sabato 31 maggio 2014

La metafora dell'alveare in Tolstoj

 "Le api sono state per noi quel che sono le nuvole: ciascuno vi ha visto quel che vi voleva vedere".
Michel de Cubières, 1792, cit. da Giovanni Damele, La città delle api, Il Foglio quotidiano, 31 maggio 2014, poi pubblicato nel blog L'alveare contento: http://alvearecontento.blogspot.it/2014/06/i-vizi-e-le-virtu-dellalveare.html



Guerra e pace
Libro terzo, parte terza, capitolo XX 

 Mosca, intanto, era deserta. C'era ancora della gente, più o meno la cinquantesima parte della popolazione che ci abitava prima, ma la città era deserta. Era deserta come un'arnia che, rimasta senza regina, sta per morire.
   In un'arnia senza regina non c'è più vita, ma, a uno sguardo superficiale, essa sembra viva né più né meno di tutte le altre.
   Con la stessa festosità, nel caldo sole del pomeriggio, le api ronzano intorno a un'arnia senza regina, come intorno alle altre arnie vive; non meno delle altre essa odora da lontano di miele, e ne escono e vi entrano a volo le api. Ma basta osservarla con attenzione per capire che in quell'arnia ormai non c'è più vita. È diverso il modo di volare delle api; un odore, un rumore diverso colpiscono l'attenzione dell'apicultore. E quando egli batte sulla parete dell'arnia malata, invece dell'istantanea, unanime risposta di decine di migliaia di api che ronzano col posteriore minacciosamente eretto e dimenano le alucce producendo quel suono aereo, vitale, gli rispondono ronzii isolati, che sordamente riecheggiano da un
punto all'altro dell'arnia vuota. Dal foro di entrata non spira più, come prima, il profumo inebriante di miele e di veleno, non ne emana più il tepore dell'affollamento, ma all'odore del miele si mescola un sentore di vuoto e di marcio. Davanti all'apertura non ci sono più le guardiane pronte a morire per difenderla, coi posteriori eretti, le guardiane che suonano l'allarme. Non c'è più quel brusio regolare e sommesso, simile al rumore dell'ebollizione, del lavoro palpitante, ma si sente il rumore disordinato e confuso del disordine. Dentro l'arnia e fuori dell'arnia escono ed entrano, volando in modo timido e furtivo, le nere, allungate api predatrici, unte di miele; non pungono, ma evitano il pericolo. Prima le api volavano dentro soltanto cariche di bottino, e ne uscivano vuote, mentre adesso volano fuori con il bottino. L'apicultore apre la saracinesca di sotto e scruta nella parte inferiore dell'arnia. Invece dei neri grappoli di pingui api ammansite dal lavoro, appese l'una alle zampette dell'altra, intente a filare la cera nell'incessante brusio del lavoro, sul fondo e sulle pareti dell'arnia gironzolano smarrite, in varie direzioni api sonnolente e rinsecchite. Invece del lindo piancito spalmato di pròpoli e spazzato dalle ali delle api, sul fondo stanno sparse briciole di cera, escrementi di api, api semimorte che muovono appena le zampette, e altre definitivamente morte che nessuno s'è curato di portar via.
   L'apicultore, allora, apre la saracinesca superiore ed esamina la sommità dell'arnia. Invece delle file compatte di api che aderiscono a tutti gli intervalli dei favi e scaldano i figli, vede l'ingegnoso, complicato lavoro dei favi, ma il modo in cui si svolge non è più quello di prima. Tutto è trascurato e sporco. Le nere api depredatrici guizzano rapide e furtive in mezzo al lavoro; le api dell'arnia, rinsecchite, corte, flaccide, come invecchiate, si trascinano lentamente senza dar fastidio a nessuno, senza desiderare nulla, smarrita ormai la coscienza della vita. I fuchi, calabroni e farfalle, volando, vanno a picchiare contro le pareti dell'arnia. Qua e là fra pezzi di cera con larve morte e miele, ogni tanto si sente un rabbioso brontolio; qua e là due api, per vecchia abitudine e per istinto, tentano di pulire il fondo dell'arnia e trascinano diligentemente, con estremo sforzo, un'ape morta o un calabrone, ma non sanno neanche loro perché lo fanno. In un altro angolo altre due vecchie api si battono pigramente, o si puliscono, o si nutrono a vicenda, senza neanche sapere se lo facciano amichevolmente od ostilmente. In un terzo punto una folla di api, spingendosi a vicenda, assale qualche vittima e la colpisce e la soffoca. E l'ape indebolita o uccisa casca dall'alto nel mucchio di cadaveri leggera, lenta, come una piuma. L'apicultore rimuove i due favi centrali per guardare il nido. Invece dei neri circoli compatti di migliaia di api accucciate schiena a schiena, vigilanti sui supremi misteri della riproduzione, vede centinaia di carcasse di api avvilite, semimorte e sonnolente. Quasi tutte sono già morte senza neanche accorgersene, accucciate sul sacro tesoro che custodivano e che ormai non esiste più. Da esse emana odore di putrefazione e di morte. Solamente alcune si muovono, si alzano, fiaccamente volano e si posano sulla mano del nemico, senza la forza di pungerlo: le altre, morte, scivolano giù leggere come scaglie di pesce. L'apicultore chiude la saracinesca, fa segno con il gesso sull'arnia e, scelto il momento, la sfascia e la brucia.
   Così era vuota Mosca mentre Napoleone, stanco, inquieto e accigliato, camminava avanti e indietro lungo il Kamerkolležskij Val [bastione del Collegio di Camera], in attesa di quell'esteriore, ma indispensabile osservanza del cerimoniale, ossia il
presentarsi di una deputazione di moscoviti.
   Nei vari angoli di Mosca, ormai, la gente continuava a muoversi e a camminare senza chiedersi il perché, senza alcun motivo, conservando le vecchie abitudini, ma senza rendersi conto di quello che faceva.
   Quando, con la dovuta cautela, fu annunciato a Napoleone che Mosca era vuota, egli guardò con ira colui che gli dava la notizia e, voltandogli le spalle, continuò a camminare su e giù in silenzio.
   «La carrozza,» ordinò.
   Si sedette in carrozza accanto all'aiutante di servizio e si recò al sobborgo.
   «Moscou déserte. Quel événement invrainsemblable,» diceva fra sé.
   Non entrò in città, ma si fermò in una locanda del sobborgo di Dorogomilovo.
   
Le coup de théâtre avait raté.   

https://machiave.blogspot.com/2022/03/tolstoj-mosca-1812.html

venerdì 30 maggio 2014

Mary Wollstonecraft, la ragione unita al sentimento (1759-1797)

Elena Stancanelli 
La Wollstonecraft, madre della Shelley, fu scrittrice e femminista militante
L’altra Mary e l’enigma Frankenstein

la Repubblica, 30 maggio 2014

  







«Il maschio insegue, la femmina concede» scrive Mary Wollstonecraft nell’introduzione al suo Rivendicazione dei diritti della donna, pubblicato per la prima volta nel 1792. Gli uomini, spiega, sono fisicamente più forti delle donne ma non paghi di questa superiorità tentano di spingerci più in giù, «con l’intento di trasformarci in momentanei oggetti del desiderio». Le donne, intossicate da questa adorazione, puro abbaglio dei sensi, cedono e si beano, anziché capitalizzare e trasformare quel trasporto in un sentimento solido e duraturo.
Antidoto, e unica forma possibile di emancipazione femminile, è l’istruzione.
Mary Wollstonecraft era nata il 27 aprile 1759, lo racconta William Godwin, filosofo illuminista radicale e anarchico, che amò e sposò Mary e ne scrisse la biografia. Non giocò mai con le bambole e crebbe come un maschio in una fattoria nella foresta di Epping, vicino Londra, correndo per i campi dietro ai fratelli. Ma attenzione, scrive Mary: accusare una donna di mascolinità è solo un’altra tattica degli uomini. In questo modo vorrebbero farci tornare a quella debolezza nefasta e artificiale, che produce, nella donne, «una propensione alla tirannia, generando astuzia, rivale naturale della forza, e inducendo a esibire quelle spregevoli arie infantili che ne minano la stima, nonostante al contempo eccitino il desiderio...». Sembra di ascoltare una tirata di Elizabeth Bennet, l’eroina di Jane Austen, o meglio ancora di leggere nella mente di Jane Eyre, l’impavida istitutrice.
Mary, per diventare la donna che voleva essere, studiò sul serio, e più che poteva. Non era facile, non veniva da una famiglia molto istruita. A sedici anni conobbe Fanny Blood, una ragazza colta, capace di cantare suonare disegnare e mantenere tutta la famiglia lavorando. Con Fanny, Mary aprì una scuola a Islington, dove mise a insegnare anche le sue sorelle. Quando Fanny, pochi anni dopo, morì di parto a Lisbona, Mary disperata chiuse la scuola, scrisse un romanzo, si occupò di politica, e infine partì per Parigi, innamorata della rivoluzione. Robespierre la deluse, ma nel frattempo conobbe un uomo, Gilbert Imlay. Un faccendiere americano, forse addirittura una spia, che speculava lavorando per i Giacobini, coltivando ambizioni politiche. Faceva la spola tra Parigi e Londra, fin quando in Francia non tornò più.
Mary partì per cercarlo, dopo averlo atteso a lungo insieme alla piccola Fanny, la loro figlia alla quale aveva dato il nome dell’amica adorata. Ovviamente, lo trovò sistemato con un’altra, «una giovane che lavorava come attrice in una compagnia di girovaghi», scrive Godwin. Pianse, tentò il suo suicidio, ma poi tornò da lui. Difficile capire per quali ragioni si legò a un uomo così, a una passione infelice e pericolosa. «Una delle ultime impressioni che una mente può essere in grado di cogliere è quella relativa al valore della persona per cui prova ammirazione», scrive il saggio Godwin. Imlay la spedì in Svezia a cercare una nave con un carico importante e ricco, sparita chissà come. Da lì scrisse all’amato (Lettere scritte durante un breve soggiorno in Svezia, Norvegia e Danimarca, edizioni Rubettino) d’amore, di politica, di paesaggi.
Una corrispondenza che la figlia Mary doveva aver letto, che dovrà esserle servita di ispirazione. Il suo Frankenstein è infatti un romanzo epistolare, la vicenda che conosciamo è inserita dentro le lettere del capitano Walton a sua sorella Margareth. Capitano di una nave, in viaggio verso il Polo Nord, una notte vede passare una creatura mostruosa che corre sui ghiacci, il giorno successivo un uomo su una slitta. L’uomo, che salirà a bordo e racconterà la sua storia, è il dottor Victor Frankenstein di Ginevra, l’incauto Prometeo.
Ma quando la madre è in Svezia, persa dietro vascelli fantasma, Mary non è ancora nata. Anzi, rischia di non nascere per niente perchè Mary Wollstonecraft, tornata dal suo viaggio, trova di nuovo Imlay con un’altra e si butta nel Tamigi.
Anche questa volta viene salvata, e, esaurito il lutto, si innamora finalmente di una persona perbene, William Godwin. Il 10 settembre 1797 nasce Mary e poche ore dopo la madre muore di setticemia. Lui, Godwin, qualche anno più tardi incontrò un’altra donna, fondò una casa editrice per bambini, scrisse la biografia di Mary, sua moglie, e si occupò di dare un’educazione vera a Mary, sua figlia. Che però a sedici anni si innamorò del poeta Percy Shelley, che ruppe un matrimonio e abbandonò due figli per seguirla. Godwin, pur seguace e teorico dell’amore libero - «non ci sposammo », scrive nella biografia di Mary, «non c’è nulla di più distante dalla spontaneità che far dipendere la grandezza di un sentimento da una cerimonia e lasciare che acquisisca valore solo perché riconosciuto pubblicamente » - non la prese bene. Ma i due fuggirono comunque insieme.
E una notte, per gioco, a Villa Diodati sul lago di Ginevra, Mary inventò e poi scrisse uno dei romanzi più belli della modernità, Frankenstein. Storia di un mostro, nato dalla presunzione di un uomo. Messo al mondo e abbandonato a se stesso, cresciuto senza che nessuno si prendesse cura di lui. Buttato nella vita senza istruzioni, costretto a vagare per la terra cercando, invano, qualcuno che potesse affezionarsi alla sua deformità. Come una figlia, la cui madre sia morta partorendola?
Mary Wollstonecraft è oggi riconosciuta come una delle prime e più importanti teoriche del pensiero femminista. Ma subì una lunga censura, per la sua vita considerata libertina e la sua impudicizia, anche sentimentale, nell’esporla. Fu George Eliot, a metà dell’ottocento, a riscoprirla, e dopo di lei Virginia Woolf che le dedicò uno dei saggi in Four Figures. Proprio quella sua vita libera, le lettere appassionate, unite al suo pensiero razionale, scrive Woolf, fanno di lei una figura speciale, rendono la sua esistenza, e il suo pensiero immortali. Ragione e sentimento, avrebbe infatti riconosciuto il Novecento, è molto più potente di ragione contro sentimento.

