domenica 2 febbraio 2014

Miklós Jancsó, in memoria

Silvana Silvestri
Miklós Jancsó, piano sequenza sulla Storia
il manifesto, 1 febbraio 2014

Miklós Jancsó: a lui Wajda attri­buiva «lo sguardo di un dio», la capa­cità di tra­sfor­mare gli spet­ta­tori in divi­nità impla­ca­bili e spie­tate che alla giu­sta distanza assi­stono alle vicende della sto­ria, alle ese­cu­zioni. Due terzi di cielo, una terra piatta, e un uomo che si allon­tana all’orizzonte fino a diven­tare minu­scolo ma non abba­stanza per non essere col­pito da un colpo di fucile che vediamo pren­dere len­ta­mente la mira. Que­sta era la scena che per Wajda sin­te­tiz­zava l’inizio di un per­corso che avrebbe por­tato il regi­sta unghe­rese a par­lare a nome di tutto un popolo, il destino che li acco­muna. Mai più visti i suoi film, nell’occultamento scien­ti­fico delle cine­ma­to­gra­fie dell’est, eppure il regi­sta che si è spento venerdì all’età di 92 anni a Buda­pest ha fatto la sto­ria del cinema. Anche chi non cono­sce i ter­mini tec­nici ha sen­tito par­lare dei piani sequenza, quella tec­nica di ripresa che per­corre la scena nella sua lun­ghezza senza stac­chi, in un teo­rico pro­ce­dere del nuovo cinema, con­tra­rio al mon­tag­gio e nel suo caso, una vera e pro­pria intui­zione for­male in quelle scon­fi­nate pia­nure che così bene si pre­stano alle geo­me­tri­che dispo­si­zioni degli eser­citi, al rac­conto tri­di­men­sio­nale di una sto­ria tanto nasco­sta e lon­tana nel tempo. Eppure i gio­vani spet­ta­tori che affol­la­vano le sale alla fine degli anni Ses­santa per vedere I dispe­rati di San­dor, L’armata a cavallo, Silen­zio e grido, Venti lucenti, a cui pote­vano anche sfug­gire i risvolti pre­cisi degli schie­ra­menti con­trap­po­sti, ritro­va­vano, in paesi diversi, il loro stesso desi­de­rio di cam­bia­mento. Dif­fi­cile imma­gi­nare oggi un uguale tra­sporto. Si evo­cava l’Ungheria dichia­rata indi­pen­dente del 1867, la lotta dei par­ti­giani accanto ai bol­sce­vi­chi nel ’17, la scon­fitta della repub­blica dei con­si­gli. Le sue siste­ma­zioni geo­me­tri­che filo­so­fi­che che con l’uso delle due costanti, oppres­sori e domi­nanti, sono diven­tate le imma­gini delle grandi tra­sfor­ma­zioni cre­dute pos­si­bili in tutta Europa. Nei Dispe­rati di San­dor (’64) l’Ungheria del post qua­ran­totto, la cac­cia spie­tata dei ribelli di San­dor Rosza, da parte dei gover­na­tivi; L’armata a cavallo (’67) il mas­sa­cro dei sol­dati rossi e unghe­resi da parte dei bian­chi; Silen­zio e grido (’68) la repres­sione della repub­blica dei consigli.
Come spesso accade agli arti­sti, Sci­rocco d’invernoAgnus Dei, i suoi film sul fasci­smo e sui nazio­na­li­smi, lan­cia­vano un impre­ve­di­bile sguardo sul futuro. Anche se in Agnus Dei per tutti noi era impos­si­bile cogliere, ad esem­pio, le sfu­ma­ture iro­ni­che del canto hor­thy­sta into­nato nel finale dalla tromba, e ci si per­deva nei diversi par­ti­co­lari delle divise cer­cando di indi­vi­duare i fronti (più imme­diato il suo uso meta­fo­rico del nudo che met­teva in scena l’oppressione del potere, un’altra delle sue inven­zioni visive tra le più com­plesse). Si entrava nel grande cinema, nell’elaborazione arti­stica della sto­ria. Men­tre in que­gli anni il cinema polacco si con­cen­trava sui que­siti morali, e il cinema ceco era stato messo fuori legge, il cinema unghe­rese era una grande pale­stra di discus­sione sto­rica (erano «viva­mente» invi­tati a farlo dalle stesse auto­rità, ci dice­vano i cinea­sti, non senza humour), ma soprat­tutto di spe­ri­men­ta­zione costante a comin­ciare dal docu­men­ta­rio. E nel docu­men­ta­rio esor­di­sce Jancsó (ori­gi­na­rio della Tran­sil­va­nia come Bar­tók) dopo gli studi di etno­lo­gia e diritto, durante gli anni dell’alleanza dell’Ungheria con la Ger­ma­nia; il dram­ma­tico dopo­guerra, i col­legi popo­lari for­mati da gio­vani con l’obiettivo di creare coscienza di classe nei con­ta­dini. Anche Jancsó ne fece parte, men­tre stu­diava all’Istituto di arte dram­ma­tica e cinema. Ini­zia a fare i conti con lo sta­li­ni­smo («più che un errore, un cri­mine») quando sono sciolti, e nel periodo suc­ces­sivo che cul­mi­nerà nel ’56, con la rivolta unghe­rese repressa dai sovietici.
