Gianpasquale Santomassimo
Omicidio Gentile, cinque obiezioni
il manifesto Alias, 11 maggio 2014
E' singolare che di fronte a un omicidio politico apertamente
e quasi orgogliosamente rivendicato dai comunisti siano sorti
tanti dubbi e ipotesi stravaganti. Si parla dell’uccisione di
Giovanni Gentile, eseguita da un comando dei GAP il 15 aprile 1944.
Aveva cominciato nel 1985 Luciano Canfora (La sentenza,
edizioni Sellerio), che però era partito da un problema reale:
l’aggiunta finale di Girolamo Li Causi a un articolo di condanna di
Gentile scritto da Concetto Marchesi e che poteva suonare appunto
come una sentenza di morte. Poi si sono aggiunti nel tempo testi di
vari autori che hanno finito per dar vita a un cospicuo filone di
letteratura complottistica.
Il massiccio libro di Luciano Mecacci (La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile,
Adelphi, pp. 520, euro 25,00), se da un lato suscita sincera
ammirazione per lo sforzo fatto dall’autore di ricostruire tutte le
possibili piste che si dipanano attorno all’evento, sia pure solo
ipotetiche e debolmente indiziarie, dall’altro lascia nel lettore
una sensazione inevitabile di inconcludenza. Alla fine non
veniamo a sapere in realtà molto più di quanto non sapessimo
sull’evento in sé, se non su dettagli secondari, anche se
apprendiamo moltissimo su personaggi come Mario Manlio Rossi,
forse in contatto con i servizi segreti inglesi, e sulla sua
inimicizia con Eugenio Garin; e sullo scozzese John Purvis,
anch’egli forse reclutato dai servizi, che nel 1938 venne a Firenze
e prese appunti su molti intellettuali fiorentini, in un taccuino
cui dette il nome di «Ghirlanda fiorentina» (di qui il titolo del
libro).
La corposa indagine di Mecacci prende avvio da un cenno di Cesare Luporini a «cose che forse ancora non
si possono dire» riguardo all’omicidio Gentile, pronunciato in una
intervista radiofonica del 1989. Purtroppo non sapremo mai a cosa
in particolare volesse riferirsi. Sappiamo che Luporini, legato da
affetto e riconoscenza nei confronti di Gentile, si era recato
a trovare il più anziano filosofo nella sua villa per tentare di
dissuaderlo dall’esposizione vistosa in difesa di Mussolini e della
RSI a cui si era prestato.
Gentile del resto era stato detentore di un immenso potere nella
cultura italiana nel tempo del fascismo: sul piano politico,
accademico, editoriale. Attraverso l’Enciclopedia italiana aveva
intrattenuto rapporti con quasi tutta l’intellettualità italiana,
anche non fascista, con attitudine certamente improntata
a liberalità, ma che era stata in verità caratteristica della
politica culturale fascista nei suoi aspetti più coinvolgenti: lo
stesso atteggiamento era stato tenuto da Gioacchino Volpe
nell’organizzazione degli studi storici e in maniera ancor più
spregiudicata da Giuseppe Bottai, soprattutto negli anni di
«Primato». Non meraviglia quindi che il meglio della nostra cultura
avesse avuto, e in parte mantenesse ancora, rapporti di complessa
vicinanza con Gentile. E quindi non stupisce che moltissimi
intellettuali si trovino chiamati in causa in questo libro, anche
se il nesso a volte sfugge: non solo Luporini e Garin, ma anche
Antonio Banfi, Guido Calogero, Ranuccio Bianchi Bandinelli,
e stranieri ai margini del quadro come Bernard Berenson e Igor
Markevitch. E c’era anche l’immancabile Licio Gelli, che
indubbiamente si trovava in Toscana e trafficava tra
repubblichini e alleati.
Ovviamente si abbonda nell’accusa agli intellettuali di aver voltato
gabbana (cosa che in realtà può dirsi per la stragrande maggioranza
della popolazione italiana) e si asserisce più volte, sulla scorta
per la verità di altri autori, che il silenzio degli intellettuali
è una conferma della loro implicazione, che è argomentazione dalla
logica decisamente premoderna.
L’autore fa ricorso alla metafora dei cerchi nell’acqua, «per cui
si parte da un cerchio interno… da cui si irradia il movimento dei
cerchi più periferici, fino ad arrivare all’ultimo cerchio, quello
dei gappisti, che infine provoca l’onda distruttiva». Quindi ci sono
esecutori, mandanti, complici. Se la prima categoria risulta fin
dall’inizio pacifica e rivendicata, le altre due, e soprattutto
l’ultima, sono invece vaghissime. Nell’impossibilità di entrare nel
dettaglio di un libro molto complesso, mi limiterei a qualche
osservazione di carattere generale e dettata soprattutto dal
buon senso.
1. Va sottolineata la straordinaria facilità dell’atto, che
non richiedeva grande organizzazione. Qui non ci troviamo di fronte
ad alcuna «geometrica potenza», come nel caso Moro, che viene
evocato a sproposito. Un piccolo gruppo di gappisti in «divisa» da
studenti e con i libri bene in vista blocca una macchina di fronte
a un cancello e fa fuoco sul passeggero. Gentile era
completamente indifeso, e pur essendo personalità di grande
rilievo nella Repubblica sociale non aveva alcuna scorta. Se si pensa
che una settimana prima il suo segretario era stato rastrellato
e fucilato da tedeschi e fascisti, si comprenderà come prima che
giungesse la rivendicazione dei Gap si fossero diffuse molte voci
su un regolamento di conti all’interno del fascismo di Salò.