giovedì 29 maggio 2014

Jaurès, il partito del popolo

David, Il giuramento della pallacorda (abbozzo, 1793)

1-2, il vento della libertà
3, Bailly
6, tre ecclesiastici, la figura centrale è l'abbé Grégoire
8, Robespierre
11, Mirabeau

Se fosse una setta, se la sua vittoria dovesse essere la vittoria di una setta, il socialismo dovrebbe esprimere sulla storia il giudizio proprio di una setta, dovrebbe dare la sua simpatia a quei piccoli gruppi le cui formule sembrano meglio annunciare le sue o a quelle fazioni ardenti che spingendo quasi alla follia la passione del popolo sembravano rendere insostenibile il regime che vogliamo abolire . Ma non è da una esasperazione partigiana, è dallo sviluppo potente e vasto della democrazia che il socialismo verrà fuori ed è per questo che, in ogni momento della Rivoluzione francese, mi chiedo: qual è la politica che meglio serve l'intera Rivoluzione, tutta la democrazia? Ora, questa è al momento la politica di Robespierre. Babeuf, il comunista Babeuf, il vostro patrono e il mio, colui che nel nostro paese ha fondato non solo la dottrina socialista, ma soprattutto la politica socialista aveva avvertito tutto ciò nella sua lettera a Coupé de l'Oise: ecco che quindici mesi dopo la morte di Robespierre, quando Babeuf cerca di puntellare la sua impresa socialista, è la politica di Robespierre che gli appare come l'unico punto di appoggio. A Bodson, a questo ardente cordigliere che assisteva alle riunioni del club nella tragica settimana del marzo 1794, in cui l'hebertismo preparò la sua insurrezione contro la Convenzione, a Bodson, rimasto fedele alla memoria di Hébert, Babeuf non teme di scrivere, il 29 febbraio 1796, che Hébert non conta, era riuscito a coinvolgere solo alcune parti di Parigi, mentre il bene comune doveva avere per organo l'intera comunità: Robespierre da solo, andando oltre cricche, sette e combinazioni artificiali, ha rappresentato la piena portata della democrazia.

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Histoire socialiste de la France de 1789 à 1900
1903
 
Si le socialisme était une secte, si sa victoire devait être une victoire de secte, il devrait porter sur l’histoire un jugement de secte, il devrait donner sa sympathie aux petits groupements dont les formules semblent le mieux annoncer les siennes, ou à ces factions ardentes qui en poussant presque jusqu’au délire la passion du peuple, semblaient rendre intenable le régime que nous voulons abolir. Mais ce n’est pas d’une exaspération sectaire, c’est de la puissante et large évolution de la démocratie que le socialisme sortira: et voilà pourquoi, à chacun des moments de la Révolution Française, je me demande : quelle est la politique qui sert le mieux toute la Révolution, toute la démocratie ? Or, c’est maintenant la politique de Robespierre. Babeuf, le communiste Babeuf, votre maître et le mien, celui qui a fondé en notre pays, non pas seulement la doctrine socialiste, mais surtout la politique socialiste, avait bien pressenti cela dans sa lettre à Coupé de l’Oise : et voici que quinze mois après la mort de Robespierre, quand Babeuf cherche à étayer son entreprise socialiste, c’est la politique de Robespierre qui lui apparaît comme le seul point d’appui. A Bodson, à ce Cordelier ardent qui assistait aux séances du club dans la tragique semaine de mars 1794, où l’hébertisme prépara son mouvement insurrectionnel contre la Convention, à Bodson, resté fidèle au souvenir d’Hébert, Babeuf ne craint pas d’écrire, le 29 février 1796, qu’Hébert ne compte pas, qu’il n’avait su émouvoir que quelques quartiers de Paris, que le bonheur commun devait avoir pour organe toute la communauté et que Robespierre seul, au-delà des coteries, des sectes et des combinaisons artificielles et étroites, a représenté toute l’étendue de la démocratie.





Chambre des députés, 18 novembre 1908, débat sur la peine de mort

M. Jaurès. Qu’est-ce donc, dans son fond, dans son inspiration première, que la Révolution française ? C’est une magnifique affirmation de confiance de la nature humaine en elle-même. Les révolutionnaires ont dit à ce peuple, asservi et enchaîné depuis des siècles, qu’il pouvait être libre sans péril, et ils ont conçu l’adoucissement des peines comme le corollaire d’un régime nouveau de liberté fraternelle. M. Massabuau me rappelait Robespierre et la guillotine en permanence. Je prie M. Massabuau de laisser aux esprits vulgaires ce trop facile jeu d’esprit. (Exclamations et rires à droite et au centre. — Applaudissements à l’extrême gauche.) Messieurs, quand les grands esprits de la Révolution faisaient pour les hommes ce rêve d’une justice adoucie, c’était pour une société régulière, équilibrée et fonctionnant normalement. Ils ont été obligés à une lutte à outrance par la révolte même des forces atroces du passé. Mais savez-vous ce qui les excuse, s’ils avaient besoin d’excuse ? Savez-vous ce qui les glorifie ? C’est que, à travers les violences mêmes auxquelles ils ont été condamnés, ils n’ont jamais perdu la foi en un avenir de justice ordonnée. (Exclamations à droite. — Applaudissements à l’extrême gauche et sur divers bancs à gauche.) C’est qu’ils n’ont jamais perdu confiance en cette révolution au nom de laquelle ils avaient tué et au nom de laquelle ils étaient tués : Condorcet, proscrit, retraçait les perspectives du progrès indéfini de l’esprit humain ; à Robespierre, blessé, on ne pouvait arracher dans son stoïque silence aucune parole de doute et de désaveu. Et c’est parce que ces hommes, à travers la tourmente, ont gardé la pleine espérance, la pleine confiance en leur idéal, qu’ils ont le droit de nous la transmettre et que nous n’avons pas le droit, dans des temps plus calmes, de déserter la magnifique espérance humaine qu’ils avaient gardée. (Applaudissements à l’extrême gauche et sur divers bancs à gauche.) 

mercoledì 28 maggio 2014

Tolstoj, Platon Karataev



Di Tolstoj, Pierre incarna le idee, le speranze, le delusioni e, infine, anche la calma spirituale, la libertà interiore finalmente raggiunte; da questo punto di vista, i momenti rivelatori di apertura a un diverso e più immediato rapporto con la vita sono due nel romanzo e corrispondono alla lezione offerta da due personaggi che incarnano il rispetto per l'essere (Natascia) e la buona vita (Platon Karataev).  Nel caso della contessa Rostova lo scambio con Pierre accompagna tutta la narrazione. Per l'altro personaggio tutto si risolve in un incontro che dura un mese. Platon Karataev rappresenta la figura dell’uomo semplice, il soldato-contadino legato alla “terra” e a un’idea pura di Dio. Grazie all’amicizia con Karataev, il tormentato Pierre riuscirà a sciogliere il "complicato e terribile nodo della vita" e ad avvicinarsi all’assoluto.


http://www.sras.org/tolstoy_and_dostoevsky



Guerra e pace
Libro IV, parte prima

capitolo 12

... E Platon cambiò posizione sulla sua paglia.
Dopo esser rimasto per un po’ in silenzio, si alzò di nuovo in piedi. [...] Quand’ebbe così finito [la preghiera], si inchinò fino a terra, poi si alzò, diede un sospiro e si sistemò di nuovo sulla paglia. “Ecco fatto. Come una pietra, Dio, fammi dormire; come un bel pane fresco fammi alzare” disse, e si sdraiò tirandosi addosso il pastrano. [...] Fuori, in lontananza, si udivano pianti e grida e attraverso le fessure della baracca si intravvedevano fiamme; ma all’interno tutto era silenzio e buio. Per un pezzo Pierre non riuscì a prender sonno; sdraiato nel suo angolo, con gli occhi spalancati nel buio, ascoltava il russare ritmico di Platon che giaceva accanto a lui; e gli sembrava che il mondo, che poco prima gli era parso in rovina, risorgesse nel suo animo con nuova bellezza, su nuove, incrollabili fondamenta.