Jancsó si ispira ai grandi film di Wajda del pro­ble­ma­tico dopo­guerra, rea­lizza Ai mar­gini della città, dove gli ope­rai fanno i conti con il disa­stro lasciato dal con­flitto. Poi le ultime ore del nazi­smo in Unghe­ria nel ‘45 in Le cam­pane sono par­tite per Roma, Scio­gliere o legare dove ancora rie­la­bora le con­vin­zioni mili­tanti del pas­sato, anche arti­stico, con le influenze che pro­ve­ni­vano dall’occidente. É un lungo cam­mino crea­tivo che lo por­terà alla noto­rietà solo dopo i quarant’anni, e non sarà il solo regi­sta del cinema unghe­rese a var­care le soglie della distri­bu­zione e dei festi­val: Ist­ván Gaal, Marta Mesza­ros, Bacso, Sán­dor Sára, Ist­ván Szabó, e tutti gli altri, un gruppo assai apprez­zato da Lukács e dal pub­blico occi­den­tale per­ché davano rispo­ste pro­fonde su quel paese che costrin­geva a schierarsi.
La sua fama lo ha por­tato anche in Ita­lia, dalla col­la­bo­ra­zione con Gio­vanna Gagliardo nascono vari film, tra cui La Paci­fi­sta con Monica Vitti (rife­ri­mento diretto alla sua ammi­ra­zione per Anto­nioni) che lascia per­plessi quei mili­tanti, rivo­lu­zio­nari di cui si parla nel film, immersi nelle sue pia­nure come se fos­sero tutti pro­ta­go­ni­sti dei grandi cam­bia­menti sui cavalli lan­ciati al galoppo. Roma rivuole Cesare, il con­tra­stato Vizi pri­vati e pub­bli­che virtù, e per la tv ita­liana la sto­ria di Attila in La tec­nica e il rito.
Tor­nato in Unghe­ria ci fa avere uno dei suc­cessi dei cine­club Elet­tra amore mio sulle note dell’Alle­gro bar­baro di Bar­tòk. E il suo rap­porto con l’Italia torna, ma con distacco in Il cuore del tiranno con Ninetto Davoli da Boc­cac­cio, un «gioco da palazzo».
Non era così facile incon­trare i regi­sti nel loro ambiente, abbiamo voluto farlo nei primi anni ’80, quando ancora era dif­fi­cile entrare nei paesi comu­ni­sti: rispetto a que­ste scon­vol­genti opere che ave­vano rimesso in discus­sione lo spa­zio men­tale, e lasciato tracce decise (Ange­lo­pou­los), un po’ di appren­sione nell’incontrare il grande mae­stro c’era. Mai avremmo potuto imma­gi­nare tanta cor­diale e quasi gio­cosa acco­glienza, men­tre si pre­pa­rava a par­tire in pro­vin­cia con la sua troupe leg­gera per girare un ser­vi­zio tele­vi­sivo in cui i bam­bini pone­vano domande agli adulti. Ave­vamo sen­tito da parte sua affer­ma­zioni piut­to­sto pes­si­mi­ste sul cinema: «Con le nou­vel­les vagues — diceva — il cinema è tor­nato a par­lare per imma­gini. Ma il pub­blico oggi vuole il diver­ti­mento, è diven­tato mino­renne e i gio­vani sanno che i padri men­tono, cono­scono la repres­sione». Un pes­si­mi­smo che abbiamo visto cre­scere nel tempo, men­tre met­teva a punto uno stile fatto di sber­leffi, di cinico distacco: «Biso­gne­rebbe cam­biare lavoro oppure arri­vare alla terza guerra mon­diale. E forse arriva». Cosa ci diceva dell’Italia? «Ho avuto molti amici, rap­porti con i movi­menti cosid­detti emar­gi­nati, i gio­vani e le donne. Mi con­si­dero un allievo di Anto­nioni, il mio stile è un’invenzione che deriva da lui. Non è qual­cosa di cine­ma­to­gra­fico, è un’atmosfera dei con­tra­sti della cosid­detta libertà. Uno deve sce­gliere da che parte stare, la scelta non è solo di tipo artistico».

