domenica 2 febbraio 2014

Miklós Jancsó, in memoria

Silvana Silvestri
Miklós Jancsó, piano sequenza sulla Storia
il manifesto, 1 febbraio 2014

Miklós Jancsó: a lui Wajda attri­buiva «lo sguardo di un dio», la capa­cità di tra­sfor­mare gli spet­ta­tori in divi­nità impla­ca­bili e spie­tate che alla giu­sta distanza assi­stono alle vicende della sto­ria, alle ese­cu­zioni. Due terzi di cielo, una terra piatta, e un uomo che si allon­tana all’orizzonte fino a diven­tare minu­scolo ma non abba­stanza per non essere col­pito da un colpo di fucile che vediamo pren­dere len­ta­mente la mira. Que­sta era la scena che per Wajda sin­te­tiz­zava l’inizio di un per­corso che avrebbe por­tato il regi­sta unghe­rese a par­lare a nome di tutto un popolo, il destino che li acco­muna. Mai più visti i suoi film, nell’occultamento scien­ti­fico delle cine­ma­to­gra­fie dell’est, eppure il regi­sta che si è spento venerdì all’età di 92 anni a Buda­pest ha fatto la sto­ria del cinema. Anche chi non cono­sce i ter­mini tec­nici ha sen­tito par­lare dei piani sequenza, quella tec­nica di ripresa che per­corre la scena nella sua lun­ghezza senza stac­chi, in un teo­rico pro­ce­dere del nuovo cinema, con­tra­rio al mon­tag­gio e nel suo caso, una vera e pro­pria intui­zione for­male in quelle scon­fi­nate pia­nure che così bene si pre­stano alle geo­me­tri­che dispo­si­zioni degli eser­citi, al rac­conto tri­di­men­sio­nale di una sto­ria tanto nasco­sta e lon­tana nel tempo. Eppure i gio­vani spet­ta­tori che affol­la­vano le sale alla fine degli anni Ses­santa per vedere I dispe­rati di San­dor, L’armata a cavallo, Silen­zio e grido, Venti lucenti, a cui pote­vano anche sfug­gire i risvolti pre­cisi degli schie­ra­menti con­trap­po­sti, ritro­va­vano, in paesi diversi, il loro stesso desi­de­rio di cam­bia­mento. Dif­fi­cile imma­gi­nare oggi un uguale tra­sporto. Si evo­cava l’Ungheria dichia­rata indi­pen­dente del 1867, la lotta dei par­ti­giani accanto ai bol­sce­vi­chi nel ’17, la scon­fitta della repub­blica dei con­si­gli. Le sue siste­ma­zioni geo­me­tri­che filo­so­fi­che che con l’uso delle due costanti, oppres­sori e domi­nanti, sono diven­tate le imma­gini delle grandi tra­sfor­ma­zioni cre­dute pos­si­bili in tutta Europa. Nei Dispe­rati di San­dor (’64) l’Ungheria del post qua­ran­totto, la cac­cia spie­tata dei ribelli di San­dor Rosza, da parte dei gover­na­tivi; L’armata a cavallo (’67) il mas­sa­cro dei sol­dati rossi e unghe­resi da parte dei bian­chi; Silen­zio e grido (’68) la repres­sione della repub­blica dei consigli.
Come spesso accade agli arti­sti, Sci­rocco d’invernoAgnus Dei, i suoi film sul fasci­smo e sui nazio­na­li­smi, lan­cia­vano un impre­ve­di­bile sguardo sul futuro. Anche se in Agnus Dei per tutti noi era impos­si­bile cogliere, ad esem­pio, le sfu­ma­ture iro­ni­che del canto hor­thy­sta into­nato nel finale dalla tromba, e ci si per­deva nei diversi par­ti­co­lari delle divise cer­cando di indi­vi­duare i fronti (più imme­diato il suo uso meta­fo­rico del nudo che met­teva in scena l’oppressione del potere, un’altra delle sue inven­zioni visive tra le più com­plesse). Si entrava nel grande cinema, nell’elaborazione arti­stica della sto­ria. Men­tre in que­gli anni il cinema polacco si con­cen­trava sui que­siti morali, e il cinema ceco era stato messo fuori legge, il cinema unghe­rese era una grande pale­stra di discus­sione sto­rica (erano «viva­mente» invi­tati a farlo dalle stesse auto­rità, ci dice­vano i cinea­sti, non senza humour), ma soprat­tutto di spe­ri­men­ta­zione costante a comin­ciare dal docu­men­ta­rio. E nel docu­men­ta­rio esor­di­sce Jancsó (ori­gi­na­rio della Tran­sil­va­nia come Bar­tók) dopo gli studi di etno­lo­gia e diritto, durante gli anni dell’alleanza dell’Ungheria con la Ger­ma­nia; il dram­ma­tico dopo­guerra, i col­legi popo­lari for­mati da gio­vani con l’obiettivo di creare coscienza di classe nei con­ta­dini. Anche Jancsó ne fece parte, men­tre stu­diava all’Istituto di arte dram­ma­tica e cinema. Ini­zia a fare i conti con lo sta­li­ni­smo («più che un errore, un cri­mine») quando sono sciolti, e nel periodo suc­ces­sivo che cul­mi­nerà nel ’56, con la rivolta unghe­rese repressa dai sovietici.