capitolo 13

    Nella baracca dove Pierre era stato portato, e dove avrebbe trascorso quattro settimane, c'erano ventitré soldati, tre ufficiali e due funzionari civili, tutti prigionieri. 
Ciascuno di costoro, in seguito sarebbe riafforato nella memoria di Pierre come attraverso una nebbia: mentre Platon Karataev gli si impresse per sempre nella mente e nell'anima come il ricordo più tenace e più caro, come la personificazione di tutto ciò che c'è di russo, buono e rotondo. Quando all'alba del giorno seguente, Pierre potè vedere il suo vicino, quella prima impressione di qualcosa di rotondo gli si confermò appieno: la figura di Platon, con il suo pastrano francese stretto in vita da una corda, il berretto a visiera e i lapti [le scarpe di scorza d'albero], era interamente rotonda; la sua testa era del tutto rotonda. La schiena, il petto, le spalle, persino le braccia, che teneva sempre in un certo modo come se fosse sul punto di abbracciare qualcuno, erano rotonde, il gradevole sorriso, i grandi, teneri occhi erano bruni e rotondi.
   Platon Karataev doveva avere più di cinquant'anni, almeno stando ai suoi racconti sulle campagne cui aveva partecipato da quando aveva iniziato il servizio militare. Lui stesso non sapeva né avrebbe mai potuto stabilire con precisione quanti anni avesse. Ma i denti forti e bianchi, che gli si scoprivano tutti in due perfetti semicerchi quando rideva (cosa che gli succedeva di frequente), erano belli e sani dal primo all'ultimo; nella sua barba e nei capelli non c'era un solo filo bianco, e tutto il suo corpo dimostrava agilità e, più ancora, resistenza e robustezza.
   Il suo volto, a dispetto delle piccole, rotonde rughe, aveva una espressione di innocenza e di giovinezza; la voce aveva un timbro gradevole, melodioso. Ma quel che distingueva il suo modo di parlare era l'immediatezza e la praticità. Evidentemente, egli non pensava mai a ciò che aveva appena detto o a ciò che stava per dire: da questo derivava la particolare, irresistibile forza di persuasione implicita nella rapidità e sicurezza delle sue intonazioni. 

    Nei primi tempi della prigionia, la sua forza fisica e la sua destrezza erano tali da far pensare che neppure sapesse che cosa sono la stanchezza o la malattia. Ogni mattina e ogni sera, diceva la sua preghiera: «Come una pietra, Dio, fammi dormire; come un bel pane fresco fammi alzare»; ogni mattina, alzandosi, scuoteva le spalle sempre allo stesso modo e diceva: «Sdraiandomi ho fatto ciambella, alzandomi mi do una scosserella.» In effetti, gli bastava mettersi giù per addormentarsi come un sasso, e gli bastava scuotersi per mettersi subito, senza un istante d'indugio, a occuparsi di qualcosa, come fanno i bambini che afferrano i giocattoli prima ancora d'alzarsi. Sapeva fare di tutto, non proprio alla perfezione, ma nemmeno male. Cucinava, cuciva, sapeva usare la pialla e la lesina. Era sempre indaffarato, e solo di notte si concedeva un po' di conversazione (cosa che gli piaceva molto) e di canzoni. Non cantava come i cantanti, che sanno di essere ascoltati, ma come gli uccelli. Si vedeva che per lui emettere quei suoni era tanto necessario quanto stiracchiarsi o far quattro passi; erano suoni delicati, sempre teneri e quasi femminei, pieni di malinconia, e il suo volto, in quei momenti, aveva un'espressione molto seria.
   Caduto prigioniero, s'era lasciato crescere la barba, scrollandosi evidentemente di dosso quanto d'estraneo e soldatesco gli si era appiccicato e tornando, istintivamente, al suo modo d'essere di prima, contadino e popolare.
   «Soldato congedato, camicia fuori dei pantaloni,» diceva.
   Del periodo passato sotto le armi, non parlava volentieri, benché non si lamentasse e anzi ricordasse sovente che durante tutto il servizio non era mai stato punito. Quando si metteva a raccontare, quasi sempre raccontava dei suoi vecchi e, naturalmente, dei cari ricordi della sua vita «di cristiano», come diceva, cioè di contadino. I proverbi che costellavano il suo discorso non erano i proverbi, per la maggior parte indecenti e sfrontati, che dicono i soldati, ma quelle sentenze popolari che sembrano così insignificanti prese così, da sole, e che acquistano invece, all'improvviso, un senso di profonda saggezza quando vengono pronunciate a proposito.
   Sovente gli capitava di dire esattamente l'opposto di quanto aveva detto un attimo prima: ma sia l'una che l'altra cosa erano giuste. Gli piaceva parlare e parlava bene, abbellendo il suo parlare di vezzeggiativi e di proverbi che a Pierre sembravano inventati lì per lì; ma il fascino principale dei suoi racconti stava nel fatto che, nel suo modo di esporli, anche gli avvenimenti più semplici, a volte perfino gli stessi a cui Pierre aveva assistito senza farci caso, prendevano un aspetto di solenne bellezza. Gli piaceva ascoltare le favole, sempre le stesse, che un altro soldato raccontava ogni sera. Ma ancora di più gli piaceva ascoltare storie di vita reale. Nell'ascoltarle sorrideva di gioia, suggeriva le parole e faceva domande che tendevano a render più chiara la bellezza di ciò che gli stavano raccontando. Affetti, amicizie, amore nel senso in cui Pierre intendeva queste cose, Karataev non ne provava; ma voleva bene a tutti, e viveva in un rapporto amorevole con tutto ciò che la vita gli faceva incontrare, specialmente con l'uomo, ma non un uomo determinato, bensì tutti gli uomini che gli capitavano davanti agli occhi. Amava il suo cagnolino, amava i compagni, i francesi, amava Pierre, che era il suo vicino; ma Pierre sentiva che Karataev, nonostante tutta l'affettuosa tenerezza che aveva per lui (e con la quale rendeva istintivamente omaggio alla vita spirituale di Pierre), non si sarebbe addolorato nemmeno per un istante se li avessero separati. E Pierre cominciava a provare lo stesso
sentimento nei confronti di Karataev.
   Agli occhi di tutti gli altri prigionieri, Platon Karataev era il più normale dei soldati; lo chiamavano Falchetto o Plato
ša [Platoscia], lo prendevano bonariamente in giro, lo mandavano a fare commissioni. Ma per Pierre egli rimase sempre quel che gli era apparso la prima notte: ineffabile, rotonda, eterna personificazione della semplicità e della verità.
   Platon Karataev non sapeva nulla a memoria, fuorché le sue preghiere. Quando raccontava qualcosa, sembrava che cominciasse a parlare senza sapere come avrebbe finito.
   Le volte che Pierre, colpito dal senso del suo discorso, lo pregava di ripetere ciò che aveva detto, Platon non riusciva a ricordare quel che aveva appena finito di dire, così come non era assolutamente capace di ripetere a Pierre le parole della sua canzone preferita. C'era, in essa, «mia cara piccola betulla», e poi «mi sento languire», ma, così a parole, era impossibile cavarne qualcosa. Non capiva, non poteva nemmeno concepire il significato di parole prese isolatamente dal discorso. In ogni sua parola, così come in ogni sua azione, si esprimeva quell'attività a lui stesso ignota che era la sua esistenza. Ma anche la sua vita, per lui, non aveva senso di per se stessa, isolatamente, ma solo come particella di un tutto di cui egli aveva costantemente coscienza. Le sue parole e le sue azioni fluivano dalla sua persona con la stessa regolarità, necessità e immediatezza con cui un fiore esala il suo profumo. Era impossibile, per lui, capire il valore o il significato di un'azione o di una parola considerate come qualcosa a sé stante.     


Il Gramsci di Wiaz

IL GRAMSCI DI WIAZ


Wiaz, nome adottato come artista da Pierre Wiazemsky, legato al settimanale di sinistra Le Nouvel Observateur. Nato a Roma nel 1949. Vero crocevia di parentele illustri, è nipote di François Mauriac per parte di madre e dal lato paterno è erede del titolo di principe Wiazemsky et di conte Levachov. Come se non bastasse ha sposato una Servan-Schreiber e sua sorella Anne è stata moglie di Jean-Luc Godard.
Il disegno coglie il legame stretto tra la figura di Gramsci e l'esperienza della prigione.


Sulla doppia prigionia del pensatore sardo sarebbero poi tornati in vario modo Aurelio Lepre, Giuseppe Vacca e Franco Lo Piparo.

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19 maggio 1930
 Carissima Tatiana,

ho ricevuto tue lettere e cartoline. Mi ha fatto nuovamente sorridere la curiosa concezione che tu hai della mia situazione carceraria. Non so se tu hai letto le opere di Hegel, che ha scritto «il delinquente aver diritto alla sua pena». Su per giú tu immagini me come uno che insistentemente rivendica il diritto di soffrire, di essere martirizzato, di non essere defraudato neanche di un minuto secondo e di una sfumatura della sua pena. Io sarei un nuovo Gandhy, che vuole testimoniare dinanzi ai superi e agli inferi i tormenti del popolo indiano, un nuovo Geremia o Elia o non so chi altro profeta d’Israello che andava in piazza a mangiare cose immonde per offrirsi in olocausto al dio della vendetta, ecc. ecc. Non so come ti sei fatta questa concezione, che è molto ingenua nei tuoi rapporti personali e abbastanza ingiusta nei tuoi rapporti verso di me, ingiusta e inconsiderata.  Tu, penso, non hai  riflettuto abbastanza al caso mio e non sai scomporlo nei suoi elementi. Io sono sottoposto a vari regimi carcerari: c'è il regime carcerario costituito dalle quattro mura, dalla grata, dalla bocca di lupo, ecc. ecc.; – era già stato da me preventivato e come probabilità subordinata, perché la probabilità primaria dal 1921 al novembre 1926, non era il carcere, ma il perdere la vita. Quello che da me non era stato preventivato era l'altro carcere, che si è aggiunto al primo ed è costituito dall'essere tagliato fuori non solo dalla vita sociale, ma anche dalla vita famigliare ecc. ecc.
Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo, non potevo preventivare che dei colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti, da dove meno potevo sospettarli (colpi metaforici, s'intende, ma anche il codice divide i reati in atti e omissioni; cioè anche le omissioni sono colpe o colpi). Ecco tutto. Ma ci sei tu, dirai tu. È vero, tu sei molto buona e ti voglio molto bene. Ma queste non sono cose in cui valga la sostituzione di persona e poi, ancora, la cosa è molto, molto complicata e difficile a spiegarsi completamente (anche per la quistione delle muraglie non metaforiche). Io, a dire il vero, non sono molto sentimentale e non sono le quistioni sentimentali che mi tormentano. Non che sia insensibile (non voglio posare da cinico o da blasé); piuttosto anche le quistioni sentimentali mi si presentano, le vivo, in combinazione con altri elementi (ideologici, filosofici, politici, ecc.) cosí che non saprei dire fin dove arriva il sentimento e dove incomincia invece uno degli altri elementi, non saprei dire forse neppure di quale di tutti questi elementi precisamente si tratti, tanto essi sono unificati in un tutto inscindibile e di una vita unica. Forse questa è una forza; forse è anche una debolezza, perché porta ad analizzare gli altri allo stesso modo e quindi forse a trarre conclusioni errate. 
...
Ti abbraccio teneramente.
Antonio