giovedì 30 gennaio 2014

Luciano Gallino sulla Fiat

Luciano Gallino
Una lunga partita
la Repubblica, 30 gennaio 2014

LA NUOVA Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita ingran parte del mondo.
Devono veramente amare molto le grandi scacchiere e le partite complicate Sergio Marchionne e John Elkann, per avere aperto quasi contemporaneamente tanti fronti di gioco, ed essere riusciti finora a condurre la partita piuttosto che farsela imporre dall’avversario. Essi sanno bene che dall’altra parte vi sono molti altri attori a progettare ed eseguire le prossime mosse, e alcuni di essi, oltre ad essere abili, non hanno accolto troppo bene l’acquisizione di Chrysler. In Usa, molti investitori e analisti hanno patito la mossa del cavallo consistente nell’acquisire la Chrysler in parte con i soldi del governo americano, e in maggior parte con i soldi della Chrysler e dei fondi dei suoi sindacati. Ma più di questa operazione, che ha costituito senza dubbio un successo strategico da parte del Lingotto sul piano finanziario, essi hanno scarsamente gradito che il rilancio della società americana sia avvenuto soprattutto mediante il rilancio di modelli stagionati e non proprio ecologicamente corretti come la Jeep Grand Cherokee, piuttosto che investire gli utili in nuovi modelli idonei a rinfrescare gli allori di Chrysler. Per tacere dei loro giudizi sulla difficile situazione dell’auto Fiat nel nostro paese, che ha portato molti a parlare di salvataggio del Lingotto da parte della casa di Auburn Hills. Non ci siamo solo noi a chiederci quanti nuovi posti di lavoro si creeranno in Italia grazie all’operazione Chrysler; ci sono anche tanti americani che si chiedono quanti posti saranno creati nel loro paese grazie all’operazioneFiat. Dall’altra parte della scacchiera ci sono ovviamente anche le agenzie di rating. Sono attori che non giocano in proprio, ma sono consiglieri assai ascoltati dagli investitori, in specie fondi di investimento e fondi pensione; proprietari, va ricordato, di metà dell’economia mondiale. Li ha resi potenti e influenti la finanziarizzazione delle imprese industriali, a partire proprio dal settore auto. Quando qualcuno, anni fa, definì le corporation del settore «istituti finanziari che producono anche auto», aveva sott’occhio la situazione della General Motors, la cui divisione finanziaria che contava forse trentamila persone produceva il 40 percento degli utili della società, che aveva allora 300.000 dipendenti.
Da allora, il peso della finanza sulle corporation industriali è ancora cresciuto, donde segue che produrre buone automobili in giro per il mondo non basta per assicurare un successo duraturo al costruttore. Il fatto che Moody’s abbia messo sotto osservazione Fiat per una possibile riduzione del rating, che già non è alto (Ba3), a causa della sua situazione finanziaria, può essere soltanto una mossa intermedia in una partita particolarmente complessa. Ma Marchionne ed Elkann sono in due, mentre dall’altra gli attori che si assiepano attorno alla scacchiera suggerendosi a vicenda le mosse sono dozzine.
Manca, ai lati della scacchiera, il governo italiano, che non solo non ha la minima idea o intenzione di entrare in partita, ma non si è nemmeno degnato di rivolgere alla ferrata coppia del Lingotto la madre di tutte le domande: mentre auguriamo al lieto evento le migliori fortune, in concreto, cifra su cifra, documento su documento, qui e ora e non nel decennio prossimo, che cosa ne viene al nostro paese, ai lavoratori italiani, al pubblico bilancio, dalla nascita della Fiat Chrysler Automobiles?

mercoledì 29 gennaio 2014

Pete Seeger, in memoria

Gino Castaldo
Scompare Pete Seeger “padre” di Dylan e Springsteen
È morto a 94 anni. Tra i suoi successi “If I had a hammer” e la rielaborazione di “We shall overcome”

la Repubblica, 29 gennaio 2014

Addio a Pete Seeger, vecchio guerriero del folk, morto nel sonno a 94 anni nell’ospedale di New York dove era ricoverato da alcuni giorni. Il buon caro vecchio Pete era una figura molto prossima all’idea che potremmo farci di un santo laico. O almeno questo è quello che emanava: purezza, integrità, dedizione, empatia con tutti gli esseri viventi che soffrono. Era un uomo dolce ma determinato, amabile ma feroce nella sua convinzione estrema, uno di quegli uomini che non riescono a stare in pace sapendo che da qualche parte qualcuno sta male e con questo principio aveva iniziato a far musica, lasciando studi e agiatezza della colta borghesia del New England in cui era nato per schierarsi a fianco dei diseredati. Era il suo modo di cercare giustizia in un mondo che di giustizia ne offriva poca, lui stesso ripetutamente vittima del furore maccartista, processato, condannato, boicottato in ogni modo per le sue simpatie di sinistra. Cosa che non gli ha impedito di essere una delle più influenti e carismatiche figure del Novecento americano.
Il suo verbo era il folk, la musica del popolo, e fu spinto a cantarlo dal pioniere della ricerca sul campo Alan Lomax, a fianco di Leadbelly, Woody Guthrie, Burl Ives. Con la sua voce gentile e persuasiva, è stato probabilmente il massimo divulgatore di cultura popolare e non solo di quella americana. Era già attivo negli anni Quaranta, ma arrivò al successo quando creò il gruppo dei Weavers, con i quali raggiunse un clamoroso successo di classifica nel 1950 con Goodnight Irene. Ma, tanto per capire che tipo era, i Weavers li lasciò quando gli altri membri accettarono di incidere un jingle pubblictario per una marca di sigarette. Divulgatore ma anche autore o coautore di altri pezzi celebri come Turn turn turn, Where have all the flowers gone, If I had a hammer (conosciuto in Italia come Datemi un martello, anche se la versione di Rita Pavone l’aveva trasformato in un pezzo frivolo, privo del senso originale). Fu anche lui, sempre grazie a Lomax e a una visione internazionalista del folklore, a scoprire quella che sarebbe diventata una delle più famose canzoni di tutti i tempi, ovvero The lion sleeps tonight. Era un canto zulu, di Solomon Linda (che morì povero e ignaro del successo planetario che la sua composizione aveva avuto), e Pete Seeger la ripropose come Wimoweh, anche se la sua versione, grazie alle purghe maccartiste, non ebbe alcun riscontro, come accade invece ai Tokens che col titolo di The lion sleeps tonight ne fecero un singolo vendutissimo.
Ma il momento di massimo fulgore toccò a Seeger quando la sua musica incontrò il movimento dei diritti civili nei primi anni Sessanta. La sua versione di We shall overcome (uno spiritual tradizionale, di cui si vantava di aver cambiato la frase We will overcome nella più cantabile We shall overcome), diventò l’inno della marcia su Washington di Martin Luther King nel 1963. La fede nella sua missione non l’aveva mai persa e quando qualche anno fa l’andammo trovare nel suo eremo tra i boschi di Beacon, a nord di New York, ci aveva raccontato che quando qualcuno gli chiedeva se una canzone era buona o no, lui continuava a ripetere: «Buona per cosa?». Era il periodo in cui la sua figura era tornata al centro dell’attenzione del mondo della musica grazie all’omaggio di Bruce Springsteen e le sue “Seeger Sessions”. Ma lui rimase schivo. «Springsteen?» diceva, «un brav’uomo». E nulla di più. Era insieme alla moglie Toshi, dalla quale dal 1944 non si era mai separato, e che è scomparsa poco prima di lui, nel luglio dello scorso anno.

