Perry Anderson
The Italian Disaster
London Review of Books, 22 May 2014
... In
questo scenario, un paese è considerato diffusamente come il caso più
acuto di malfunzionamento europeo. Dall’introduzione della moneta unica
l’Italia ha segnato il dato economico peggiore di ogni altro stato
dell’Unione: vent’anni di stagnazione virtualmente ininterrotta a un
tasso di crescita ben inferiore a quello di Grecia o Spagna. Il
suo debito pubblico è superiore a 130 per cento del PIL. Tuttavia
questo non è un paese di dimensione piccola o media della periferia
recentemente acquisita dell’Unione. È uno dei sei membri fondatori, con
una popolazione paragonabile a quella della Gran Bretagna e un’economia
pari a metà di quella della Spagna. Dopo la Germania la sua base
manifatturiera è la seconda maggiore d’Europa, dove è anche seconda in
classifica nell’esportazione di beni capitali. Le emissioni del suo
tesoro costituiscono il terzo maggiore mercato di titoli sovrani del
mondo. Quasi metà del suo debito pubblico è detenuto all’estero: il dato
paragonabile del Giappone è inferiore al 10 per cento. Nella sua
combinazione di peso e di fragilità l’Italia è il vero anello debole
della UE, dove questa potrebbe teoricamente spezzarsi.
Oggi
è anche, non per caso, il solo paese in cui la delusione per lo
svuotamento delle forme democratiche, non semplicemente un’indifferenza
intorpidita ma una rivolta attiva ha scosso la dirigenza alle
fondamenta, trasformando il panorama politico. Movimenti di protesta di
un genere o dell’altro sono emersi in altri stati dell’Unione, ma finora
nessuno approssima la novità o successo dell’ondata del Movimento
Cinque Stelle in Italia come ribellione alle urne. E anche, a sua volta,
l’Italia offre lo spettacolo più familiare di tutti i teatri di
corruzione del continente e quello della sua più celebrata incarnazione
nel miliardario che ha retto il paese per quasi metà della vita della
Seconda Repubblica, a proposito del quale si sono spese più parole che
riguardo a tutti i suoi avversari messi insieme. Le riflessioni sulla situazione propria dell’Italia partono inevitabilmente da Silvio
Berlusconi. Che egli emerga tra i suoi pari per l’intreccio di potere e
denaro è fuori discussione. Ma il modo in cui c’è riuscito può essere
oscurato dal clamore della stampa estera al suo inseguimento, prime fra
tutte le tonanti denunce dell’Economist e del Financial Times.
Due
cose hanno reso straordinario Berlusconi. La prima che è egli ha
invertito il percorso tipico dalla carica al profitto, ammassando una
fortuna prima di arrivare al potere politico, che poi ha usato non tanto
per accrescere la propria ricchezza, quanto per proteggerla, e
proteggere sé stesso, da molteplici incriminazioni penali per il modo in
cui l’aveva acquisita. La seconda è che la principale, anche se lungi
dall’essere unica, fonte della sua ricchezza è un impero televisivo e
pubblicitario che gli ha fornito un apparato di potere indipendente
dalla carica e che, una volta entrato nell’arena elettorale, ha potuto
essere convertito in una macchina di propaganda e in uno strumento di
governo. Collegamenti politici – legami con il Partito Socialista a
Milano e con il suo capo Craxi – sono stati cruciali per la sua ascesa
economica, e in particolare per la costruzione della sua rete nazionale
di canali televisivi. Ma anche se ha sviluppato considerevoli abilità,
essenzialmente di comunicazione e manovra, da politico, in prospettiva è
rimasto innanzitutto un uomo d’affari, per il quale il potere ha
significato sicurezza e fascino, piuttosto che azione o progettualità.
Anche se ha manifestato la sua ammirazione per la Thatcher e si è
vantato di essere campione del mercato e della libertà economica,
l’immobilismo delle sue coalizioni di centrodestra non si è mai
differenziato molto da quello delle coalizioni di centrosinistra dello
stesso periodo.