martedì 27 maggio 2014

Perché i sondaggi sbagliano

Paolo Natale 
Ebbene sì, i sondaggi sbagliano: ecco perché
Una parte importante di elettori è equidistante e decide solo all’ultimo 
Europa, 27 maggio 2014

Insomma, che dire? Ogni anno i risultati elettorali ci mostrano un panorama delle scelte dei cittadini completamente inaspettato, rispetto alle previsioni di voto. Merito certo dei sondaggi, che faticano sempre di più a catturare gli umori della popolazione, e ci forniscono la possibilità di stupirci delle scelte degli elettori, di accostarci alle nottate di voto con rinnovato interesse, non come una mera ratifica di quanto già si conosceva.
La sorpresa diventa dunque la cifra stilistica dei programmi elettorali. Anzi: le sorprese. Perché solitamente gli exit-poll differiscono un poco dalle rilevazioni demoscopiche che, ufficialmente, sono ferme a due settimane prima del voto; le proiezioni poi, quando sono ben fatte (come nel caso di domenica scorsa), ci danno un quadro ancora più diversificato, smentendo tutti i pronostici e gli stessi exit-poll che le precedono. Dunque, meno male che ci sono i sondaggi, che ci permettono di tener viva la nostra attenzione, senza dare nulla per scontato…
Scherzi a parte, anche quest’anno le rilevazioni demoscopiche ci hanno fornito stime largamente errate. Alcune, come quelle che su Europa ho argomentato nei giorni precedenti il voto, di direzione corretta (la certa vittoria del Pd) benché con scarti sicuramente meno significativi tra i due maggiori contendenti; altre totalmente insensate, con ipotesi di pareggio che sono risultate peregrine, alimentate dagli esperti del blog, che profetizzano addirittura una netta vittoria di Grillo e una débacle del Pd.
Tralasciando queste ultime informazioni prive di senso, è però giusto e onesto soffermarci sui sondaggi più seri, che pur fornendo una gerarchia tra le forze politiche che alla fine è stata quella corretta, non riescono nel contempo a stabilire i giusti margini dei distacchi tra i partiti. O meglio: le stime per tutti gli “altri” partiti risultano alla fine abbastanza in linea con ciò che poi accade realmente; ma fanno eccezione, in questa come nella consultazione dello scorso anno, le previsioni che riguardano le due maggiori forze politiche del nostro paese: Pd e M5S, appunto.
Cosa accade, dunque? Come vedremo meglio nelle analisi dei flussi elettorali che presenterò domani su questo giornale, esiste ormai in Italia un elettorato, stimabile attorno al 10 per cento dei votanti, che si pone in maniera equidistante nella scelta per uno dei due principali partiti (o movimenti). Questi elettori decidono di volta in volta, e generalmente nelle due settimane prima del voto, se privilegiare l’uno o l’altro, determinando infine la vittoria di uno dei due contendenti e la (parziale) sconfitta dell’altro.
Nelle ultime politiche ha scelto il M5S, in questa occasione ha al contrario votato in massa per il Pd di Renzi, determinando il suo indubbio trionfo.
Le motivazioni che portano alla scelta finale non sono peraltro particolarmente oscure. Si tratta di cittadini che aspettano, quasi con ansia, un vero cambiamento nella politica italiana, un forte anelito affinché i modi e i contenuti di quella politica cambino radicalmente.
L’anno scorso hanno trovato maggiormente in Grillo una sponda su cui fare leva, perché potesse scardinare le logiche sedimentate della casta; oggi si affidano per questo compito a Matteo Renzi, che pare incarnare in maniera corretta questo bisogno di cambiamento, all’interno però di un quadro di (parziale) continuità istituzionale. Difficile prevederne le scelte, benché non impossibile, anche perché spesso legate a comportamenti e messaggi che vengono veicolati proprio durante la campagna elettorale.
Certo, inutile nasconderselo, c’è anche una componente tecnica negli errori delle stime previsionali. Gli algoritmi che si adottano per ponderare i risultati cercano di correggere gli elementi di distorsione presenti in ogni sondaggio, e forse troppo spesso questi vanno a peggiorare le stime, invece che migliorarle. Lo scorso anno il Pd era stato decisamente sovrastimato e oggi, memori di quell’errore, molti analisti hanno stimato al ribasso le dichiarazioni degli intervistati che, in realtà, davano un responso “grezzo” molto simile a quanto poi accaduto. Tutte cose che ovviamente si conoscono dopo, e non prima dei risultati reali. Sento già le obiezioni di molti lettori: perché si fanno pagare? Perché non cambiano lavoro? Qualche giorno in miniera è quello che si meritano.
Ma è giusto anche sottolineare che la ricchezza, poco sfruttata, che si desume dalle ricerche demoscopiche non si limita alla sola previsione del comportamento di voto. Questo è invece quello che chiedono i giornali, i media più in generale, i politici stessi. Se non esce un numero, un vaticinio, sono tutti scontenti. Salvo poi prendersela quando la profezia non si avvera. È la sondaggite, bellezza, una malattia da cui non si guarisce…

domenica 25 maggio 2014

Ritratto di Germaine Necker (Madame de Staël)

Elisabeth Vigée-Lebrun, M.me de Staël come Corinna, 1808, Ginevra, Musée d'art et d'histoire

Benjamin Constant, Cécile (1811, pubblicata per la prima volta nel 1951)



Lorsque je rencontrai Madame de Malbée, elle était dans sa vingt-septième année. Une taille plutôt petite que grande et trop forte pour être svelte, des traits irréguliers et trop prononcés, un teint peu agréable, les plus beaux yeux du monde, de très beaux bras, des mains un peu trop grandes, mais d'une éclatante blancheur, une gorge superbe, des mouvements trop rapides et des attitudes trop masculines, un son de voix très doux et qui dans l'émotion se brisait d'une manière singulièrement touchante, formaient un ensemble qui frappait défavorablement au premier coup d'oeil, mais qui, lorsque Madame de Malbée parlait et s'animait, devenait d'une séduction irrésistible.
Son esprit, le plus étendu qui ait jamais appartenu à aucune femme, et peut-être à aucun homme, avait, dans tout ce qui était sérieux, plus de force que de grâce, et, dans tout ce qui touchait à la sensibilité, une teinte de solennité et d'affectation. Mais il y avait dans sa gaieté, un certain charme indéfinissable, une sorte d'enfance et de bonhomie qui captivait le coeur en établissant momentanément entre elle et ceux qui l'écoutaient une intimité complète, et qui suspendait toute réserve, toute défiance, toutes ces restrictions secrètes, barrières invisibles que la nature a mises entre tous les hommes et que l'amitié elle-même ne fait point disparaître tout à fait.

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Quando la incontrai, la signora de Malbée aveva ventisette anni. Statura piuttosto piccola che grande, troppo atticciata per essere snella, lineamenti irregolari e  troppo marcati, incarnato poco gradevole, i più begli occhi del mondo, bellissime braccia, le mani un po' grandette ma di abbagliante bianchezza, un seno stupendo, movimenti troppo rapidi e atteggiamenti troppo virili, un suon di voce dolcissimo che nell'emozione si spezzava in modo singolarmente toccante, componevano un insieme che a prima vista faceva sgradevole impressione; ma che quando la signora de Malbée parlando si scaldava, acquistava un'irresistibile seduzione.
Il suo spirito, che è il più vasto che mai donna o forse uomo abbia posseduto, aveva negli argomenti seri più forza che grazia; nelle cose attinenti alla sensibilità, un che di solenne e di affettato. Ma nella sua allegria c'era un certo fascino indefinibile, un che di puerile e di cordiale che cattivava il cuore e istituiva momentaneamente tra lei e quelli che l'ascoltavano una completa intimità, sopprimeva ogni riserva, ogni diffidenza, tutte quelle segrete restrizioni che sono invisibili barriere poste dalla natura fra gli uomini e che nemmeno l'amicizia è capace di sopprimere del tutto.
(trad. Piero Bianconi)

venerdì 23 maggio 2014

C'era una volta Berlinguer

Il leader dei 5 Stelle ha cercato di appropriarsi dell'eredità etica del segretario del Pci Berlinguer (il quale mai avrebbe usato i suoi toni violenti). «Il Movimento 5 Stelle è l'unico partito che porta avanti la questione morale di Berlinguer, siamo gli unici a portare avanti la sua eredità». Appena arrivato sul palco, l'ex comico è stato preso in braccio dal parlamentare Di Battista, come fece Benigni con il segretario comunista. (l'Unità, 24 maggio 2014)

Così a questo siamo arrivati, dissacrando dissacrando. O usando usando. In piazza san Giovanni. Con Grillo che arriva in braccio a Di Battista. Non è il caso di chiedersi, qui e ora, chi era veramente Berlinguer. L'ultimo grande segretario del Pci è stato tante cose. Un comunista democratico. Un eurocomunista. Un erede di Palmiro Togliatti. Un alleato della Democrazia cristiana. E via di questo passo. Certo non era prevedibile che diventasse una icona da consumare in pubblico, a fini elettorali. Lo sberleffo continua, certo. E Berlinguer viene ucciso per la seconda o la terza volta.
Era stato a lungo dimenticato o accantonato dai suoi stessi eredi per comprensibili ragioni. Comprensibili quanto taciute, il più delle volte. Il socialismo dal volto umano si era inabissato con il crollo del socialismo reale. Ancor più inopportuno per molti risultava a quel punto tirare in ballo il comunismo. Perché attraverso la figura di Berlinguer esibirne ancora il ricordo?
Adesso siamo al terzo momento di esclusione dalla scena dopo la morte fisica nel 1984. Berlinguer diventa un'icona contesa da schiere di eredi presunti. A questo punto è di moda soprattutto il politico onesto che aveva riportato in primo piano la questione morale. Perché no? C'è una logica in questa riabilitazione trionfale della memoria.
Tutti i salmi finiscono in gloria, allora? Non proprio. Quello che torna sulla scena è un personaggio che ha pur sempre legato il suo nome alla politica del compromesso storico. A suo modo Berlinguer voleva porre fine all'anomalia italiana del bipartitismo imperfetto. Moro in proposito aveva le idee più chiare ma è certo che per entrambi il problema era quello di porre fine all'esclusione del Pci dal potere governativo. Ora il nome di Berlinguer ritorna proprio mentre torna di attualità l'anomalia italiana  (*). Un bel paradosso.