martedì 28 gennaio 2014

Come si arrivò alla guerra nell'estate del 1914

Emilio Gentile
La Grande Guerra e i suoi artefici
Il Sole 24 ore, 22 dicembre 2013

Nella conclusione di un grosso libro, dove racconta come l'Europa giunse alla guerra nel 1914, lo storico inglese Christopher Clark scrive: «I protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell'orrore che stavano per portare nel mondo». Da questa affermazione, deriva il titolo del libro, I sonnambuli, senza apparentemente riferimento alla trilogia romanzesca I Sonnambuli dello scrittore austriaco Herman Broch, pubblicata fra il 1931 e il 1932. In tre romanzi, Broch evocava la tragedia della modernità, come fu vissuta in Germania fra il 1888 e il 1918, quando l'idealismo di un'epoca animata dalla romantica aspirazione alla totalità di un mondo ordinato da valori perenni, fu alla fine travolto dall'esplosione della Grande Guerra, che lasciò l'Europa nel caos di una realtà frantumata, in balia di un realismo cinico e brutale. I sonnambuli, per Broch, erano coloro che si illudevano di controllare una realtà che si stava disgregando, mentre camminavano verso l'«assurdità prepotente e inconcepibile» di una orrenda guerra. Anche senza un riferimento esplicito, sembrerebbe che una qualche influenza la trilogia di Broch potrebbe averla avuta sul modo in cui Clark ha cercato di comprendere l'«assurdità prepotente e inconcepibile» delle origini della Grande Guerra.
Egli infatti precisa che il suo libro, più «che del perché si preoccupa di capire come si arrivò alla guerra», studiando «da vicino le sequenze di interazioni che produssero certe conseguenze». Deriva da tale metodo, al quale Clark attribuisce «il merito di inserire nella vicenda un elemento di contingenza», la scelta di porre al centro del racconto gli uomini e le loro azioni, piuttosto che cercare le cause remote degli eventi in categorie astratte, come imperialismo, nazionalismo, alta finanza, dinamiche di mobilitazione, nei confronti delle quali «gli attori politici diventano semplici esecutori di forze da tempo presenti e al di fuori del loro controllo».
Avendo da tempo adottato, per una via del tutto indipendente, un analogo metodo di ricerca storica, chi scrive ne apprezza particolarmente l'efficacia per comprendere le vicende che nel 1914 portarono l'Europa alla guerra. La scelta di privilegiare il "come" sul "perché" costituisce forse la peculiarità dell'opera di Clark nell'ambito della storiografia sulle origini della Grande Guerra. Durante gli ultimi decenni, la storiografia ha accantonato la «questione della colpa», che fin dall'inizio del conflitto aveva assillato prima gli stessi protagonisti e successivamente, per oltre mezzo secolo, gli storici, condizionati dall'articolo 231 del Trattato di Versailles, che attribuiva alla Germania la responsabilità di aver provocato il primo conflitto mondiale.
Della questione della colpa non v'è traccia nel libro di Clark, anche se nella sua minuziosa ricostruzione del comportamento e delle decisioni dei protagonisti di ogni singolo Stato coinvolto nelle origini della Grande Guerra, egli non si astiene dall'individuare le responsabilità personali. Nello stesso tempo, tuttavia, cerca di rintracciare i motivi delle loro decisioni con senso propriamente storico, senza inflessioni moralistiche o giudiziarie, osservando l'agire di ogni protagonista nel contesto della storia del suo Paese, della sua esperienza politica e del modo in cui percepiva la realtà nella quale operava. Concentrando l'attenzione sui singoli protagonisti dell'evento, che egli stesso definisce «il più complesso della storia contemporanea, e forse di qualsiasi epoca», Clark fa venire in mente lo storico vagheggiato da Benedetto Croce, che non ricerca il moto e il dramma della storia «unicamente negli urti fragorosi e nei grossi fatti appariscenti», ma «anche davanti a spettacoli di guerre e rivoluzioni, cerca sempre il vero moto e il vero dramma negli intelletti e nei cuori».
Clark esprime con chiarezza la sua valutazione complessiva sul come l'Europa giunse alla guerra nel 1914: «Lo scoppio della guerra fu il momento culminante di concatenazioni di decisioni assunte da attori politici che perseguivano consapevolmente degli obiettivi ed erano capaci di riflettere su quanto stavano facendo, e che individuarono una serie di azioni formulando le valutazioni più adeguate in base alle migliori informazioni di cui disponevano. Il nazionalismo, gli armamenti, le alleanze e la finanza furono tutti elementi che entrarono a far parte della storia, ma acquistano valenza esplicativa solo quando si possa mostrare la loro effettiva influenza sulle decisioni che, congiuntamente, fecero scoppiare la guerra». Gli eventi causali che determinarono lo scoppio della guerra furono diversi, ma Clark ammonisce «a non giudicare scontato l'esito finale», tenendo presente «che le persone, gli eventi e le forze descritte in questo libro portavano dentro di sé i semi di altri, forse meno terribili, futuri». Nel complesso intreccio degli eventi che portarono alla Grande Guerra, i responsabili delle principali decisioni, secondo Clark, «camminarono verso il pericolo con passi guardinghi e calcolati». Ma se così fecero, allora perché mai definirli «sonnambuli»?