Che
questo sia il vero addebito mosso contro di lui dall’opinione
neoliberista della sfera anglofona si può vedere dal trattamento che
quest’ultima riserva a due emblemi simmetrici della corruzione a capo di
stati a est e a ovest dell’Italia. Per anni Erdogan – un amico stretto
di Berlusconi – è stato destinatario di interviste, profili e articoli smaccati sul Financial Times e
altrove, che lo hanno presentato come l’architetto illuminato di una
nuova democrazia turca e un ponte vitale tra l’Europa e l’Asia, da
accogliere con tutta la dovuta rapidità nell’Unione. Diversamente da
Berlusconi, tuttavia, il cui ruolo è stato anodino in materia di libertà
civili, Erdogan è stato ed è una minaccia a esse. Tuttavia quando è
decollato un boom turco con picchi di privatizzazioni, sono contate poco
le incarcerazioni di giornalisti, gli assassinii di dimostranti, gli
aggiustamenti di processi, le intimidazioni brutali contro l’opposizione
– per non parlare dei peculati all’ingrosso – da parte del suo regime. Persino
quando la dimensione di questa violenza e corruzione non ha potuto più
essere ignorata, i dettagli degli scandali che travolgevano il paese
sono stati in generale mantenuti al minimo e il biasimo è stato
rapidamente dirottato sulla UE per non aver esteso un abbraccio
redentore con sufficiente solerzia. Una volta pubblicati i nastri di
Erdogan la Frankfurter Allgemeine ha
commentato che in qualsiasi democrazia funzionante normalmente quelle
erano prove dieci volte sufficienti per costringere l’intero governo ad
andarsene. Nemmeno un sussurro paragonabile sul Financial Times.
Commenti in larga parte simili potevano essere formulati su Rajoy e i
suoi complici in Spagna, dove la pistola fumante è in realtà più
evidente che nel labirinto di malefatte di Berlusconi. Ma Rajoy,
diversamente da Berlusconi, è un intendente affidabile del regime
neoliberista: nessuna richiesta di supplementi speciali sull’Economist per
dettagliare i suoi misfatti, a proposito dei quali il giornale ha cura
di dire il minimo possibile, in compagnia di Bruxelles e Berlino. ‘I
leader e i dirigenti della UE hanno tenuto la bocca insolitamente chiusa
sullo scandalo, se si considera l’importanza della Spagna per
l’eurozona’, commenta Gavin Hewitt, il redattore della BBC per l’Europa.
‘La cancelliera tedesca Angela Merkel e altri hanno riposto molta
fiducia nel signor Rajoy, che è considerato come un braccio sicuro per
riforme dolorose mirate a resuscitare l’economia della Spagna’.
Berlusconi avrebbe pagato per tale assenza di fiducia.
Nell’ora
del trionfo di Berlusconi nella primavera del 2008, quando ha
conquistato la sua terza e più decisiva vittoria elettorale, le opinioni
negative all’estero sul suo conto gli importavano poco. Il fronte di
centrodestra che aveva organizzato e riorganizzato dal 1994 – a quel
punto composto dal Popolo della Libertà, una fusione del suo precedente
partito con quello del suo alleato di lungo corso, l’ex fascista
Gianfranco Fini, più la Lega Nord di Umberto Bossi che manteneva la sua
base e identità separata – deteneva una maggioranza egemone in entrambe
le camere del parlamento. Nel suo primo mese in carica è stato compiuto
un passo parallelo alla linea Thatcher/Blair, la fase iniziale di una
serie di cambiamenti a partire dalle scuole elementari e per finire con
le università che tagliava la spesa per l’istruzione di circa 8 miliardi
di euro nell’interesse dell’economia e della competizione, riducendo il
numero degli insegnanti, imponendo contratti a termine, introducendo le
imprese nei consigli, quantificando la valutazione della ricerca. Ma la
misura dello zelo riformatrice del governo è stata tutta qui. Al primo
posto nella sua agenda politica erano le leggi ad personam per
proteggere Berlusconi dalle incriminazioni penali ancora pendenti sul
suo capo; molte erano state svuotate tirando in lungo per arrivare alla
prescrizione, altre mediante la depenalizzazione. Nel 2003 il suo
governo aveva approvato una legge che assicurava l’immunità dai processi
alle cinque più alte cariche dello stato, cassata dalla Corte
Costituzionale sei mesi dopo. Nell’estate del 2008 è tornato all’attacco
con una legge presentata dal suo braccio destro al ministero della
giustizia, l’avvocato siciliano Angelino Alfano, che sospendeva i
processi per le quattro più alte cariche dello stato.