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(*) Massimo Franco
Verso un bipolarismo destinato a riproporre l’anomalia italiana
Corriere della Sera, 24 maggio 2014

Al di là di chi arriverà primo, l’Italia si prepara a consegnare di sé all’Europa l’ennesima immagine anomala. Il bipolarismo che si sta delineando tra Pd e Movimento 5 Stelle spiazza le divisioni tradizionali tra destra e sinistra. E offre un Paese nel quale la protesta non solo promette di assumere dimensioni di massa ma trasversali e non catalogabili in modo tradizionale. Il solo fatto che non si sappia dove gli eletti che saranno portati a Strasburgo da Beppe Grillo siederanno, certifica la diversità italiana. Le parole preoccupate di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi per l’ascesa del movimento dell’ex comico sono il segno di una sorpresa e di un affanno che aumentano di ora in ora.
Può darsi che si rivelino esagerate, e che gli elettori rispondano ai loro appelli. Ma il solo fatto che il leader di FI inviti a disertare le urne pur di non votare Grillo, tradisce un’inquietudine profonda. Segnala un atteggiamento psicologico che ha introiettato il dubbio della sconfitta: politica, se non numerica. Conferma quanto la virulenza verbale e la strategia dello sfascio del M5S siano i sintomi di una crisi profonda del sistema, terrorizzato di non avere anticorpi sufficienti per fermare questa ondata nichilista. Anticipa soprattutto il ridimensionamento del centrodestra dopo anni di predominio. E dilata il vuoto lasciato dal berlusconismo al centro del sistema politico.
Il punto interrogativo è se il governo di Renzi e il suo partito, in apparenza orfani del principale avversario e quindi potenzialmente trionfanti, saranno in grado di riempirlo almeno in parte; fino a qualche settimana fa, sembrava così. In fondo, il cambio in corsa doloroso a Palazzo Chigi con Enrico Letta ha avuto come ragione forte quella di arginare un populismo galoppante. Se questo obiettivo viene mancato, rischia di aprirsi un problema politico non da poco per l’esecutivo: sebbene si tenda ad esorcizzare questo scenario. Dipenderà dal livello di astensionismo e dalla distanza che il Pd riuscirà a mettere tra i propri consensi e quelli del M5S, se, come pare, ci riuscirà.
Renzi invita ad «andare a prendere uno a uno i voti del centrodestra». E chiede di non astenersi, convinto che percentuali di partecipazione basse favoriscano Grillo. «Noi partiamo al secondo posto» rispetto alle politiche del 2013, mette le mani avanti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. «Il Pd sarebbe felice di sorpassare Grillo. Ma effettuare il sorpasso governando è molto complicato». È una cautela in parte scaramantica, in parte dovuta all’imprevedibilità del voto europeo. Tra l’altro, non tutto l’elettorato sarebbe informato che si può andare alle urne solo domani, e non anche lunedì come succede per le Politiche. Il premier si dice sicuro che Berlusconi manterrà i patti sulle riforme istituzionali «nonostante le Europee»: dando per scontato un insuccesso che potrebbe compromettere il percorso seguito finora.
La sensazione è che ci si avvii ad una situazione postelettorale tale da aumentare le tensioni e la precarietà della legislatura. Ma proprio per questo obbligherà la maggioranza a fare le riforme promesse, per non aumentare l’ipoteca di un populismo che predica il «tutti a casa» dei partiti, avanzando proposte suicide per l’Italia; e per non alimentare la percezione negativa che l’Europa ha ricominciato a nutrire nei confronti del nostro Paese. Un governo nato per dimostrare una capacità decisionale inusuale, si ritrova di colpo sulla difensiva: costretto a rivendicare il poco o il tanto che ha fatto, e a garantire che farà di più: anche se la «leggerezza» di alcuni ministeri imporrà cambiamenti immediati.

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Marco Belpoliti
La canottiera di Bossi
Guanda, Parma 2012, pp. 18-20

... In un articolo del 1975, lo scrittore Mario Soldati descrive la gestualità di Berlinguer soffermandosi sul ricamo delle mani, sempre simmetriche e sincrone: "Piatte e piegate al polso, ora le manine delimitano un piano logico, dividono due argomenti troppo facili a confondere: ora, invece, curvandosi entrambe a conca, l'una di qua e l'una di là, chiudono come un cerchio magico fatti o idee che vanno considerati globalmente". Soldati vuol suggerire l'incrollabile fede ideologica che è implicita in questo, le convinzioni che si celano dietro i gesti, che, seppur descritti a parole, ricordano da vicino quelli dei democristiani che argomentano in modo sottile, e cercano un contatto intellettuale, non solo emotivo, col loro uditorio. Sono, si potrebbe dire, dei mandarini, ovvero uomini di potere, che del loro potere non devono rendere conto agli ascoltatori, ma lo esercitano nel pubblico comizio attraverso il dispiegarsi delle frasi e dei ragionamenti, così che i destinatari del messaggio abbiano la sensazione di partecipare al farsi stesso delle idee, o almeno di condividerle, come quando si ascolta un insegnante, un professore o un intellettuale.
... Luigi Ghirri [...] ha scattato una serie d'immagini molto eloquenti in una delle ultime feste dell'Unità in cui il leader del Pci tenne il comizio conclusivo davanti alla folla dei militanti [...] La solitudine di Berlinguer è evidentissima. Si trova lontano dalla folla, distante e la sua corporeità sembra cancellata. Un'interpretazione, certo, ma come nel ritratto di Soldati, in questi scatti si comprende benissimo quale sia lo stile oratorio e gestuale del leader comunista.

Andrea Cortellessa sul libro di Belpoliti  http://www.sinistrainrete.info/cultura/1979-andrea-cortellessa-fenomenologia-della-canotta.html