domenica 26 gennaio 2014

Amanti e regine nella storia della monarchia francese

La seduzione, l'intelligenza, il carattere


«Non si è mai sazi di queste mitiche figure femminili che montagne di biografie e romanzi hanno di volta in volta esaltato o denigrato, icone avventurose o romantiche, melodrammatiche o futili, raggelate dal tempo. Scorrono adesso tutte insieme, da Caterina de’ Medici a Maria Antonietta, dai primi decenni del XVI secolo alla fine del XVIII, gemme della storia e delle storie delle donne, con le loro fortune e sfortune, col potere della loro bellezza e della loro sottomissione, il fervore della loro ambizione o del loro ardore, lo slancio della loro intelligenza o della loro astuzia, nell’affascinante nuovo libro di Benedetta Craveri; la scrittrice che si muove nelle corti e nei castelli dei Valois e dei Borbone, dei Guisa o dei Lorena con la grazia somma della cultura, della curiosità, del pensiero, della scrittura magnifica».

NATALIA ASPESI

Lorenzo Tinti
A proposito di Benedetta Craveri, Amanti e regine. Il potere delle donne, Adelphi, Milano 2005
Bibliomanie.it,  n.8 gennaio/marzo 2007



   Un vecchio adagio sostiene che una donna, per essere considerata la metà di un uomo, deve valerne il doppio, soggiungendo tuttavia che, per fortuna, la cosa è estremamente facile.
   Dopo La civiltà della conversazione Benedetta Craveri, con Amanti e regine, scrive le proprie Carte segrete sulla politica francese di Antico Regime, ma traguardata e in gran parte diretta dietro stecche di balena e bustini asfissianti. Nondimeno l’autrice non indulge mai alla curiosità morbosa del gossip storiografico, bensì innalza un monumento alla dignità di un genere – quello femminile – che attraverso la seduzione e l’intelligenza ha saputo insinuarsi negli ingranaggi di una storia ufficialmente delegata alla forza e all’arbitrio degli uomini.
   Se figure quali Pernette du Guillet, Louise Labé o Madeleine Des Roches dimostrarono in pieno XVI secolo che il genio e la creatività non erano ad esclusivo appannaggio dei maschi, non bisogna dimenticarsi che in quello stesso periodo lo status giuridico e religioso delle donne aveva subito dal cattolicesimo riformato e dall’etica misogina del tempo un attacco durissimo, vedendo relegare le rappresentanti del gentil sesso ai margini della società civile. Pure, le favorite di corte non meno delle legittime consorti reali – come a dire la Gran Siniscalca Diane de Poiters o la duchessa d’Étampes non meno di Caterina de’ Medici o della suocera Eleonora d’Austria – riuscirono con estro e strategia a ritagliarsi uno spazio rilevante nei giochi di potere, spazio che giocoforza passava per il cuore (e non di rado per il letto) di re, delfini e principi.
   Non ci fu nulla di facile o di romanzesco nella condizione di «amanti e regine», anzi essa rappresentò un viatico spesso doloroso e sofferto, per quanto esclusivo, concesso alle ambizioni di caratteri ricchi di sagacia ma sfortunatamente compromessi dall’appartenenza all’altra metà del cielo. Come scriveva ancora nel 1626 Marie de Gournay: «Fortunato sei tu, Lettore, se non appartieni a quel sesso che, privato della libertà, è interdetto da tutti i beni, come pure da pressoché tutte le virtù. Né potrebbe essere altrimenti, visto che gli è negato l’accesso alle cariche, agli impieghi e alle funzioni pubbliche, ovvero al potere, perché è nell’esercizio moderato di quest’ultimo che si formano in massima parte le virtù. Un sesso a cui, come sola felicità, come uniche e sovrane virtù, si lasciano l’ignoranza, la servitù e la facoltà di passare per stupido, se questo gioco gli piace». 
   La storia narrata dalla Craveri è dunque la storia di un «potere sui generis, che sa trasformare la debolezza in forza, e fare della condizione di inferiorità una carta vincente» (p. 20), nonché una vivida testimonianza dell’inventiva e del coraggio delle dame di corte francesi tra il Cinquecento e il Settecento. L’eroine di questa storia si chiamano Caterina de’ Medici, Diane de Poiters, Gabrielle d’Estrées, Maria de’ Medici, Maria Teresa d’Austria, Maria Antonietta e le loro biografie esemplari s’intrecciano, lungo un arco di due secoli, con i destini “alti” della monarchia d’oltralpe, restituendoci il negativo di un’immagine che credevamo di conoscere fin troppo e di cui al contrario ignoravamo quel sostrato umano fatto di sofferenze dissimulate nel decoro e di passioni profonde come abissi. L’impareggiabile capacità affabulatoria di Benedetta Craveri sembra tessere la trama di un romanzo e invece, come dimostra il ricco apparato bibliografico in calce al testo, con piglio da storiografo dipana davanti ai nostri occhi l’avvicendamento degli eventi più o meno noti che riguardarono la corona, sempre analizzandoli dal punto di vista straniante delle donne di quell’ambiente. E al lettore resta intensa la sensazione che costoro non possano che aver patito e pensato i patimenti e i pensieri che l’autrice attribuisce loro. 