Pochi
mesi dopo la tempesta finanziaria oltre Atlantico ha colpito l’Europa,
prima in Irlanda e poi in Grecia. In Italia la seconda repubblica era
stata sin dall’inizio un flop economico, nonostante i migliori sforzi
dei premier del centrosinistra per correggere la situazione (Giuliano
Amato aveva tagliato e privatizzato, Romano Prodi aveva messo il paese
nella camicia di forza del Patto di Stabilità). I tassi della crescita
italiana sono precipitati nel corso degli anni ’90. Dopo il 2000 sono
ristagnati in una media dello 0,25 del PIL l’anno. Nel giro di un anno
dalla rielezione di Berlusconi nel 2008 gli spread avevano già
cominciato ad allargarsi tra i rendimenti dei titoli tedeschi e
italiani. Arrivati al 2009 la recessione era più grave che in qualsiasi
altro paese dell’eurozona, con il PIL sceso di più di cinque punti
percentuali. Per tenere a bada i mercati finanziari, pacchetti
finanziari d’emergenza hanno ridotto il deficit di bilancio dell’Italia,
ma con i tassi d’interesse in ascesa sul terzo debito pubblico maggiore
del mondo, arrivate alla fine del 2010 il governo era arrivato
economicamente alla canna del gas.
Politicamente
se la passava poco meglio. Da marzo a ottobre del 2009 i titoli erano
dominati da sensazionali rivelazioni sulle stravaganze sessuali di
Berlusconi, dando un colore vistoso alla profetica descrizione di
Giovanni Sartori del suo governo – mutuando un termine da Weber – come un
sultanato. Sempre
dedito a vantare le sue prodezze in camera da letto, con l’arroganza
che a quel punto lo incitava a sconfiggere anche l’età, ha abbandonato
l’elementare prudenza, riempiendo le liste del partito di soubrettes e
flirtando con minorenni, al punto di provocare una rottura pubblica con
sua moglie, Veronica Lario. Presto ha cominciato a ricevere prostitute
nella sua residenza romana. Amareggiata per non aver ottenuto un
permesso di costruzione a Bari che le era stato promesso, una di loro ha
raccontato le sue visite. Nella sua sfarzosa villa di Arcore, fuori
Milano, erano messe in scena orge nello stile di fantasie aggiornate da
diciottesimo secolo, donne vestite da suore – anche da infermiere e
poliziotte – a danzare e a spogliarsi per la possessione collettiva. Quando
una delle partecipanti, una giovane marocchina, è stata successivamente
arrestata per furto a Milano, Berlusconi ha telefonato per assicurare
il suo rilascio perché nipote di Mubarak. Poiché aveva meno di diciotto
anni, ne è seguita una procedura legale a carico di Berlusconi. Anche se
la vicenda non è stata tanto dannosa quanto il disastro in cui sarebbe
presto incorso Dominique Strauss-Kahn, presidente del FMI e favorito
nella corsa alla presidenza francese, Berlusconi è stato indebolito
dallo svilimento della sua immagine. Ma per il momento è sopravvissuto.
Una
minaccia più grave alla sua posizione è venuta da un’altra direzione.
Per presunzione, alimentata dal successo elettorale, ha perso il senso
del limite in politica, aveva umiliato Fini, che aveva pensato di essere
suo successore ed era presidente della Camera. Nell’estate del 2010,
rendendosi conto che non poteva più aspettarsi di essere l’erede
naturale del centrodestra e cedendo alle lusinghe dell’opposizione che
avrebbe potuto persino dimostrarsi il leader migliore di un
centrosinistra responsabile, Fini ha disertato. Portando con sé un
numero di deputati sufficiente a privare il governo di una maggioranza
stabile, ha mancato di poco di provocarne la caduta in autunno. Nella
primavera del 2011 anche gli elettori hanno abbandonato il governo con
Berlusconi che ha perso il controllo anche di una roccaforte quale
Milano.