La caduta di Silvio Berlusconi

Perry Anderson
The Italian Disaster 
London Review of Books, 22 May 2014

... In questo scenario, un paese è considerato diffusamente come il caso più acuto di malfunzionamento europeo. Dall’introduzione della moneta unica l’Italia ha segnato il dato economico peggiore di ogni altro stato dell’Unione: vent’anni di stagnazione virtualmente ininterrotta a un tasso di crescita ben inferiore a quello di Grecia o Spagna.  Il suo debito pubblico è superiore a 130 per cento del PIL. Tuttavia questo non è un paese di dimensione piccola o media della periferia recentemente acquisita dell’Unione. È uno dei sei membri fondatori, con una popolazione paragonabile a quella della Gran Bretagna e un’economia pari a metà di quella della Spagna. Dopo la Germania la sua base manifatturiera è la seconda maggiore d’Europa, dove è anche seconda in classifica nell’esportazione di beni capitali. Le emissioni del suo tesoro costituiscono il terzo maggiore mercato di titoli sovrani del mondo. Quasi metà del suo debito pubblico è detenuto all’estero: il dato paragonabile del Giappone è inferiore al 10 per cento. Nella sua combinazione di peso e di fragilità l’Italia è il vero anello debole della UE, dove questa potrebbe teoricamente spezzarsi.
Oggi è anche, non per caso, il solo paese in cui la delusione per lo svuotamento delle forme democratiche, non semplicemente un’indifferenza intorpidita ma una rivolta attiva ha scosso la dirigenza alle fondamenta, trasformando il panorama politico. Movimenti di protesta di un genere o dell’altro sono emersi in altri stati dell’Unione, ma finora nessuno approssima la novità o successo dell’ondata del Movimento Cinque Stelle in Italia come ribellione alle urne. E anche, a sua volta, l’Italia offre lo spettacolo più familiare di tutti i teatri di corruzione del continente e quello della sua più celebrata incarnazione nel miliardario che ha retto il paese per quasi metà della vita della Seconda Repubblica, a proposito del quale si sono spese più parole che riguardo a tutti i suoi avversari messi insieme. Le riflessioni sulla situazione propria dell’Italia partono inevitabilmente da Silvio Berlusconi. Che egli emerga tra i suoi pari per l’intreccio di potere e denaro è fuori discussione. Ma il modo in cui c’è riuscito può essere oscurato dal clamore della stampa estera al suo inseguimento, prime fra tutte le tonanti denunce dell’Economist e del Financial Times.
Due cose hanno reso straordinario Berlusconi. La prima che è egli ha invertito il percorso tipico dalla carica al profitto, ammassando una fortuna prima di arrivare al potere politico, che poi ha usato non tanto per accrescere la propria ricchezza, quanto per proteggerla, e proteggere sé stesso, da molteplici incriminazioni penali per il modo in cui l’aveva acquisita. La seconda è che la principale, anche se lungi dall’essere unica, fonte della sua ricchezza è un impero televisivo e pubblicitario che gli ha fornito un apparato di potere indipendente dalla carica e che, una volta entrato nell’arena elettorale, ha potuto essere convertito in una macchina di propaganda e in uno strumento di governo. Collegamenti politici – legami con il Partito Socialista a Milano e con il suo capo Craxi – sono stati cruciali per la sua ascesa economica, e in particolare per la costruzione della sua rete nazionale di canali televisivi. Ma anche se ha sviluppato considerevoli abilità, essenzialmente di comunicazione e manovra, da politico, in prospettiva è rimasto innanzitutto un uomo d’affari, per il quale il potere ha significato sicurezza e fascino, piuttosto che azione o progettualità. Anche se ha manifestato la sua ammirazione per la Thatcher e si è vantato di essere campione del mercato e della libertà economica, l’immobilismo delle sue coalizioni di centrodestra non si è mai differenziato molto da quello delle coalizioni di centrosinistra dello stesso periodo.
Che questo sia il vero addebito mosso contro di lui dall’opinione neoliberista della sfera anglofona si può vedere dal trattamento che quest’ultima riserva a due emblemi simmetrici della corruzione a capo di stati a est e a ovest dell’Italia. Per anni Erdogan – un amico stretto di Berlusconi – è stato destinatario di interviste, profili e articoli smaccati sul Financial Times e altrove, che lo hanno presentato come l’architetto illuminato di una nuova democrazia turca e un ponte vitale tra l’Europa e l’Asia, da accogliere con tutta la dovuta rapidità nell’Unione. Diversamente da Berlusconi, tuttavia, il cui ruolo è stato anodino in materia di libertà civili, Erdogan è stato ed è una minaccia a esse. Tuttavia quando è decollato un boom turco con picchi di privatizzazioni, sono contate poco le incarcerazioni di giornalisti, gli assassinii di dimostranti, gli aggiustamenti di processi, le intimidazioni brutali contro l’opposizione – per non parlare dei peculati all’ingrosso – da parte del suo regime.   Persino quando la dimensione di questa violenza e corruzione non ha potuto più essere ignorata, i dettagli degli scandali che travolgevano il paese sono stati in generale mantenuti al minimo e il biasimo è stato rapidamente dirottato sulla UE per non aver esteso un abbraccio redentore con sufficiente solerzia. Una volta pubblicati i nastri di Erdogan la Frankfurter Allgemeine ha commentato che in qualsiasi democrazia funzionante normalmente quelle erano prove dieci volte sufficienti per costringere l’intero governo ad andarsene. Nemmeno un sussurro paragonabile sul Financial Times. Commenti in larga parte simili potevano essere formulati su Rajoy e i suoi complici in Spagna, dove la pistola fumante è in realtà più evidente che nel labirinto di malefatte di Berlusconi. Ma Rajoy, diversamente da Berlusconi, è un intendente affidabile del regime neoliberista: nessuna richiesta di supplementi speciali sull’Economist per dettagliare i suoi misfatti, a proposito dei quali il giornale ha cura di dire il minimo possibile, in compagnia di Bruxelles e Berlino. ‘I leader e i dirigenti della UE hanno tenuto la bocca insolitamente chiusa sullo scandalo, se si considera l’importanza della Spagna per l’eurozona’, commenta Gavin Hewitt, il redattore della BBC per l’Europa. ‘La cancelliera tedesca Angela Merkel e altri hanno riposto molta fiducia nel signor Rajoy, che è considerato come un braccio sicuro per riforme dolorose mirate a resuscitare l’economia della Spagna’. Berlusconi avrebbe pagato per tale assenza di fiducia.
Nell’ora del trionfo di Berlusconi nella primavera del 2008, quando ha conquistato la sua terza e più decisiva vittoria elettorale, le opinioni negative all’estero sul suo conto gli importavano poco. Il fronte di centrodestra che aveva organizzato e riorganizzato dal 1994 – a quel punto composto dal Popolo della Libertà, una fusione del suo precedente partito con quello del suo alleato di lungo corso, l’ex fascista Gianfranco Fini, più la Lega Nord di Umberto Bossi che manteneva la sua base e identità separata – deteneva una maggioranza egemone in entrambe le camere del parlamento. Nel suo primo mese in carica è stato compiuto un passo parallelo alla linea Thatcher/Blair, la fase iniziale di una serie di cambiamenti a partire dalle scuole elementari e per finire con le università che tagliava la spesa per l’istruzione di circa 8 miliardi di euro nell’interesse dell’economia e della competizione, riducendo il numero degli insegnanti, imponendo contratti a termine, introducendo le imprese nei consigli, quantificando la valutazione della ricerca. Ma la misura dello zelo riformatrice del governo è stata tutta qui. Al primo posto nella sua agenda politica erano le leggi ad personam per proteggere Berlusconi dalle incriminazioni penali ancora pendenti sul suo capo; molte erano state svuotate tirando in lungo per arrivare alla prescrizione, altre mediante la depenalizzazione. Nel 2003 il suo governo aveva approvato una legge che assicurava l’immunità dai processi alle cinque più alte cariche dello stato, cassata dalla Corte Costituzionale sei mesi dopo. Nell’estate del 2008 è tornato all’attacco con una legge presentata dal suo braccio destro al ministero della giustizia, l’avvocato siciliano Angelino Alfano, che sospendeva i processi per le quattro più alte cariche dello stato.
Pochi mesi dopo la tempesta finanziaria oltre Atlantico ha colpito l’Europa, prima in Irlanda e poi in Grecia. In Italia la seconda repubblica era stata sin dall’inizio un flop economico, nonostante i migliori sforzi dei premier del centrosinistra per correggere la situazione (Giuliano Amato aveva tagliato e privatizzato, Romano Prodi aveva messo il paese nella camicia di forza del Patto di Stabilità). I tassi della crescita italiana sono precipitati nel corso degli anni ’90. Dopo il 2000 sono ristagnati in una media dello 0,25 del PIL l’anno. Nel giro di un anno dalla rielezione di Berlusconi nel 2008 gli spread avevano già cominciato ad allargarsi tra i rendimenti dei titoli tedeschi e italiani. Arrivati al 2009 la recessione era più grave che in qualsiasi altro paese dell’eurozona, con il PIL sceso di più di cinque punti percentuali. Per tenere a bada i mercati finanziari, pacchetti finanziari d’emergenza hanno ridotto il deficit di bilancio dell’Italia, ma con i tassi d’interesse in ascesa sul terzo debito pubblico maggiore del mondo, arrivate alla fine del 2010 il governo era arrivato economicamente alla canna del gas.
Politicamente se la passava poco meglio. Da marzo a ottobre del 2009 i titoli erano dominati da sensazionali rivelazioni sulle stravaganze sessuali di Berlusconi, dando un colore vistoso alla profetica descrizione di Giovanni Sartori del suo governo – mutuando un termine da Weber – come un sultanato.  Sempre dedito a vantare le sue prodezze in camera da letto, con l’arroganza che a quel punto lo incitava a sconfiggere anche l’età, ha abbandonato l’elementare prudenza, riempiendo le liste del partito di soubrettes e flirtando con minorenni, al punto di provocare una rottura pubblica con sua moglie, Veronica Lario. Presto ha cominciato a ricevere prostitute nella sua residenza romana. Amareggiata per non aver ottenuto un permesso di costruzione a Bari che le era stato promesso, una di loro ha raccontato le sue visite. Nella sua sfarzosa villa di Arcore, fuori Milano, erano messe in scena orge nello stile di fantasie aggiornate da diciottesimo secolo, donne vestite da suore – anche da infermiere e poliziotte – a danzare e a spogliarsi per la possessione collettiva. Quando una delle partecipanti, una giovane marocchina, è stata successivamente arrestata per furto a Milano, Berlusconi ha telefonato per assicurare il suo rilascio perché nipote di Mubarak. Poiché aveva meno di diciotto anni, ne è seguita una procedura legale a carico di Berlusconi. Anche se la vicenda non è stata tanto dannosa quanto il disastro in cui sarebbe presto incorso Dominique Strauss-Kahn, presidente del FMI e favorito nella corsa alla presidenza francese, Berlusconi è stato indebolito dallo svilimento della sua immagine. Ma per il momento è sopravvissuto.