venerdì 24 gennaio 2014

Riccardo Barenghi su Vendola

Riccardo Barenghi
La strada molto stretta di Vendola
La Stampa, 24 gennaio 2014

Il partito di Vendola, nato 5 anni fa, oggi celebra il suo secondo congresso ma non vede un futuro roseo. Un partito reduce dal risultato delle elezioni politiche, un misero 3,2%, e dalla sconfitta della coalizione con il Pd di Bersani.
Una coalizione di centro-sinistra che non è riuscita a formare quel governo di cambiamento sul quale aveva puntato tutte le sue carte il leader di Sel. Inoltre, la nascita delle larghe intese assieme all’avversario storico Berlusconi, l’uscita di scena dello stesso Bersani, l’arrivo di Renzi che non è certamente in sintonia con le istanze della sinistra radicale, la legge elettorale che prevede una soglia troppo alta per sperare di entrare in Parlamento... Un quadro nefasto.
Sel ha poche strade davanti a sé per tentare di rimanere in vita. La prima, quella più lineare, sarà probabilmente enunciata oggi da Vendola. Si tratta di combattere in Parlamento affinché la soglia della nuova legge elettorale venga abbassata al 4 per cento per chi si presenta in coalizione (oggi è prevista al 5, tetto proibitivo per Sel stimata tra il 2 e il 3 per cento). Solo così si potrebbe tentare di nuovo l’avventura di un’alleanza con il Pd. Ma non è affatto detto che le pressioni di Sel riescano a modificare l’impianto blindato da Renzi e Berlusconi. Così come non è detto che, se anche ci riuscissero, sarebbe facile ottenere il 4 per cento dei voti. Il segretario del Pd domani sarà al congresso, si spera in una sua parola di rassicurazione...
Le altre strade ci sono ma non si dicono, almeno ufficialmente. Una è l’entrata nel Pd per creare una corrente di sinistra composta anche dagli attuali oppositori di Renzi: Cuperlo, Fassina (e Bersani e D’Alema). Strada più che impervia soprattutto perché significherebbe sancire definitivamente il fallimento politico di un progetto che pure qualche speranza aveva suscitato fino a qualche anno fa, quando i sondaggi attribuivano a Sel il 7-8 per cento dei consensi. Perché si sono perduti quei consensi è una domanda alla quale sarebbe riduttivo rispondere dando tutte le colpe a Bersani (che pure non ne è esente).
Oppure (esclusa l’ipotesi che la sinistra del Pd esca dal partito per entrare in Sel), ci sarebbe sempre il richiamo della foresta. Una scelta movimentista, magari benedetta da Fausto Bertinotti, Barbara Spinelli e Marco  Revelli, che potrebbe rimettere insieme i pezzi sparsi della sinistra radicale italiana: Sel, Rifondazione, i Verdi, Ingroia, addirittura Diliberto. Una prospettiva che Vendola vede come fumo negli occhi ma se in gioco ci fosse la sopravvivenza...
In ogni caso il primo banco di prova per Sel saranno le europee di maggio, dove potrà misurare la sua forza reale. E qui c’è un’altra battaglia preventiva da fare, cercare di abbassare quella soglia del 4 per cento che rende improbabile un arrivo a Bruxelles (non a caso il segretario di Rifondazione Ferrero sta pensando di candidarsi in Grecia). Il problema però è che ormai l’immagine politica di Sel risulta appannata, anche grazie a quella telefonata di Vendola con Girolamo Archinà, in cui il governatore pugliese si complimentava per il «balzo felino» con cui il dirigente dell’Ilva aveva strappato il microfono a un giornalista. A molti elettori di Sel quel balzo non è piaciuto affatto.

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Daniela Preziosi 
Sel, la "strada giusta" riparte in salita
il manifesto, 24 gennaio 2014