Jancsó si ispira ai grandi film di Wajda del pro­ble­ma­tico dopo­guerra, rea­lizza Ai mar­gini della città, dove gli ope­rai fanno i conti con il disa­stro lasciato dal con­flitto. Poi le ultime ore del nazi­smo in Unghe­ria nel ‘45 in Le cam­pane sono par­tite per Roma, Scio­gliere o legare dove ancora rie­la­bora le con­vin­zioni mili­tanti del pas­sato, anche arti­stico, con le influenze che pro­ve­ni­vano dall’occidente. É un lungo cam­mino crea­tivo che lo por­terà alla noto­rietà solo dopo i quarant’anni, e non sarà il solo regi­sta del cinema unghe­rese a var­care le soglie della distri­bu­zione e dei festi­val: Ist­ván Gaal, Marta Mesza­ros, Bacso, Sán­dor Sára, Ist­ván Szabó, e tutti gli altri, un gruppo assai apprez­zato da Lukács e dal pub­blico occi­den­tale per­ché davano rispo­ste pro­fonde su quel paese che costrin­geva a schierarsi.
La sua fama lo ha por­tato anche in Ita­lia, dalla col­la­bo­ra­zione con Gio­vanna Gagliardo nascono vari film, tra cui La Paci­fi­sta con Monica Vitti (rife­ri­mento diretto alla sua ammi­ra­zione per Anto­nioni) che lascia per­plessi quei mili­tanti, rivo­lu­zio­nari di cui si parla nel film, immersi nelle sue pia­nure come se fos­sero tutti pro­ta­go­ni­sti dei grandi cam­bia­menti sui cavalli lan­ciati al galoppo. Roma rivuole Cesare, il con­tra­stato Vizi pri­vati e pub­bli­che virtù, e per la tv ita­liana la sto­ria di Attila in La tec­nica e il rito.
Tor­nato in Unghe­ria ci fa avere uno dei suc­cessi dei cine­club Elet­tra amore mio sulle note dell’Alle­gro bar­baro di Bar­tòk. E il suo rap­porto con l’Italia torna, ma con distacco in Il cuore del tiranno con Ninetto Davoli da Boc­cac­cio, un «gioco da palazzo».
Non era così facile incon­trare i regi­sti nel loro ambiente, abbiamo voluto farlo nei primi anni ’80, quando ancora era dif­fi­cile entrare nei paesi comu­ni­sti: rispetto a que­ste scon­vol­genti opere che ave­vano rimesso in discus­sione lo spa­zio men­tale, e lasciato tracce decise (Ange­lo­pou­los), un po’ di appren­sione nell’incontrare il grande mae­stro c’era. Mai avremmo potuto imma­gi­nare tanta cor­diale e quasi gio­cosa acco­glienza, men­tre si pre­pa­rava a par­tire in pro­vin­cia con la sua troupe leg­gera per girare un ser­vi­zio tele­vi­sivo in cui i bam­bini pone­vano domande agli adulti. Ave­vamo sen­tito da parte sua affer­ma­zioni piut­to­sto pes­si­mi­ste sul cinema: «Con le nou­vel­les vagues — diceva — il cinema è tor­nato a par­lare per imma­gini. Ma il pub­blico oggi vuole il diver­ti­mento, è diven­tato mino­renne e i gio­vani sanno che i padri men­tono, cono­scono la repres­sione». Un pes­si­mi­smo che abbiamo visto cre­scere nel tempo, men­tre met­teva a punto uno stile fatto di sber­leffi, di cinico distacco: «Biso­gne­rebbe cam­biare lavoro oppure arri­vare alla terza guerra mon­diale. E forse arriva». Cosa ci diceva dell’Italia? «Ho avuto molti amici, rap­porti con i movi­menti cosid­detti emar­gi­nati, i gio­vani e le donne. Mi con­si­dero un allievo di Anto­nioni, il mio stile è un’invenzione che deriva da lui. Non è qual­cosa di cine­ma­to­gra­fico, è un’atmosfera dei con­tra­sti della cosid­detta libertà. Uno deve sce­gliere da che parte stare, la scelta non è solo di tipo artistico».

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