Una minaccia più grave alla sua posizione è venuta da un’altra direzione. Per presunzione, alimentata dal successo elettorale, ha perso il senso del limite in politica, aveva umiliato Fini, che aveva pensato di essere suo successore ed era presidente della Camera. Nell’estate del 2010, rendendosi conto che non poteva più aspettarsi di essere l’erede naturale del centrodestra e cedendo alle lusinghe dell’opposizione che avrebbe potuto persino dimostrarsi il leader migliore di un centrosinistra responsabile, Fini ha disertato. Portando con sé un numero di deputati sufficiente a privare il governo di una maggioranza stabile, ha mancato di poco di provocarne la caduta in autunno. Nella primavera del 2011 anche gli elettori hanno abbandonato il governo con Berlusconi che ha perso il controllo anche di una roccaforte quale Milano.
Nel corso di quell’estate, con l’intensificarsi della crisi dell’eurozona, con la Grecia prossima all’insolvenza, è aumentata la pressione dei mercati obbligazionari sull’Italia. La Germania, affiancata dalla Francia e dalla Banca Centrale Europea, a quel punto non faceva un segreto della sua determinazione a spezzare ogni resistenza a misure draconiane d’austerità e a eliminare i leader che avessero esitato ad attuarle, ad Atene o a Roma. In agosto Trichet e Draghi – presidenti uscente ed entrante della BCE – hanno trasmesso a Berlusconi un virtuale ultimatum. Due mesi dopo Papandreou è stato costretto in un vertice della UE ad accettare altri tagli feroci alla spesa pubblica e a impegnarsi a privatizzazioni generalizzate. Nel panico per la marea di rabbia popolare contro di esse – il presidente della Grecia era stato costretto ad abbandonare il palco a Salonicco nel corso della Festa Nazionale – ha annunciato un referendum al riguardo ed è stato convocato a Cannes seduta stante dalla Merkel e da Sarkozy e gli è stato detto di cancellare una simile iniziativa. Una settimana dopo si è dimesso. Nel giro di tre giorni Berlusconi lo ha seguito.
Le dinamiche della caduta di Berlusconi, tuttavia non sono state le stesse. In Grecia Papandreou presiedeva a un diffuso immiserimento su ordini di Berlino, Parigi e Francoforte che aveva scatenato massicce proteste sociali. Fino alla sua improvvisa idea di un referendum era stato uno strumento perfettamente accettabile della volontà dell’Unione, un atteggiamento confermato dalla velocità con cui aveva obbedito alla Merkel e a Sarkozy e aveva prontamente ritirato la sua proposta. Si è dimesso perché la sua posizione era diventata insostenibile all’interno. In Italia non era in corso né un impoverimento né una mobilitazione popolare. La maggioranza di Berlusconi alla Camera era a quel punto limitatissima e alcuni dei suoi deputati si stavano impaurendo per l’aumento degli spread. Me egli resta in pieno controllo del Senato e doveva ancora essere messo al tappeto in tribunale. La sua posizione interna era sostanzialmente più forte di quella di Papandreou. Nella UE in generale, tuttavia, l’ostilità nei suoi confronti era molto maggiore poiché rappresentava un imbarazzo di lungo corso per la sua classe politica; e la decisione di Berlino e Francoforte di liberarsene, in quanto ostacolo alla necessaria purga dell’economia italiana e all’ordine sociale, più inesorabile.
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Per la sua cacciata, tuttavia, era necessario un meccanismo per collegare l’erosione della sua posizione in patria, non ancora completa, con l’assoluta avversione nei suoi confronti all’estero. Per sua sfortuna esso era già pronto e adatto. Meno notata di altri mutamenti prodotti dalla Seconda Repubblica, c’era stata una forte crescita del ruolo della presidenza negli affari politici dell’Italia. Durante il regno della Democrazia Cristiana nella Prima Repubblica, quando un solo partito dominava sempre la legislatura, questa carica in larga misura cerimoniale raramente aveva avuto qualche importanza. Ma quando coalizioni politiche rivali hanno cominciato a confrontarsi per il potere nella Seconda Repubblica, si è aperto un nuovo spazio di manovra per la presidenza. Scalfaro – in carica al Quirinale tra il 1992 e il 1999 – è stato il primo a utilizzarlo, rifiutandosi di sciogliere il parlamento quando Berlusconi aveva perso la sua prima maggioranza nel 1994, agevolando  invece al potere un mosaico di centrosinistra, per dargli tempo di mettere insieme le proprie forze per una vittoria alle urne con Prodi l’anno successivo.
Ora il presidente era, come Scalfaro, un ex ministro dell’interno, Giorgio Napolitano. Berlusconi aveva sostenuto l’elezione di Napolitano nel 2006 e aveva motivo di ritenere di aver fatto una scelta sensata nell’aiutare a salire al Quirinale questo veterano della classe politica tradizionale. Un ‘Vicario di Bray’ italiano, nella sua lunga carriera aveva esibito un principio fisso, l’adesione a qualsiasi tendenza politica mondiale apparisse vincente al momento. L’inizio di una lunga sequenza c’era stato nei suoi anni da studente, quando aveva aderito al Gruppo Universitario Fascista, in un periodo in cui l’Italia inviava truppe a unirsi ai nazisti nell’attacco contro la Russia. Una volta caduto il fascismo Napolitano ha optato per la forza in arrivo del comunismo. Iscrivendosi al PCI alla fine del 1945 ne ha poi rapidamente scalato i ranghi, arrivando al Comitato Centrale in poco più di un decennio. Quando le truppe e i carri armati sovietici hanno represso la Rivolta Ungherese nel 1956, egli ha applaudito. ‘L’intervento sovietico è stato il contributo decisivo non solo per impedire che l’Ungheria finisse nel caso e nella controrivoluzione, e difendendo gli interessi militari e strategici dell’URSS, ma anche salvando la pace nel mondo’, ha dichiarato al Congresso del Partito in quel novembre. Salutando l’espulsione di Solzhenitsyn dalla Russia nel 1964 ha dichiarato: “Solo commentatori sciocchi e faziosi possono evocare lo spettro dello stalinismo, trascurando il modo in cui Solzhenitsyn ha portato le cose a un punto di rottura’. A quel punto era il braccio destro di Giorgio Amendola, dopo la morte di Togliatti, la figura più formidabile del PCI. Come il suo patrono, era un inflessibile disciplinatore del dissenso nel partito, votando senza esitazioni la cacciata dal partito del gruppo del Manifesto per aver parlato fuori luogo contro l’invasione della Cecoslovacchia. Con gettoni sia nella segreteria sia nell’ufficio politico, era diffusamente visto come il successivo leader del PCI.
Nell’occasione il posto è andato a Enrico Berlinguer, come figura meno divisiva. Ma Napolitano è rimasto come ornamento di spicco del partito mentre passava all’eurocomunismo. Nei tardi anni ’70 è stato scelto come primo inviato del PCI per rassicurare gli Stati Uniti sulla sua affidabilità atlantica, diventando a tempo debito il ‘comunista preferito di Kissinger’, per usare le parole soddisfatte del New York Times. Arrivati agli anni ’80 il trasferimento dell’alleanza a un nuovo feudatario era completo. Il Terzo Reich un brutto ricordo, l’URSS in declino, gli USA erano a quel punto la potenza da coltivare. Responsabile dei rapporti con l’estero del PCI si sarebbe preso cura di ammorbidire le relazioni con Washington molto dopo che il partito era scomparso. Una volta presidente ha fatto di tutto per ingraziarsi sia Bush sia Obama.
In patria il fallimento della scommessa del PCI di raggiungere un ‘compromesso storico’ con la Democrazia Cristiana che gli avrebbe consentito l’ingresso nel governo e l’ascesa, invece – in mezzo una corruzione sempre più sfacciata – del Partito Socialista di Craxi come alleato chiave della DC ha indotto Berlinguer a fare una svolta a sinistra. Denunciando la degenerazione venale del sistema politico, ha diffuso un sonoro appello a far pulizia nella vita politica. Napolitano ha reagito rabbiosamente, accusandolo di isolazionismo settario e di ‘vuote invettive’. I rapporti erano sempre stati freddi tra i due uomini. Ma era in gioco qualcosa di più che una mera rivalità personale. Napolitano guidava la corrente più a destra nel PCI dell’epoca, i miglioristi che avvertivano una certa affinità con Craxi e non volevano ostilità con lui. La loro base principale era a Milano, dove la macchina di Craxi dominava la città. Lì, a metà degli anni ’80, pubblicavano un giornale, Il Moderno, non solo finanziato da Berlusconi ma che plaudiva ai suoi rivoluzionari successi nel modernizzare i media e nel fare di Milano la capitale televisiva d’Italia. Si era nel 1986, quando Craxi era primo ministro. Un tribunale avrebbe poi giudicato la holding Fininvest di Berlusconi colpevoli di finanziare illegalmente i miglioristi. In febbraio, durante i preparativi per un referendum contro il nucleare in Italia, il giornale del PCI ha rifiutato un articolo a favore del nucleare di Giovanni Battista Zorzoli, uno dei seguaci di Napolitano. Furioso, Napolitano ha preteso la testa del direttore. Nel 1993 Zorzoli è finito in manette, condannato a quattro anni e mezzo di carcere per corruzione quando era alto dirigente della compagnia statale italiana dell’elettricità.  
Non molto tempo dopo, Napolitano è diventato ministro dell’interno nel governo di centrosinistra del 1996. Era la prima volta che qualcuno di sinistra fosse mai stato alla guida di tale ministero. Il coinvolgimento della polizia e degli apparati dei servizi segreti italiani nella cosiddetta ‘strategia della tensione’ [in italiano nel testo – n.d.t.] – una serie di attentati dal massacro di Piazza Fontana a Milano nel 1969 a quello alla stazione ferroviaria di Bologna nel 1980 -  era ormai confermato da molto tempo, ma non era mai stato indagato. Ogni nervosismo riguardo al fatto che l’arrivo al ministero del comunista di un tempo è stato presto acquietato. Napolitano ha assicurato i suoi subordinati che non avrebbe ‘cercato scheletri negli armadi’. Nessuna rivelazione deplorevole ha macchiato il suo periodo in carica. E’ stato nominato senatore a vita nel 2005. Diventato presidente della repubblica un anno dopo ha lamentato pubblicamente che Craxi – che era morto in esilio in Tunisia dopo essere stato condannato in contumacia a 27 anni di carcere per una corruzione colossale – era stato trattato scorrettamente, prendendosi il disturbo di elogiare il suo ruolo costruttivo di statista.
Non ha avuto lo stesso riguardo per Berlusconi, considerandolo con condiscendenza benevola – anche con una certa giustizia – come in realtà per nulla un politico, nel senso in cui lo erano stati gli uomini eminenti della Prima Repubblica. I due uomini comunque non potevano essere più opposti quanto a stile. La correttezza cerimoniale di Napolitano era in studiato contrasto con la spudorata spacconeria di Berlusconi. Ma condividevano un passato comune nello snodo di legami e simpatie che circondava Craxi a Milano, e un comune interesse a stabilizzare quelli che entrambi consideravano i potenziali vantaggi della Seconda Repubblica: un sistema politico bipolare in stile anglosassone, confinato a un centrodestra e un centrosinistra, liberato dall’ostilità nei confronti del mercato del suo guardiano transatlantico. Per ragioni proprie ciascuno, inoltre, temeva la perseveranza dei pubblici ministeri nello scovare accuse contro il leader più popolare del paese e il risentimento di minoranze irresponsabili nell’insistere su di esse.
