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martedì 14 dicembre 2021

Teodorico di Verona


 
Giosuè Carducci, La leggenda di Teodorico, Rime nuove 1906, poesia numero LXXVI
Su 'l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l'aprico
Verde il grande Adige va;
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.
Pensa il dí che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,
Quando il ferro d'Ildebrando
Su la donna si calò 
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.
Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre; 
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventú, 
Ed il bel verde paese 
Che da lui conquiso fu.
Il gridar d'un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
— Sire, un cervo mai sí bello
Non si vide a l'età nostra. 
Egli ha i pié d'acciaro a smalto, 
Ha le corna tutte d'òr.
— Fuor de l'acque diede un salto
Il vegliardo cacciator. 
— I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo — egli chiedea;
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparí,
E d'un tratto al re da canto 
Un corsier nero nitrí. 
Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no 'l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale
E lontan d'ogni sentiero
Ora scende e ora sale: 
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò. 
Il re scendere vorría,
Ma staccar non se ne può. 
Il più vecchio ed il più fido
Lo seguía de' suoi scudieri,
E mettea d'angoscia un grido
Per gl'incogniti sentieri: 
— O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne' tuoi be' dí,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai cosí. 
Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta? 
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta? — 
— Mala bestia è questa mia, 
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò. — 
Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria: 
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covría,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fé;
E terribile scendeva 
Dio su 'l capo al goto re. 
Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s'immerge ne la notte,
Ei s'aderge in vèr' le stelle.
Ecco, il dorso d'Appennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tosco mar.
Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bòmbiti lampeggia
De l'ardor che la consuma: 
Quivi giunto il caval nero 
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò. 
Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine; 
Non è il sole, è un'ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.

 