2. Sulla questione di un atto voluto dai servizi inglesi, per
bloccare la «pacificazione nazionale» perseguita da Gentile
e che avrebbe potuto portare a una pace separata, c’è da obiettare in
primo luogo che non si capisce perché agli inglesi dovesse risultare
sgradita questa ipotesi. Ma soprattutto bisogna ricordare in cosa
consistesse la pacificazione propagandata con enfasi da
Gentile. Nei suoi interventi pubblici degli ultimi mesi il filosofo
aveva invocato la «concordia», dopo «l’ubriacatura dei
quarantacinque giorni», la necessità di superare le lotte interne
«tranne quella vitale contro i sobillatori, i traditori, venduti
o in buona fede, ma sadisticamente ebbri di sterminio», cioè
i partigiani. Ancora nel suo ultimo intervento di rilievo del 19
marzo, inaugurando l’Accademia d’Italia e commemorando Vico, aveva
invitato alla pacificazione degli animi, ma sotto la guida di
Mussolini «voce antica e sempre viva della Patria» e a fianco del
«Condottiero della grande Germania». I suoi toni erano certo diversi
rispetto a quelli del fascismo repubblichino più fanatico, ma la
linea che proponeva non differiva sostanzialmente da quella di
Mussolini. Certamente gli attacchi del colonnello Stevens da
Radio Londra contribuirono a fare di Gentile un bersaglio
evidente, ma non bastano a indicare gli inglesi come «mandanti»
dell’esecuzione.
3. Altro tema ricorrente e fantasioso in questa letteratura
è quello dell’omicidio ordinato da Togliatti per «impadronirsi» della
mitica «egemonia culturale» sbarazzandosi dell’ostacolo più
ingente che si frapponeva. C’è qui un duplice equivoco, il primo
vistoso, il secondo più sottile. Pensare che Giovanni Gentile
avrebbe potuto esercitare un ruolo di rilievo nella cultura italiana
del dopoguerra è del tutto irrealistico. Un’avvisaglia esplicita di
ciò che attendeva Gentile si era avuta nella risposta durissima
e sferzante del ministro badogliano Leonardo Severi, resa pubblica
nell’agosto 1943 in risposta a una profferta di «consigli» da parte
di Gentile. Ed era stata già avviata la procedura di epurazione del
filosofo dall’Università. Potremmo dire anzi che la fine tragica
risparmiò a Gentile un futuro di umiliazioni avvilenti.
Quanto a Togliatti, invece, va ricordato che era appena tornato in
Italia con una visione molto sommaria della cultura italiana, che
immaginava completamente succube dell’egemonia crociana. Si
lanciò in attacchi molto violenti nei confronti di Croce, al punto
da provocare quasi una crisi nel governo Badoglio (Togliatti e Croce
erano entrambi ministri), che si compose solo con le scuse del leader
del Pci. Soltanto nell’aprile 1952 Togliatti modificò la sua
interpretazione, riconoscendo che l’egemonia culturale durante il
fascismo era stata soprattutto dell’«idealismo attuale», cioè
gentiliana.
4. Si trascura o si ignora una caratteristica fondamentale del
comunismo fiorentino, che era il suo carattere rigidamente
«proletario», nel significato che il termine poteva assumere in
una città senza grandi insediamenti industriali, ma che implicava in
ogni caso una connotazione fortemente anti-intellettualistica.
Anche di qui una forte diffidenza nei confronti degli azionisti
fiorentini, considerati intellettuali borghesi, che sarebbe
proseguita a lungo nel dopoguerra. Il solo Romano Bilenchi aveva
rapporti col mondo dei gappisti, di cui avrebbe ricostruito la
storia. Luporini non era iscritto al partito ma sarebbe stato ammesso
molto più tardi, con qualche difficoltà e per intercessione di
Bilenchi.
Anche Ranuccio Bianchi Bandinelli non era iscritto nell’aprile del
1944, se pure era stimato e ascoltato nella piccola cerchia
comunista. In ogni caso è impensabile che decisioni della portata
dell’uccisione di Gentile potessero venire assunte dietro impulso
decisivo degli intellettuali più o meno vicini al partito. Più
sensato è il rinvio a un influsso dell’ambiente milanese, dove si
trovava il centro e il cuore dell’attività di propaganda
e orientamento del Pci nell’Italia occupata (e dove anche l’ambiente
azionista era molto distante da un rapporto di familiarità con
Gentile, come dimostrò l’approvazione dell’attentato, in netto
contrasto con l’atteggiamento dell’azionismo fiorentino).
5. Quanto alla «eccezionalità» incomprensibile dell’assassinio
di un intellettuale, va ricordato che due mesi dopo Marc Bloch verrà
torturato e fucilato dai nazisti, e che un anno dopo Huizinga
morirà prigioniero dei tedeschi. Nella nuova generazione di
intellettuali si ricorderà che Giaime Pintor era caduto in azione il
1° dicembre del 1943 (e Gentile ne era stato informato dall’amico
Fortunato Pintor) e che Eugenio Curiel, citato qui per il duro
articolo Senza necrologio scritto in morte di Gentile,
sarebbe stato ucciso dai fascisti nel febbraio del 1945. Gentile, in
ogni caso, non può essere considerato un «normale» intellettuale
dedito esclusivamente ai suoi studi: era stato ideologo del regime
e ministro, grande organizzatore della cultura fascista, e aveva
accettato la carica di presidente dell’Accademia d’Italia restaurata
dal regime di Salò.
Forse alla fine bisognerà rassegnarsi all’evidenza e a
considerare l’uccisione di Gentile semplicemente come una delle
tante esecuzioni di collaborazionisti avvenute nel corso della
Resistenza europea.
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