Nelle odis­see poli­ti­che non c’è mai dav­vero un’Itaca, ma il bol­let­tino dei navi­ganti dice a Nichi Ven­dola tem­pe­sta. Tem­pe­sta forte, tale da richie­dere la ricerca imme­diata di un approdo, se non un porto almeno uno sco­glio. Oggi al Pala­con­gressi di Ric­cione si apre il secondo con­gresso di Sini­stra eco­lo­gia e libertà, si inti­tola «la strada giu­sta fra crisi sociale, della poli­tica e un campo largo, a sini­stra, da rico­struire». 900 dele­gati in rap­pre­sen­tanza di 34.300 iscritti non post-ideologici ma certo «laici di sini­stra», rac­conta una ricerca di Paola Bor­dan­dini (La spada di Ven­dola, Don­zelli) descri­ven­doli come risorsa irri­nun­cia­bile per un’alleanza post­ber­lu­sco­niana, «senza un nemico da combattere».
Ma il post­ber­lu­sco­ni­smo è ini­ziato? Il tempo non ne fa una dritta a Sel e appa­rec­chia un menù al cia­nuro per le assise che deci­de­ranno la sorte della sini­stra che «tiene aperta la par­tita» del cen­tro­si­ni­stra, anima gover­ni­sta (fuori dal governo) di una sini­stra ita­liana che zop­pica con tutti i piedi che ha. Il Pd, l’alleato d’elezione, governa con la destra; il neo­se­gre­ta­rio Renzi ha con­cor­dato con Ber­lu­sconi una legge elet­to­rale che «asfalta» i par­ti­tini (sbar­ra­mento al 5 per quelli in alleanza, all’8 chi sta fuori); e a chi obietta ha rispo­sto «si arran­gino», avver­ti­mento a futura memo­ria. Eppure, per i son­daggi, anche quel pes­si­mi­stico 2,3 per cento a cui viene oggi quo­tata Sel (dal 3,2 del 2013), sarebbe deter­mi­nante per la vit­to­ria. E però il pac­chetto Renzi-Berlusconi con gli alleati utili non divide nean­che il pre­mio di mag­gio­ranza (oggi, con il por­cel­lum, Sel ha 37 depu­tati e 7 senatori).
Ma saranno le euro­pee di mag­gio a pre­sen­tare il primo conto. Lì lo sbar­ra­mento è al 4. I ven­do­liani si divi­dono fra gli sbi­lan­ciati verso il Pse (Sel ha chie­sto di ade­rire, nes­suna rispo­sta ancora è arri­vata) pro­pensi ad appog­giare, insieme al Pd, il social­de­mo­cra­tico tede­sco Mar­tin Schulz (Gen­naro Migliore è il capo­fila); e i tanti che guar­dano al gio­vane Ale­xis Tsi­pras, lea­der della greca Syriza, lan­ciato in Ita­lia da un appello di intel­let­tuali (sul mani­fe­sto del 17 gen­naio). Su un piatto della bilan­cia c’è il social­de­mo­cra­tico, anima cri­tica della Spd lar­ghin­te­si­sta, che potrebbe incas­sare la non bel­li­ge­ranza di Angela Mer­kel. Sull’altro c’è Tsi­pras, dal pro­gramma anti­ri­go­ri­sta, lo stesso di Sel; ma con una lista che, per ora, non acco­glie la «terra di mezzo» di conio ven­do­liano e indica come approdo il Gue, il gruppo della Sini­stra euro­pea. Una cena fra Ven­dola e Bar­bara Spi­nelli, ispi­ra­trice della lista, non ha pro­dotto avvi­ci­na­menti. Sel è pronta a fare una sua lista, ma il rischio di non acciuf­fare il 4 per cento è reale. Ven­dola, pure pro­vato dalla vicenda Ilva, ha pro­messo che deci­derà insieme ai dele­gati se cor­rere per Bru­xel­les: la sua pre­senza fa la dif­fe­renza. D’altro canto per le sini­stre ita­liane, divise ormai per tra­di­zione e defi­ni­zione, il rischio replica del disa­stro 2013 è die­tro l’angolo.
Intanto dal Pd parte il pres­sing per l’ingresso di Sel che irro­bu­sti­rebbe il par­tito nuovo di Renzi. Ha i toni spre­giu­di­cati del segre­ta­rio che prima del patto con Ber­lu­sconi aveva assi­cu­rato la sua pre­senza domani a Ric­cione. Verrà dav­vero, ora che indossa i panni dell’angelo asfal­ta­tore? «Deci­desse lui», taglia corto Cic­cio Fer­rara, coor­di­na­tore di Sel, annun­ciando il no all’Italicum. «Gli sbar­ra­menti per i coa­liz­zati e non, sono alti e odiosi. Ma il punto è: Renzi per­met­terà di nuovo a Ber­lu­sconi di por­tare in par­la­mento i suoi mag­gior­domi», ragiona Mas­si­mi­liano Sme­ri­glio, vice di Nicola Zin­ga­retti alla regione Lazio, in altri fran­genti gra­ni­tico coalizionista.
Ma l’offerta di abban­do­narsi all’abbraccio del par­ti­tone ha anche la voce ami­che­vole di Gof­fredo Bet­tini, teo­rico del «campo largo» — pre­sente al con­gresso — che oggi però vira verso il bipar­ti­ti­smo: «Ci vuole uno schema inno­va­tivo: Renzi can­di­dato pre­mier con un campo uni­ta­rio dei demo­cra­tici, plu­rale, con­ten­di­bile in perenne eser­ci­zio di pro­du­zione di idee, di deci­sioni, di lotta». E quella dell’amico di una vita di Ven­dola, Nicola Latorre, neo­ren­ziano di antica osser­vanza dale­miana: «Nichi porti ai suoi que­sto oriz­zonte stra­te­gico, a pre­scin­dere dalla legge elet­to­rale, come approdo poli­tico e natu­rale. Senza biso­gno di gesti mor­ti­fi­canti». «È que­sto il momento di met­tere in campo un pro­getto poli­tico», replica Fer­rara. «Nichi stu­pirà», assi­cura Sme­ri­glio. Intanto da oggi ini­zia la bat­ta­glia degli emen­da­menti al docu­mento unico, dopo i con­gressi ter­ri­to­riali com­bat­tuti a colpi di accuse di tes­se­ra­menti gon­fiati, nella migliore tra­di­zione di fami­glia. A andrà in scena anche il duello del con­gresso della Cgil, fra la segre­ta­ria Susanna Camusso, che par­lerà oggi, e quello della Fiom Mau­ri­zio Landini.
La spe­ranza è nell’opera, diceva Vin­cenzo Car­da­relli. Quel Car­da­relli citato da Fau­sto Ber­ti­notti il giorno che annun­ciò la fine del secondo governo Prodi (2007, lo definì «il più grande poeta morente»). Ma da ogni lato la si guardi oggi «l’opera», sem­bra avere una porta che si chiude.
È sem­pre l’ora del bilan­cio per una sini­stra oggi fran­tu­ma­glia, alle prese con l’ennesima crisi di rela­zione con i nuovi movi­menti dell’età della crisi. L’unità ha per­sino smesso di essere uno slo­gan, per­ché una meta troppo lon­tana rischia di essere una fata­mor­gana, o un trucco. Ber­ti­notti, padre poli­tico di Ven­dola, dopo la rot­tura con Armando Cos­sutta (’98), dopo essere stato pre­si­dente della camera dell’Unione (2006), oggi è distante mille miglia dal com­pa­gno di un tempo. E invece l’anziano pre­si­dente che fu fon­da­tore del Prc e poi del Pdci (che poi ha lasciato), e che ormai vive riti­rato, alle ultime poli­ti­che ha con­fi­dato a un amico la sua bene­vo­lenza verso Ven­dola, avver­sa­rio interno di un tempo. «Nichi è capace, gene­ro­sis­simo. Imma­gino la sua fatica. Ma intorno ha il deserto», riflette ama­ra­mente Ersi­lia Sal­vato, per com­ple­tare il qua­dro dei rifon­da­tori della prima ora, l’ultima del Pci. Dome­nica Ven­dola (e com­pa­gni e com­pa­gne) dovranno deci­dere la loro «strada giu­sta». Qual­siasi sarà, par­tirà in salita.