sabato 7 gennaio 2017

La leggenda di Teodorico

Fiorella Simoni, Il re che scese agli Inferi, Storia e dossier, giugno 1987, pp. 49-50 Due rilievi situati sul lato destro, in basso, della facciata di San Zeno in Verona rappresentano, rispettivamente, un cavaliere in corsa ed un cervo braccato dai cani che si avvicina alle dimore infere, dove un demonio è in attesa. In entrambi i riquadri è apposta un'iscrizione latina, che nel primo riquadro dice: "O re stolto! Chiede un tributo agli inferi. E subito è pronto il cavallo che il demonio iniquo ha inviato. Esce nudo dallaqcqua e va verso gl'inferi per non tornare"; e nel secondo: "Gli vengono donati uno sparviero, un cervo, un cane. E' l'Averno che li dona". Una lunghissima tradizione erudita vuole che questi rilievi (attribuiti generalmente al maestro Nicolò, attivo in Verona intorno al 1138) siano connessi con la leggenda del re goto Teodorico. Del resto almeno due testi medievali, sia pure più recenti dei rilievi, sembrano fornirci la descrizione puntuale delle immagini scolpite. In uno di questi testi, la saga nordica di Teodorico, del XIII secolo, si legge pressappoco (con la sola eccezione del finale) quello che troviamo nella poesia di Giosuè Carducci: Teodorico, ormai vecchio, è a bagnarsi in una località che da lui prende il nome, quando gli viene annunciata l'apparizione di un cervo straordinario; il re balza dall'acqua e monta su un cavallo nero che gli si presenta davanti, un cavallo da cui non potrà scendere e che lo porterà via senza che si abbia più notizia di lui. Ancora più vicino ai rilievi di San Zeno è il racconto narrato nelle Storie imperiali di Giovanni Mansonario, agli inizi del XIV secolo. Secondo Giovanni il volgo favoleggiava che Teodorico avesse chiesto in dono al diavolo un cavallo e dei cani e che, ricevutili mentre era a bagnarsi, fosse saltato in groppa al cavallo, scomparendo. La dominazione di Teodorico in Italia aveva segnato per molti aspetti un'età felice, di pace e di riordinamento. Ma l'illusione di far convivere in armonia gli Ostrogoti ariani ed i Romani cattolici,era naufragata sul volgere della vita di Teodorico, con le esecuzioni di Boezio e di Simmaco e con la morte in carcere del pontefice Giovanni. Queste fini tragiche gettarono una luce sinistra sulla fine dello stesso re goto, avvenuta nel 526. La sua morte fu subito connessa con quella delle sue vittime e con il suo irrigidimento nell'eresia ariana; per gli storiografi del VI secolo Teodorico sarebbe morto per una colica, come Ario, o addirittura, in una sorta di allucinazione, sarebbe morto di terrore per aver visto, nella testa di un gran pesce imbanditogli a mensa, la testa di Simmaco decapitato. Queste voci persistettero, arricchendosi di particolari drammatici. Nei Dialoghi di papa Gregorio Magno, tra il 593 e il 594, la leggenda ha già raggiunto la forma con la quale avrebbe varcato i secoli. Attraverso tre generazioni era giunto al pontefice il racconto di un eremita di Lipari, coevo di Teodorico, che affermava di aver visto il re discinto e scalzo, con le mani legate, trascinato dal papa Giovanni e dal patrizio Simmaco, e quindi gettato nella bocca di un vulcano. Se nel mondo latino la figura di Teodorico era divenuta quella di un feroce tiranno preda del diavolo, diversamente si parlava di lui nel mondo germanico. Scomparsi gli Ostrogoti dalla storia con la riconquista giustinianea, il loro più grande re, il conquistatore d'Italia, Teodorico, aveva continuato a vivere nella memoria di tutte le genti germaniche. Così nell'anno 801 l'imperatore franco Carlo Magno ordinava il trasporto ad Aquisgrana di una statua equestre del re goto; e nella Svezia precristiana del IX secolo, come risulta dall'iscrizione runica della pietra di Rök, un padre addirittura "consacrava" suo figlio a Teodorico, già animoso signore di guerrieri che, precisava il testo,"ora siede armato sul suo cavallo, con lo scudo in spalla". E la memoria positiva di Teodorico di Verona [Dietrich von Bern], che pare improntasse antichi canti popolari, ha poi lasciato traccia di sé, tra VIII e XIII secolo, nei carmi eroici e nell'epica germanica.  Ma anche per le sue genti Teodorico, pur nella sua grandezza, aveva fallito il proprio obiettivo. Ed allora la leggenda romano-cattolica aveva potuto attecchire nel mondo germanico, sia pure con un sostanziale mutamento: Teodorico era sceso all'inferno, ma non come ombra perseguitata da ombre romane, bensì solo, assiso su un cavallo nero, e vivo. I rilievi di San Zeno costituirebbero in tal senso la prima attestazione dell'evoluzione eroico-fantastica della leggenda cattolica, una evoluzione su cui si intratteneva criticamente, pochi anni dopo l'esecuzione dei rilievi veronesi, il vescovo di Frisinga Ottone, zio di Federico Barbarossa. Non tutti però dimostravano lo stesso aristocratico scetticismo del prelato svevo. Alcuni parlavano invece di apparizioni del re goto. Annali provenienti dalla città di Colonia registrano nell'anno 1197 la comparsa, presso la Mosella, di un fantasma di straordinaria grandezza montato su un cavallo nero. Ad alcuni attoniti viandanti il fantasma avrebbe detto di essere Teodorico, già re di Verona, ed avrebbe annunciato l'avvento di prossime calamità. Nel mondo germanico la demonizzazione di Teodorico era dunque tanto ambigua, e tanto carica di tensione eroica, da sconfinare in una esaltazione privilegiata del personaggio, condannato ad una sorta di demoniaca immortalità. Come Artù, come Carlo Magno, come Federico Barbarossa, anche Teodorico, in questa visione, non avrebbe mai cessato di far parte della storia del mondo. La leggenda che lo aveva fatto discendere vivo agli inferi lo voleva ancora presente in terra: come apparizione profetica, come guerriero fantasma, o ancora nel folklore del XIX e del XX secolo, come guida delle notturne schiere infernali, nella cosiddetta Caccia Selvaggia. E' possibile che i rilievi di San Zeno siano da porre in relazione con un'aura di attesa fiabesca che già circondava la figura di Teodorico. Ma, mentre si eternava nel marmo la leggenda di una sua fine straordinaria, si smentiva, con le parole incise, ogni corollario di umbratile sopravvivenza: Teodorico, disceso vivo agli inferi, non sarebbe tornato mai più. E' possibile però che l'immagine scolpita, testimone di una fine fuori da ogni norma, abbia ridato vita all'antica credenza pagana di un Teodorico re sacro, signore di battaglie, alimentando le voci di un suo ritorno.In realtà non abbiamo neppure l'assoluta sicurezza che i rilievi di San Zeno siano nati in riferimento a Teodorico. Resta comunque il fatto che in Verona, la città che aveva legato indissolubilmente il suo nome a quello di Teodorico, nella figura a cavallo diretta agli inferi la tradizione interpretativa ha ravvisato, pressocché unanime, il re goto. I riquadri di San Zeno restano così a testimoniare un diffuso senso di disagio e di incertezza di fronte alle contraddizioni ed all'ambivalenza di un personaggio che aveva voluto reggere in pace due culture diverse, ma aveva poi lasciato dietro di sé un progetto incompiuto ed un problema irrisolto.  https://it.wikisource.org/wiki/Rime_nuove/Libro_VI/La_leggenda_di_Teodorico https://machiave.blogspot.com/2021/12/teodorico-di-verona.html

sabato 7 marzo 2015

Eclisse e trasfigurazione di Satana

Roberta Scorranese
Dall’inferno agli abissi umani
Le raffinate astuzie di Satana
Tra Otto e Novecento Belzebù ha perso la sua carica simbolica e si è annidato nella psiche