Nel
corso di quell’estate, con l’intensificarsi della crisi dell’eurozona,
con la Grecia prossima all’insolvenza, è aumentata la pressione dei
mercati obbligazionari sull’Italia. La Germania, affiancata dalla
Francia e dalla Banca Centrale Europea, a quel punto non faceva un
segreto della sua determinazione a spezzare ogni resistenza a misure
draconiane d’austerità e a eliminare i leader che avessero esitato ad
attuarle, ad Atene o a Roma. In agosto Trichet e Draghi – presidenti
uscente ed entrante della BCE – hanno trasmesso a Berlusconi un virtuale
ultimatum. Due mesi dopo Papandreou è stato costretto in un vertice
della UE ad accettare altri tagli feroci alla spesa pubblica e a
impegnarsi a privatizzazioni generalizzate. Nel panico per la marea di
rabbia popolare contro di esse – il presidente della Grecia era stato
costretto ad abbandonare il palco a Salonicco nel corso della Festa
Nazionale – ha annunciato un referendum al riguardo ed è stato convocato
a Cannes seduta stante dalla Merkel e da Sarkozy e gli è stato detto di
cancellare una simile iniziativa. Una settimana dopo si è dimesso. Nel
giro di tre giorni Berlusconi lo ha seguito.
Le
dinamiche della caduta di Berlusconi, tuttavia non sono state le
stesse. In Grecia Papandreou presiedeva a un diffuso immiserimento su
ordini di Berlino, Parigi e Francoforte che aveva scatenato massicce
proteste sociali. Fino alla sua improvvisa idea di un referendum era
stato uno strumento perfettamente accettabile della volontà dell’Unione,
un atteggiamento confermato dalla velocità con cui aveva obbedito alla
Merkel e a Sarkozy e aveva prontamente ritirato la sua proposta. Si è
dimesso perché la sua posizione era diventata insostenibile all’interno.
In Italia non era in corso né un impoverimento né una mobilitazione
popolare. La maggioranza di Berlusconi alla Camera era a quel punto
limitatissima e alcuni dei suoi deputati si stavano impaurendo per
l’aumento degli spread. Me egli resta in pieno controllo del Senato e
doveva ancora essere messo al tappeto in tribunale. La sua posizione
interna era sostanzialmente più forte di quella di Papandreou. Nella UE
in generale, tuttavia, l’ostilità nei suoi confronti era molto maggiore
poiché rappresentava un imbarazzo di lungo corso per la sua classe
politica; e la decisione di Berlino e Francoforte di liberarsene, in
quanto ostacolo alla necessaria purga dell’economia italiana e
all’ordine sociale, più inesorabile.
***
Per
la sua cacciata, tuttavia, era necessario un meccanismo per collegare
l’erosione della sua posizione in patria, non ancora completa, con
l’assoluta avversione nei suoi confronti all’estero. Per sua sfortuna
esso era già pronto e adatto. Meno notata di altri mutamenti prodotti
dalla Seconda Repubblica, c’era stata una forte crescita del ruolo della
presidenza negli affari politici dell’Italia. Durante il regno della
Democrazia Cristiana nella Prima Repubblica, quando un solo partito
dominava sempre la legislatura, questa carica in larga misura
cerimoniale raramente aveva avuto qualche importanza. Ma quando
coalizioni politiche rivali hanno cominciato a confrontarsi per il
potere nella Seconda Repubblica, si è aperto un nuovo spazio di manovra
per la presidenza. Scalfaro – in carica al Quirinale tra il 1992 e il
1999 – è stato il primo a utilizzarlo, rifiutandosi di sciogliere il
parlamento quando Berlusconi aveva perso la sua prima maggioranza nel
1994, agevolando invece
al potere un mosaico di centrosinistra, per dargli tempo di mettere
insieme le proprie forze per una vittoria alle urne con Prodi l’anno
successivo.
