Michel de Cubières, 1792, cit. da Giovanni Damele, La città delle api, Il Foglio quotidiano, 31 maggio 2014, poi pubblicato nel blog L'alveare contento: http://alvearecontento.blogspot.it/2014/06/i-vizi-e-le-virtu-dellalveare.html
Guerra e pace
Libro terzo, parte terza, capitolo XX
Mosca, intanto, era deserta. C'era ancora
della gente, più o meno la cinquantesima parte della popolazione che ci
abitava prima, ma la città era deserta. Era deserta come un'arnia che,
rimasta senza regina, sta per morire.
In un'arnia senza regina non c'è più vita, ma, a uno sguardo
superficiale, essa sembra viva né più né meno di tutte le altre.
Con la stessa festosità, nel caldo sole del pomeriggio, le api
ronzano intorno a un'arnia senza regina, come intorno alle altre arnie
vive; non meno delle altre essa odora da lontano di miele, e ne escono e
vi entrano a volo le api. Ma basta osservarla con attenzione per capire
che in quell'arnia ormai non c'è più vita. È diverso il modo di volare
delle api; un odore, un rumore diverso colpiscono l'attenzione
dell'apicultore. E quando egli batte sulla parete dell'arnia malata,
invece dell'istantanea, unanime risposta di decine di migliaia di api
che ronzano col posteriore minacciosamente eretto e dimenano le alucce
producendo quel suono aereo, vitale, gli rispondono ronzii isolati, che
sordamente riecheggiano da un
punto all'altro dell'arnia vuota. Dal foro di
entrata non spira più, come prima, il profumo inebriante di miele e di
veleno, non ne emana più il tepore dell'affollamento, ma all'odore del
miele si mescola un sentore di vuoto e di marcio. Davanti all'apertura
non ci sono più le guardiane pronte a morire per difenderla, coi
posteriori eretti, le guardiane che suonano l'allarme. Non c'è più quel
brusio regolare e sommesso, simile al rumore dell'ebollizione, del
lavoro palpitante, ma si sente il rumore disordinato e confuso del
disordine. Dentro l'arnia e fuori dell'arnia escono ed entrano, volando
in modo timido e furtivo, le nere, allungate api predatrici, unte di
miele; non pungono, ma evitano il pericolo. Prima le api volavano dentro
soltanto cariche di bottino, e ne uscivano vuote, mentre adesso volano
fuori con il bottino. L'apicultore apre la saracinesca di sotto e scruta
nella parte inferiore dell'arnia. Invece dei neri grappoli di pingui
api ammansite dal lavoro, appese l'una alle zampette dell'altra, intente
a filare la cera nell'incessante brusio del lavoro, sul fondo e sulle
pareti dell'arnia gironzolano smarrite, in varie direzioni api
sonnolente e rinsecchite. Invece del lindo piancito spalmato di pròpoli e
spazzato dalle ali delle api, sul fondo stanno sparse briciole di cera,
escrementi di api, api semimorte che muovono appena le zampette, e
altre definitivamente morte che nessuno s'è curato di portar via.
L'apicultore, allora, apre la saracinesca superiore ed esamina la
sommità dell'arnia. Invece delle file compatte di api che aderiscono a
tutti gli intervalli dei favi e scaldano i figli, vede l'ingegnoso,
complicato lavoro dei favi, ma il modo in cui si svolge non è più quello
di prima. Tutto è trascurato e sporco. Le nere api depredatrici
guizzano rapide e furtive in mezzo al lavoro; le api dell'arnia,
rinsecchite,
corte, flaccide, come invecchiate, si
trascinano lentamente senza dar fastidio a nessuno, senza desiderare
nulla, smarrita ormai la coscienza della vita. I fuchi, calabroni e
farfalle, volando, vanno a picchiare contro le pareti dell'arnia. Qua e
là fra pezzi di cera con larve morte e miele, ogni tanto si sente un
rabbioso brontolio; qua e là due api, per vecchia abitudine e per
istinto, tentano di pulire il fondo dell'arnia e trascinano
diligentemente, con estremo sforzo, un'ape morta o un calabrone, ma non
sanno neanche loro perché lo fanno. In un altro angolo altre due vecchie
api si battono pigramente, o si puliscono, o si nutrono a vicenda,
senza neanche sapere se lo facciano amichevolmente od ostilmente. In un
terzo punto una folla di api, spingendosi a vicenda, assale qualche
vittima e la colpisce e la soffoca. E l'ape indebolita o uccisa casca
dall'alto nel mucchio di cadaveri leggera, lenta, come una piuma.
L'apicultore rimuove i due favi centrali per guardare il nido. Invece
dei neri circoli compatti di migliaia di api accucciate schiena a
schiena, vigilanti sui supremi misteri della riproduzione, vede
centinaia di carcasse di api avvilite, semimorte e sonnolente. Quasi
tutte sono già morte senza neanche accorgersene, accucciate sul sacro
tesoro che custodivano e che ormai non esiste più. Da esse emana odore
di putrefazione e di morte. Solamente alcune si muovono, si alzano,
fiaccamente volano e si posano sulla mano del nemico, senza la forza di
pungerlo: le altre, morte, scivolano giù leggere come scaglie di pesce.
L'apicultore chiude la saracinesca, fa segno con il gesso sull'arnia e,
scelto il momento, la sfascia e la brucia.
Così era vuota Mosca mentre Napoleone, stanco, inquieto e accigliato,
camminava avanti e indietro lungo il Kamerkolležskij Val [bastione del Collegio di Camera], in attesa di
quell'esteriore, ma indispensabile osservanza del cerimoniale, ossia il
presentarsi di una deputazione di moscoviti.
Nei vari angoli di Mosca, ormai, la gente continuava a muoversi e a
camminare senza chiedersi il perché, senza alcun motivo, conservando le
vecchie abitudini, ma senza rendersi conto di quello che faceva.
Quando, con la dovuta cautela, fu annunciato a Napoleone che Mosca
era vuota, egli guardò con ira colui che gli dava la notizia e,
voltandogli le spalle, continuò a camminare su e giù in silenzio.
«La carrozza,» ordinò.
Si sedette in carrozza accanto all'aiutante di servizio e si recò al sobborgo.
«Moscou déserte. Quel événement invrainsemblable,» diceva fra sé.
Non entrò in città, ma si fermò in una locanda del sobborgo di Dorogomilovo.
Le coup de théâtre avait raté.
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