiconfessionalità solo laddove questo sarebbe stato un
indebolimento della stessa presenza cattolica, come era il caso della
Germania Occidentale.
È questa la dinamica che ha portato i frutti notevoli della
“democrazia cristiana” nel costituzionalismo occidentale. Infatti i
“partiti cattolici” guadagnarono in molti paesi posizioni di leadership
nella ricostruzione grazie al combinarsi nel cattolicesimo della
presenza di classi dirigenti selezionate in vario modo (non
necessariamente eroico) dalla temperie dell’antifascismo e delle
resistenze con il bisogno di interpretazioni evolutive del sistema
costituzionale classico (interpretazioni che erano maggiormente alla
portata di quelle classi dirigenti che avevano, per vari percorsi,
condiviso il travaglio della cultura europea degli anni fra le due
guerre).
Qualche riflessione andrebbe spesa su due aspetti. Il primo è che in
parallelo alla crescita di capacità politica delle diverse classi
dirigenti “democratico-cristiane” si assistette ad un progressivo
tramonto della capacità di leadership delle strutture legate alla Santa
Sede (si pensi alla modesta prova che in questi decenni diede quello che
avrebbe dovuto essere un foyer intellettuale come La Civiltà Cattolica).
Il secondo è che a livello nazionale le vicende di quelle classi
dirigenti furono fortemente condizionate dagli specifici contesti di
riferimento. Se in Italia la Dc poté rimanere a lungo un partito cardine
della costruzione del consenso nazionale senza avere veri sfidanti alla
sua egemonia, in Germania la Cdu-Csu perse la sua insostituibilità già a
metà degli anni Sessanta per la capacità della Spd di attrarre
anch’essa movimenti di “rinascita morale” (se mi si consente questa
formula sbrigativa), mentre in Francia l’Mrp era in crisi già a metà
degli anni Cinquanta, perché quel paese disponeva di una ideologia
“nazionale” radicata di cui il movimento cattolico non aveva potuto
impossessarsi (De Gaulle, che era personalmente cattolico, si rifece
all’ideologia nazionale non a quella “cristiana”). Del resto, se si
pensa al caso della Gran Bretagna, si vede bene come in presenza di una
ideologia di coesione nazionale solidamente presente fuori dei
riferimenti confessionali non ci sia mai stato spazio per partiti
“cristiani”, nonostante vari leader, a cominciare da Gladstone, avessero
avuto posizioni di credenti impegnati.
Perché bisogna rifarsi a questa storia? Per la semplice ragione che
se non la si conosce non si capisce che oggi qualsiasi discorso di
“democrazia cristiana” è diventato impossibile. Il costituzionalismo
liberaldemocratico fa parte della struttura della politica comunemente
accettata, per quanto essa possa essere in crisi nel suo funzionamento.
Il pluralismo è ormai rafforzato dalle trasformazioni sociali intercorse
nell’ultimo ventennio, trasformazioni che hanno portato a nuove
mescolanze di popoli e religioni: sicché non c’è più bisogno di un
partito “dedicato” perché le varie componenti subculturali della società
possano difendere i loro spazi. Le vecchie sfide “totalitarie” al
sistema di valori “occidentale” (che riconosceva se stesso come una
forma laicizzata e razionalizzata della cultura cristiana) sono
scomparse. Certo ne stanno nascendo altre, ma sono di natura più
sfuggente, basate su esaltazioni dell’irrazionalità che sono più
difficili da contenere sul piano di una lotta di tipo
culturale-ideologico.
Ovviamente rimane in campo il problema della presenza nella sfera
politica dei credenti. Preferisco questo termine a quello generico di
“cristiani”, perché oggi mi pare assai debole la identificazione delle
comunità ecclesiali con una peculiare forma di inquadramento
subculturale valido indistintamente per tutti i loro membri (più o meno
stabili che siano). Per il credente, cioè per colui che consapevolmente
intende spendere la sua “chiamata” (specifica) nella sfera del politico,
c’è oggi un problema di impegno e di testimonianza, non un problema di
inquadramento in un partito o movimento predeterminato.
Quel che poteva dare sul piano politico il cristianesimo come sistema
culturale diffuso (e costituente la base del “comune sentire” anche
presso coloro che non erano credenti in senso proprio), l’ha già dato
nel ventennio ricostruttivo dopo il 1945. Non è fuori luogo dire che
esso ha quanto meno concorso in maniera determinante all’impianto
solidaristico e fondato sulla tutela delle opportunità di sviluppo delle
persone e delle comunità, impianto che è proprio del costituzionalismo
europeo della seconda metà del Novecento. Oggi quel ruolo non può più
essere esercitato perché non esiste più quel contesto sociale che
chiedeva le affermazioni sopra riportate come necessità di tutela del
proprio sviluppo futuro. Ormai si ritiene che quell’impianto abbia dato
origine a dei “diritti” nel senso privatistico del termine e questo ne
ha minato la forza “costituente”.
Certamente vi è ancora spazio per il messaggio religioso, ma quando
questo torni ad essere esercitato in senso proprio: le domande sul fine
ultimo di ciascuna vicenda umana, sulla possibilità di “redenzione”
della storia individuale e collettiva, sulla sfida al ridimensionamento
di se stessi rispetto alla responsabilità collettiva a cui ciascuno è
chiamato, sul rapporto fra sacrificio individuale e sua efficacia nel
contesto storico dato. Naturalmente sono domande che non si pone solo la
religione cristiana, anche se i cristiani pensano che la loro risposta
abbia una forza particolare perché particolarmente forgiata da un
rapporto col razionalismo greco-romano, all’origine del razionalismo
occidentale.
In un mondo che affronta una formidabile crisi di transizione come è
sotto gli occhi di tutti, per i cristiani c’è da evitare la trappola
della religione come consolazione a buon mercato o come creatrice di
tabù morali in grado di tenere sotto controllo le deviazioni di
onnipotenza che assillano l’uomo d’oggi ed anche i sistemi culturali in
cui è coinvolto. Si può ben capire che talora le chiese, specie una
particolarmente strutturata come è quella cattolico-romana, possano
subire la fascinazione delle sirene che offrono loro i ruoli del
“rassicuratore sociale”, oppure del suo opposto speculare, il “profeta a
buon mercato”.
Questo sarebbe comunque deleterio per il ruolo delle chiese e dei
credenti: ma se si soggiacesse all’illusione di trasformare tutto ciò in
una presenza politica organizzata, sarebbe ulteriormente distruttivo.
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