Ora
il presidente era, come Scalfaro, un ex ministro dell’interno, Giorgio
Napolitano. Berlusconi aveva sostenuto l’elezione di Napolitano nel 2006
e aveva motivo di ritenere di aver fatto una scelta sensata
nell’aiutare a salire al Quirinale questo veterano della classe politica
tradizionale. Un ‘Vicario di Bray’
italiano, nella sua lunga carriera aveva esibito un principio fisso,
l’adesione a qualsiasi tendenza politica mondiale apparisse vincente al
momento. L’inizio di una lunga sequenza c’era stato nei suoi anni da
studente, quando aveva aderito al Gruppo Universitario Fascista, in un
periodo in cui l’Italia inviava truppe a unirsi ai nazisti nell’attacco
contro la Russia. Una volta caduto il fascismo Napolitano ha optato per
la forza in arrivo del comunismo. Iscrivendosi al PCI alla fine del 1945
ne ha poi rapidamente scalato i ranghi, arrivando al Comitato Centrale
in poco più di un decennio. Quando le truppe e i carri armati sovietici
hanno represso la Rivolta Ungherese nel 1956, egli ha applaudito.
‘L’intervento sovietico è stato il contributo decisivo non solo per
impedire che l’Ungheria finisse nel caso e nella controrivoluzione, e
difendendo gli interessi militari e strategici dell’URSS, ma anche
salvando la pace nel mondo’, ha dichiarato al Congresso del Partito in
quel novembre. Salutando l’espulsione di Solzhenitsyn dalla Russia nel
1964 ha dichiarato: “Solo commentatori sciocchi e faziosi possono
evocare lo spettro dello stalinismo, trascurando il modo in cui
Solzhenitsyn ha portato le cose a un punto di rottura’. A quel punto era
il braccio destro di Giorgio Amendola, dopo la morte di Togliatti, la
figura più formidabile del PCI. Come il suo patrono, era un inflessibile
disciplinatore del dissenso nel partito, votando senza esitazioni la
cacciata dal partito del gruppo del Manifesto per aver parlato fuori
luogo contro l’invasione della Cecoslovacchia. Con gettoni sia nella
segreteria sia nell’ufficio politico, era diffusamente visto come il
successivo leader del PCI.
Nell’occasione
il posto è andato a Enrico Berlinguer, come figura meno divisiva. Ma
Napolitano è rimasto come ornamento di spicco del partito mentre passava
all’eurocomunismo. Nei tardi anni ’70 è stato scelto come primo inviato
del PCI per rassicurare gli Stati Uniti sulla sua affidabilità
atlantica, diventando a tempo debito il ‘comunista preferito di
Kissinger’, per usare le parole soddisfatte del New York Times. Arrivati
agli anni ’80 il trasferimento dell’alleanza a un nuovo feudatario era
completo. Il Terzo Reich un brutto ricordo, l’URSS in declino, gli USA
erano a quel punto la potenza da coltivare. Responsabile dei rapporti
con l’estero del PCI si sarebbe preso cura di ammorbidire le relazioni
con Washington molto dopo che il partito era scomparso. Una volta
presidente ha fatto di tutto per ingraziarsi sia Bush sia Obama.
In
patria il fallimento della scommessa del PCI di raggiungere un
‘compromesso storico’ con la Democrazia Cristiana che gli avrebbe
consentito l’ingresso nel governo e l’ascesa, invece – in mezzo una
corruzione sempre più sfacciata – del Partito Socialista di Craxi come
alleato chiave della DC ha indotto Berlinguer a fare una svolta a
sinistra. Denunciando la degenerazione venale del sistema politico, ha
diffuso un sonoro appello a far pulizia nella vita politica. Napolitano
ha reagito rabbiosamente, accusandolo di isolazionismo settario e di
‘vuote invettive’. I rapporti erano sempre stati freddi tra i due
uomini. Ma era in gioco qualcosa di più che una mera rivalità personale.