Per Berlusconi si trattava, naturalmente, di minacce esistenziali. Per Napolitano erano semplicemente divisive, proprio come lo era stato il moralismo di Berlinguer, compromettendo sconsideratamente l’equilibrio del consenso moderato di cui il paese aveva bisogno. E’ stato più che disposto ad aiutare Berlusconi a proteggersi da questi problemi, firmando senza esitazione la legge del Lodo Alfano del 2008 che garantiva a Berlusconi, come primo ministro, e a sé stesso, da presidente, l’immunità dai processi; e quando la legge è stata dichiarata incostituzionale, apponendo il suo timbro con uguale velocità sulla legge sostitutiva approvata nel 2010, sul ‘legittimo impedimento’ [in italiano nel testo – n.d.t.] che consentiva ai ministri di evitare i processi invocando i loro pressanti doveri di pubblico servizio, legge a sua volta dichiarata incostituzionale nel 2011. Napolitano è stato criticato pubblicamente per la sua inopportuna approvazione della prima da parte di Ciampi, il suo predecessore alla presidenza, e non era tenuto neppure a lasciar passare la seconda; piuttosto era vero il contrario come doveva dimostrare il seguito legale di entrambe. Le azioni di Napolitano, tuttavia, si sono accordate con le aspettative di Berlusconi di un modus vivendi tra loro, sulle cui basi quest’ultimo lo aveva appoggiato per la presidenza. Un’altra espressione pregnante di tale accordo si è avuta quando la diserzione di Fini ha privato il governo Berlusconi della maggioranza alla Camera e l’opposizione ha discusso un voto di sfiducia, con i voti in mano per far cadere il governo. Nel 2008 Prodi era stato in una situazione simile dopo che Berlusconi aveva comprato voti al Senato sufficienti a farlo cadere, un episodio per cui è attualmente incriminato per aver pagato a un solo senatore tre milioni di euro per cambiare cappotto, una mazzetta che il beneficiario ha confessato. Allora Napolitano aveva perso poco tempo – meno di due settimane – per usare la sua prerogativa presidenziale di sciogliere il parlamento e convocare nuove elezioni, che avevano prodotto una valanga a favore di Berlusconi. Questa volta, comunque, Napolitano ha persuaso Fini a fermarsi per più di un mese mentre veniva approvata una legge di bilancio, garantendo a Berlusconi il tempo necessario per comprare il pugno di deputati necessario per ripristinare la sua maggioranza. 
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Questo è stato, comunque, l’ultimo favore che Napolitano ha potuto accordare. Si stava preparando a prendere le cose nelle proprie mani. Nella primavera del 2011 il governo ha annunciato che si stava unendo all’attacco alla Libia guidato dagli statunitensi, al quale la Lega Nord si opponeva assolutamente, minacciando di farlo cadere se lo avesse fatto. Napolitano la sapeva più lunga: le aspettative di Washington erano più importanti delle sottigliezze della costituzione. Senza alcun voto in parlamento, e nemmeno un dibattito al suo interno, ha mandato l’Italia in guerra strappando il sostegno degli ex comunisti all’invio dell’aviazione del paese a bombardare un vicino con il quale aveva firmato un Trattato di Amicizia, Cooperazione e Alleanza Militare, ratificato da una schiacciante maggioranza alla Camera – ex comunisti compresi – solo due anni prima.
Arrivati all’estate, incoraggiato dalla crescente adulazione sui media nei suoi confronti come rocca della repubblica, e con l’incoraggiamento di Berlino, Bruxelles e Francoforte, aveva deciso di disfarsi di Berlusconi. La chiave per rimuoverlo agevolmente consisteva nel trovare un sostituto che soddisfacesse questi partner decisivi e la dirigenza del mondo degli affari in Italia. Fortunatamente la figura ideale era a portata di mano: Mario Monti, ex commissario UE, membro del Gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale, consigliere anziano della Goldman Sachs e allora presidente dell’Università Bocconi. Monti aveva per qualche tempo atteso proprio la situazione che a quel punto si presentava. ‘I governi italiani sono in grado di prendere decisioni dure’, aveva confidato all’Economist nel 2005, ‘solo se sono soddisfatte due condizioni: devono esserci sia un’emergenza visibile sia una forte pressione dall’esterno’. All’epoca, lamentava, ‘tale momento della verità non c’è’. Ora era arrivato.
Già da giugno o luglio, in completa segretezza, Napolitano aveva preparato Monti ad assumere il governo. Nello stesso periodo aveva commissionato al capo del maggior gruppo bancario italiano, Corrado Passera, l’elaborazione di un piano economico confidenziale per il paese. Passera era un ex assistente dell’arcinemico politico di Berlusconi e rivale in affari Carlo De Benedetti, proprietario di La Repubblica e di L’Espresso, che era al corrente delle mosse di Napolitano. In urgente corsivo il documento di 196 pagine di Passera proponeva una terapia shock: cento miliardi di euro di privatizzazioni, tassa sulla casa, imposte sui capitali, un’impennata dell’IVA. Napolitano, al telefono con la Merkel e indubbiamente con Draghi, aveva a quel punto pronti il piano e l’uomo per cacciare Berlusconi. Monti non si era mai candidato alle elezioni e anche se un seggio in parlamento non è indispensabile per l’investitura a primo ministro, sarebbe stato d’aiuto averne uno.
Non c’era tempo da perdere: il 9 novembre, prelevandolo dalla Bocconi, Napolitano ha nominato Monti senatore a vita, con l’applauso della stampa finanziaria mondiale. Sotto minaccia della distruzione da parte dei mercati obbligazionari nel caso si fosse opposto, Berlusconi ha capitolato e nel giro di una settimana Monti ha giurato da nuovo governante del paese, alla guida di un governo non eletto di banchieri, uomini d’affari e tecnocrati. L’operazione che lo ha installato è un’illustrazione espressiva di che cosa possono significare oggi in Europa le procedure democratiche e il primato della legge. E’ stato tutto assolutamente incostituzionale. Il presidente dell’Italia dovrebbe essere il guardiano imparziale di un ordine parlamentare, che non interferisce con le decisioni di quest’ultimo salvo quando violano la costituzione, come questo presidente ha segnatamente mancato di fare. Non ha il potere di cospirare, alle spalle di un premier eletto, con persone di sua scelta, nemmeno in parlamento, per formare un governo di suo piacimento. La corruzione del mondo degli affari, della burocrazia e della politica è stata a quel punto aggravata dalla corruzione della costituzione.
All’epoca ciò che era accaduto quell’estate dietro gli arazzi presidenziali era rimasto celato. Sarebbe venuto alla luce solo quest’anno per bocca dello stesso Monti, un ingenuo in queste faccende, provocando balbettanti smentite di Napolitano. Contemporaneamente la reazione del sistema al nuovo governo spaziava dal sollievo all’esultanza. Finalmente – nella visione diffusa dei commentatori dentro e fuori dal paese – c’era per l’Italia una seconda occasione per voltar pagina, occasione mancata dopo il crollo della Prima Repubblica. Finalmente era al timone un governo onesto e competente, impegnato non solo a serie riforme del tanto che era sbagliato in Italia – mercati del lavoro rigidi, pensioni insostenibili, università nepotiste, restrizioni corporative ai servizi, assenza di competizione industriale, privatizzazioni insufficienti, ingorgo della giustizia, evasione fiscale – ma anche in grado di dominare le tempeste finanziarie che aggredivano il paese. Una nuova Seconda Repubblica, quella vera, poteva ora sorgere dopo vent’anni di messinscene. Tagli profondi alla spesa pubblica, dure misure fiscali e l’inizio di cambiamenti alla disastrosa legge sul lavoro degli anni ’70 sono stati i primi, apprezzati passi per ripristinare la fiducia nel paese.
Viste da un’altra angolazione c’erano in effetti somiglianze tra la congiuntura dei primi anni ’90 quando Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, era stato chiamato a difendere il forte da premier nel pieno della crisi di Tangentopoli. Ma non erano per nulla rassicuranti. Il governo Monti somigliava al governo Ciampi nella composizione e nelle intenzioni. Ma molto era cambiato nel frattempo, non ultimo l’ambiente da cui provenivano le figure di spicco del nuovo ordine: Monti e il suo garante a Francoforte, Draghi. Nel 1994 Berlusconi si era presentato da innovatore da un passato imprenditoriale e la cui vittoria avrebbe sepolto la corruzione e il disordine della classe politica della Prima Repubblica, mentre egli in realtà doveva la sua fortuna prevalentemente a essi.  Nel 2011 la crisi che strozzava l’Italia e l’Eurozona era stata scatenata da una massiccia ondata di speculazioni finanziarie e di manipolazioni di derivati su entrambe le sponde dell’Atlantico. Nessun operatore era più famigerato per la sua parte in ciò che la stessa società sul cui libro paga avevano figurato Monti e Draghi. La Goldman Sachs, che si era guadagnata negli Stati Uniti il nomignolo di ‘piovra vampiro’, aveva assecondato la falsificazione dei conti pubblici greci e poi era stata accusata di frode dalla Commissione Titoli e Scambi (SEC) versando mezzo miliardo di dollari per transare la causa extragiudizialmente.  Attendersi un taglio netto con il passato da simili funzionari era poco più realistico che credere che il patrocinio di Craxi non avrebbe lasciato nessun segno su Berlusconi.
Altri ricordi del passato erano non meno impressionanti. Nell’estate del 2012 è emerso che Napolitano era intervenuto per bloccare il potenziale interrogatorio di Nicola Mancino, ministro democristiano dell’interno nel 1992 quando il magistrato di Palermo Paolo Borsellino era stato assassinato dalla mafia. Mancino era uno dei quattro ministri dell’interno – Scalfaro era stato un altro – che ricevevano mensilmente fondi neri dal servizio segreto SISDE. La negazione di Mancino di aver incontrato Borsellino poco prima della sua morte, nonostante prove del contrario, non era mai stata chiarita ed era in corso una nuova indagine ufficiale sui collegamenti tra stato e mafia, che minacciava di metterlo a confronto con due altri ministri del periodo che lo avevano smentito. In grande agitazione ha telefonato al Quirinale e ha implorato protezione dal braccio destro di Napolitano per gli affari legali, Loris D’Ambrosio. Lungi dall’essere respinto gli è stato che il presidente era molto preoccupato per lui. A tempo debito lo stesso Napolitano ha telefonato a Mancino, inconsapevole che il telefono di quest’ultimo erano intercettato come parte dell’indagine.
Quando le trascrizioni degli scambi tra Mancino di D’Ambrosio sono state pubblicate sulla stampa, assieme alla notizia che i nastri delle conversazioni dello stesso presidente con Mancino erano in possesso del magistrato inquirente, Napolitano ha invocato l’assoluta immunità per la sua carica e, in stile Nixon, ha preteso che i nastri fossero distrutti. Il fratello di Borsellino, Salvatore, ha chiesto la sua messa in stato d’accusa; poiché era implicata chiaramente un’ostruzione alla giustizia, negli Stati Uniti ci sarebbero state basi per essa. In Italia un esito simile era impensabile. La classe politica e i media hanno immediatamente serrato i ranghi a difesa del presidente, come era stato fatto quando Scalfaro aveva usato il suo maggiordomo per soffocare lo scandalo del SISDE. L’assistente di Napolitano, l’Ehrlichman dell’affare, è morto di attacco cardiaco nel bel mezzo del putiferio. Come accade spesso Marco Travaglio, probabilmente il più grande giornalista d’Europa, è stato l’unico a chiamare i fatti con il loro nome; nel suo libro ‘Viva il Re!’, pubblicato l’anno scorso, ha tracciato un’esauriente atto d’accusa circa i precedenti di Napolitano in carica, in seicento pagine di documentazione incriminatrice. Altrove, di fronte al pericolo per la sua posizione, il coro dei sicofanti attorno al presidente – il cui volume andava crescendo da un certo tempo – ha raggiunto un crescendo isterico.