Corriere della Sera, 19 febbraio 2015


Nel 1872 un russo divorato dalla febbre del gioco scrisse I demoni, un romanzo-affresco su una umanità posseduta, mossa da uno estremo istinto di distruzione creatrice. Nello stesso anno, un pittore (anche questo russo) dipinse una delle più singolari Tentazioni di Cristo: Gesù è solo, in mezzo al deserto, il demonio non è visibile, non ha le consuete sembianze caricaturali (come, per esempio, nelle Prove di Cristo di Botticelli). Perché il demonio è in Cristo, è nella sua espressione perduta, nelle sue mani strette dall’ansia, nelle pietre aride.
Così Fëdor Dostoevskij e Ivan Kramskoi hanno dato vita a una nuova, rivoluzionaria visione di Satana. In Russia, e forse non a caso: nella terra degli Zar il nichilismo assunse una fisionomia originale, sospesa tra la filosofia e la denuncia sociale. L’eclisse di Satana, o, meglio, la sua trasfigurazione, prende piede anche qui.
Un’eclisse che, nel periodo al centro dalla mostra «Il demone della modernità», tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, poco alla volta trasforma il demonio in qualcosa di interiore. Nevrosi, sensi di colpa, rimorsi, tormenti modernissimi, poi sigillati dalle sentenze di Freud (se non c’è Dio non può esserci il demonio, diceva in sintesi) e, in definitiva, c’è la conferma della geniale intuizione di Baudelaire: «Il miglior trucco del diavolo è nel convincerci che non esiste».
Ma il percorso non è semplice: sin dalla metà dell’Ottocento Lucifero, spogliato di una teofania impoverita, si annida nelle idee, prende a nascondersi negli abissi insondabili dell’uomo descritti da Edgar Allan Poe. Nel Diavolo nel campanile (1840) Belzebù compare nei panni di un ometto insignificante e stravolge la normalità di un piccolo, sereno borgo. Nell’Inno a Satana di Carducci c’è tutta l’energia di un pensiero libero, rivolto alle cose materiali — si è detto: da massone.
In Breve storia del diavolo (Castelvecchi), Alberto Cousté annota: «Durante il secolo XIX il demonio si ritira per preparare una strategia incentrata sulla metamorfosi». Il demone della modernità si nasconde, si traveste, per poi ritornare e a volte torna in forma di caricatura: se ne I fratelli Karamazov (ancora Dostoevskij!) appare a Ivàn in abiti borghesi, nel Doktor Faust di Thomas Mann (1947) tornerà a sedersi in salotto, di fronte al musicista Adrian Leverkühn. Nella novella La Madonnina di Pirandello, se ne sta «in agguato dietro il seggiolone su cui il padre beneficiale Fioríca sedeva con Guiduccio sulle ginocchia».
Il periodo a cavallo tra Otto e Novecento ha trasformato il demonio in una fiction. Un «personaggio letterario che non turba la vita degli uomini — scrive Cousté — anche se li istiga ad ampliare la coscienza e a ribellarsi». Lucifero è astuto: ha capito che, se dio è morto, adesso bisogna fare leva sulle nuove aspirazioni autarchiche dell’uomo. Lo ritroviamo nella vena necrofila di Gottfried Benn o nell’iconoclastia di Giovanni Papini, il quale, nel 1953, pubblica Il diavolo, saggio nel quale auspica che se la misericordia di Dio è immensa, allora anche l’angelo caduto verrà perdonato. Non verrà perdonato lui, Papini, che si ritroverà il volume nell’Indice dei libri proibiti, ma ci penserà il cinema a esorcizzare satanasso, a cominciare dalle commedie brillanti come Harry a pezzi (1997) dove Woody Allen troverà un luciferino Billy Crystal ad aspettarlo all’inferno. Ci voleva la concretezza semplice di un Papa come Francesco a ricordarci che il demonio c’è eccome, che non è una leggenda.
Forse è anche per questa recente consapevolezza collettiva risvegliata dal pragmatismo del Pontefice che oggi libri come Sottomissione di Michel Houellebecq, dove si ipotizza una Francia islamizzata, sono capaci di destare preoccupazioni, evidenziando (come con il luminol) quelle tracce demoniache ancora presenti nella realtà. Perché il diavolo non è nel nemico, come ci insegna la teologia. Il diavolo è nel nostro sguardo, più o meno consapevole. Il demone della modernità è più moderno che mai.