Napolitano guidava la corrente più a destra nel PCI dell’epoca, i
miglioristi che avvertivano una certa affinità con Craxi e non volevano
ostilità con lui. La loro base principale era a Milano, dove la macchina
di Craxi dominava la città. Lì, a metà degli anni ’80, pubblicavano un
giornale, Il Moderno, non solo finanziato da Berlusconi ma che plaudiva
ai suoi rivoluzionari successi nel modernizzare i media e nel fare di
Milano la capitale televisiva d’Italia. Si era nel 1986, quando Craxi
era primo ministro. Un tribunale avrebbe poi giudicato la holding
Fininvest di Berlusconi colpevoli di finanziare illegalmente i
miglioristi. In febbraio, durante i preparativi per un referendum contro
il nucleare in Italia, il giornale del PCI ha rifiutato un articolo a
favore del nucleare di Giovanni Battista Zorzoli, uno dei seguaci di
Napolitano. Furioso, Napolitano ha preteso la testa del direttore. Nel
1993 Zorzoli è finito in manette, condannato a quattro anni e mezzo di
carcere per corruzione quando era alto dirigente della compagnia statale
italiana dell’elettricità.
Non
molto tempo dopo, Napolitano è diventato ministro dell’interno nel
governo di centrosinistra del 1996. Era la prima volta che qualcuno di
sinistra fosse mai stato alla guida di tale ministero. Il coinvolgimento
della polizia e degli apparati dei servizi segreti italiani nella
cosiddetta ‘strategia della tensione’ [in italiano nel testo – n.d.t.] –
una serie di attentati dal massacro di Piazza Fontana a Milano nel 1969
a quello alla stazione ferroviaria di Bologna nel 1980 - era
ormai confermato da molto tempo, ma non era mai stato indagato. Ogni
nervosismo riguardo al fatto che l’arrivo al ministero del comunista di
un tempo è stato presto acquietato. Napolitano ha assicurato i suoi
subordinati che non avrebbe ‘cercato scheletri negli armadi’. Nessuna
rivelazione deplorevole ha macchiato il suo periodo in carica. E’ stato
nominato senatore a vita nel 2005. Diventato presidente della repubblica
un anno dopo ha lamentato pubblicamente che Craxi – che era morto in
esilio in Tunisia dopo essere stato condannato in contumacia a 27 anni
di carcere per una corruzione colossale – era stato trattato
scorrettamente, prendendosi il disturbo di elogiare il suo ruolo
costruttivo di statista.
Non
ha avuto lo stesso riguardo per Berlusconi, considerandolo con
condiscendenza benevola – anche con una certa giustizia – come in realtà
per nulla un politico, nel senso in cui lo erano stati gli uomini
eminenti della Prima Repubblica. I due uomini comunque non potevano
essere più opposti quanto a stile. La correttezza cerimoniale di
Napolitano era in studiato contrasto con la spudorata spacconeria di
Berlusconi. Ma condividevano un passato comune nello snodo di legami e
simpatie che circondava Craxi a Milano, e un comune interesse a
stabilizzare quelli che entrambi consideravano i potenziali vantaggi
della Seconda Repubblica: un sistema politico bipolare in stile
anglosassone, confinato a un centrodestra e un centrosinistra, liberato
dall’ostilità nei confronti del mercato del suo guardiano
transatlantico. Per ragioni proprie ciascuno, inoltre, temeva la
perseveranza dei pubblici ministeri nello scovare accuse contro il
leader più popolare del paese e il risentimento di minoranze
irresponsabili nell’insistere su di esse.