giovedì 23 gennaio 2014

L'inarrestabile chiacchiera renziana

Da “Fassina chi?” a Goldrake la politica scopre il “renzese”
Dopo la rottamazione, il lessico spiazzante del sindaco

la  Repubblica, 23 gennaio 2014

INNANZITUTTO l’inglese, o quello che a spizzichi e bocconi assomiglia all’inglese: «Cool», «smart», «finish», «game over», «job act». Du yu spik «renzese»?
«Venendo qua - questo si è potuto ascoltare dal leader del Pd la scorsa settimana - ho incontrato una signora che mi ha preso in giro: “Oh Renzi, falla finita con questi nomi strambi!”. Questa dunque la conclusione del breve racconto: la signora «ha ragione»; insieme a una promessa: «Basta anglicismi».
Quest’ultima parola, «anglicismi», suona in verità piuttosto colta, perciò colpisce. Di norma il lessico del personaggio è piano, molto colloquiale, anzi per certi versi un modello di quotidianità che qualche volta sconfina nella bullaggine: «Fassina chi?», «li asfaltiamo», «lo rivolto come un calzino». Già più elaborate formule di offesa e difesa quali: «Deve farsi vedere da uno bravo», inteso un medico; come pure, ma su twitter, a proposito di un utente sconsiderato: «Spero che chi lo ha fatto, dopo aver parlato, abbia posato il fiasco», nel senso dell’ubriachezza molesta.
Questa lingua tutto sommato lineare e non di rado contundente - si pensi alla contagiosa energia della «rottamazione» ha tutta l’aria di essere una delle ragioni del successo di Renzi. Ecco comunque il giudizio complessivo che su di lui ha espresso qualche giorno fa un grande esperto del ramo comunicazione, Silvio Berlusconi: «È moderno, non è un politico tradizionale, è brillante, telegenico, ha la battuta pronta, usa un linguaggio comprensibile dalla gente, e insomma è un avversario temibile da non sottovalutare».
Ciò detto, tutto sommato il «renzese» rimane ancora un oggetto da approfondire. Di sicuro, com’è ovvio, vi si colgono tracce di fiorentinismo come quando, per la verità senza rendersi conto che il microfono era aperto, ha definito il povero Bersani «spompo». Per poi correggersi: «Dài, m’è scappata un’espressione che era anche d’affetto».
Ora, è inutile soffermarsi su quanto sia stata decisiva Firenze per l’italiano. Ma come tutte le cose importanti, ganze o meno che siano, la fiera e consapevole impostazione municipale gioca a doppio taglio. Così per taluni riecheggia, più che Dante, la commedia di Pieraccioni e Panariello, mentre per altri, come Antonio Martino, assegna a Renzi un sovrappiù di eloquenza «che fa sembrare oro colato qualsiasi sciocchezza».
Sempre proseguendo un’indagine necessariamente empirica, un’ulteriore caratteristica che colpisce è quella dei giochi di parole, tipo «serve un partito pensante, non pesante», oppure «il Pd non esiste, ma resiste», o anche «Berlusconi non è da imprigionare, ma da pensionare», «dico Andreatta e non Andreotti» e così via.
Uno dei pochi studiosi che si è avvicinato alla materia, il professor Giuseppe Antonelli, dell’Università di Roma, ha notato slogan «visivi», parecchie contrapposizioni ad effetto e riferimenti pop «spinti molto a fondo». Abbastanza persuasiva è la valutazione di fondo, secondo cui Renzi condivide e fa sua «l’intuizione secondo cui è la cultura televisiva a fondare la nostra identità nazionale». E in qualche modo, si può aggiungere, anche quella generazionale.
Ecco perciò Goldrake, Sanremo, Miss Italia, il mago Zurlì, il mago Otelma e l’innominato Califano che conclude «tutto il resto è noia», ognuno dei quali chiamati a raccontare significati e rafforzare concetti. Da questo punto di vista gli esempi sono abbondanti.
La battuta in «renzese», d’altra parte, è prodigiosamente rapida, forse anche troppo. Ma a detta di Antonelli ce ne sono di «già impacchettate» che secondo le logiche del marketing tendono a inglobare diversi pubblici. Per cui il leader del Pd punta sui giovani non solo con una comunicazione calda «dài, ragazzi!» - ma richiamando anche, per dire, l’allenatore Pep Guardiola, mentre il richiamo a Bartali è dedicato alle zie e ai nonni.
Lo sport, o meglio il calcio, è infine una chiave fondamentale, tanto che nell’inarrestabile chiacchiera renziana rasenta quasi l’ossessione. Il campo della politica si risolve identificandosi pienamente nel campo da gioco in una continua e rutilante evocazione di maglie, panchine, calci di rigore, «io sono trapattoniano» per dire che gioca in difesa, «se mi avete dato la fascia da capitano - questo nel discorso della vittoria alle primarie - non farò passare giorno senza lottare su ogni pallone». L’altro giorno, dopo l’incontro con Berlusconi, ha superato se stesso chiedendo ai suoi: «Vi è piaciuto il cucchiaio?». Che sarebbe un gol segnato con un pallonetto - là dove il virtuosismo sfiora l’evanescenza, ma qualche punto porta a casa.