Per
Berlusconi si trattava, naturalmente, di minacce esistenziali. Per
Napolitano erano semplicemente divisive, proprio come lo era stato il
moralismo di Berlinguer, compromettendo sconsideratamente l’equilibrio
del consenso moderato di cui il paese aveva bisogno. E’ stato più che
disposto ad aiutare Berlusconi a proteggersi da questi problemi,
firmando senza esitazione la legge del Lodo Alfano del 2008 che
garantiva a Berlusconi, come primo ministro, e a sé stesso, da
presidente, l’immunità dai processi; e quando la legge è stata
dichiarata incostituzionale, apponendo il suo timbro con uguale velocità
sulla legge sostitutiva approvata nel 2010, sul ‘legittimo impedimento’
[in italiano nel testo – n.d.t.] che consentiva ai ministri di evitare i
processi invocando i loro pressanti doveri di pubblico servizio, legge a
sua volta dichiarata incostituzionale nel 2011. Napolitano è stato
criticato pubblicamente per la sua inopportuna approvazione della prima
da parte di Ciampi, il suo predecessore alla presidenza, e non era
tenuto neppure a lasciar passare la seconda; piuttosto era vero il
contrario come doveva dimostrare il seguito legale di entrambe. Le
azioni di Napolitano, tuttavia, si sono accordate con le aspettative di
Berlusconi di un modus vivendi tra loro, sulle cui basi quest’ultimo lo
aveva appoggiato per la presidenza. Un’altra espressione pregnante di
tale accordo si è avuta quando la diserzione di Fini ha privato il
governo Berlusconi della maggioranza alla Camera e l’opposizione ha
discusso un voto di sfiducia, con i voti in mano per far cadere il
governo. Nel 2008 Prodi era stato in una situazione simile dopo che
Berlusconi aveva comprato voti al Senato sufficienti a farlo cadere, un
episodio per cui è attualmente incriminato per aver pagato a un solo
senatore tre milioni di euro per cambiare cappotto, una mazzetta che il
beneficiario ha confessato. Allora Napolitano aveva perso poco tempo –
meno di due settimane – per usare la sua prerogativa presidenziale di
sciogliere il parlamento e convocare nuove elezioni, che avevano
prodotto una valanga a favore di Berlusconi. Questa volta, comunque,
Napolitano ha persuaso Fini a fermarsi per più di un mese mentre veniva
approvata una legge di bilancio, garantendo a Berlusconi il tempo
necessario per comprare il pugno di deputati necessario per ripristinare
la sua maggioranza.
***
Questo
è stato, comunque, l’ultimo favore che Napolitano ha potuto accordare.
Si stava preparando a prendere le cose nelle proprie mani. Nella
primavera del 2011 il governo ha annunciato che si stava unendo
all’attacco alla Libia guidato dagli statunitensi, al quale la Lega Nord
si opponeva assolutamente, minacciando di farlo cadere se lo avesse
fatto. Napolitano la sapeva più lunga: le aspettative di Washington
erano più importanti delle sottigliezze della costituzione. Senza alcun
voto in parlamento, e nemmeno un dibattito al suo interno, ha mandato
l’Italia in guerra strappando il sostegno degli ex comunisti all’invio
dell’aviazione del paese a bombardare un vicino con il quale aveva
firmato un Trattato di Amicizia, Cooperazione e Alleanza Militare,
ratificato da una schiacciante maggioranza alla Camera – ex comunisti
compresi – solo due anni prima.
Arrivati
all’estate, incoraggiato dalla crescente adulazione sui media nei suoi
confronti come rocca della repubblica, e con l’incoraggiamento di
Berlino, Bruxelles e Francoforte, aveva deciso di disfarsi di
Berlusconi. La chiave per rimuoverlo agevolmente consisteva nel trovare
un sostituto che soddisfacesse questi partner decisivi e la dirigenza
del mondo degli affari in Italia. Fortunatamente la figura ideale era a
portata di mano: Mario Monti, ex commissario UE, membro del Gruppo
Bilderberg e della Commissione Trilaterale, consigliere anziano della
Goldman Sachs e allora presidente dell’Università Bocconi. Monti aveva
per qualche tempo atteso proprio la situazione che a quel punto si
presentava. ‘I governi italiani sono in grado di prendere decisioni
dure’, aveva confidato all’Economist nel
2005, ‘solo se sono soddisfatte due condizioni: devono esserci sia
un’emergenza visibile sia una forte pressione dall’esterno’. All’epoca,
lamentava, ‘tale momento della verità non c’è’. Ora era arrivato.
Già
da giugno o luglio, in completa segretezza, Napolitano aveva preparato
Monti ad assumere il governo. Nello stesso periodo aveva commissionato
al capo del maggior gruppo bancario italiano, Corrado Passera,
l’elaborazione di un piano economico confidenziale per il paese. Passera
era un ex assistente dell’arcinemico politico di Berlusconi e rivale in
affari Carlo De Benedetti, proprietario di La Repubblica e di L’Espresso,
che era al corrente delle mosse di Napolitano. In urgente corsivo il
documento di 196 pagine di Passera proponeva una terapia shock: cento
miliardi di euro di privatizzazioni, tassa sulla casa, imposte sui
capitali, un’impennata dell’IVA. Napolitano, al telefono con la Merkel e
indubbiamente con Draghi, aveva a quel punto pronti il piano e l’uomo
per cacciare Berlusconi. Monti non si era mai candidato alle elezioni e
anche se un seggio in parlamento non è indispensabile per l’investitura a
primo ministro, sarebbe stato d’aiuto averne uno.
Non
c’era tempo da perdere: il 9 novembre, prelevandolo dalla Bocconi,
Napolitano ha nominato Monti senatore a vita, con l’applauso della
stampa finanziaria mondiale. Sotto minaccia della distruzione da parte
dei mercati obbligazionari nel caso si fosse opposto, Berlusconi ha
capitolato e nel giro di una settimana Monti ha giurato da nuovo
governante del paese, alla guida di un governo non eletto di banchieri,
uomini d’affari e tecnocrati. L’operazione che lo ha installato è
un’illustrazione espressiva di che cosa possono significare oggi in
Europa le procedure democratiche e il primato della legge. E’ stato
tutto assolutamente incostituzionale. Il presidente dell’Italia dovrebbe
essere il guardiano imparziale di un ordine parlamentare, che non
interferisce con le decisioni di quest’ultimo salvo quando violano la
costituzione, come questo presidente ha segnatamente mancato di fare.
Non ha il potere di cospirare, alle spalle di un premier eletto, con
persone di sua scelta, nemmeno in parlamento, per formare un governo di
suo piacimento. La corruzione del mondo degli affari, della burocrazia e
della politica è stata a quel punto aggravata dalla corruzione della
costituzione.
All’epoca
ciò che era accaduto quell’estate dietro gli arazzi presidenziali era
rimasto celato. Sarebbe venuto alla luce solo quest’anno per bocca dello
stesso Monti, un ingenuo in queste faccende, provocando balbettanti
smentite di Napolitano. Contemporaneamente la reazione del sistema al
nuovo governo spaziava dal sollievo all’esultanza. Finalmente – nella
visione diffusa dei commentatori dentro e fuori dal paese – c’era per
l’Italia una seconda occasione per voltar pagina, occasione mancata dopo
il crollo della Prima Repubblica. Finalmente era al timone un governo
onesto e competente, impegnato non solo a serie riforme del tanto che
era sbagliato in Italia – mercati del lavoro rigidi, pensioni
insostenibili, università nepotiste, restrizioni corporative ai servizi,
assenza di competizione industriale, privatizzazioni insufficienti,
ingorgo della giustizia, evasione fiscale – ma anche in grado di
dominare le tempeste finanziarie che aggredivano il paese. Una nuova
Seconda Repubblica, quella vera, poteva ora sorgere dopo vent’anni di
messinscene. Tagli profondi alla spesa pubblica, dure misure fiscali e
l’inizio di cambiamenti alla disastrosa legge sul lavoro degli anni ’70
sono stati i primi, apprezzati passi per ripristinare la fiducia nel
paese.
Viste
da un’altra angolazione c’erano in effetti somiglianze tra la
congiuntura dei primi anni ’90 quando Ciampi, allora governatore della
Banca d’Italia, era stato chiamato a difendere il forte da premier nel
pieno della crisi di Tangentopoli. Ma non erano per nulla rassicuranti.
Il governo Monti somigliava al governo Ciampi nella composizione e nelle
intenzioni. Ma molto era cambiato nel frattempo, non ultimo l’ambiente
da cui provenivano le figure di spicco del nuovo ordine: Monti e il suo
garante a Francoforte, Draghi. Nel 1994 Berlusconi si era presentato da
innovatore da un passato imprenditoriale e la cui vittoria avrebbe
sepolto la corruzione e il disordine della classe politica della Prima
Repubblica, mentre egli in realtà doveva la sua fortuna prevalentemente a
essi. Nel
2011 la crisi che strozzava l’Italia e l’Eurozona era stata scatenata
da una massiccia ondata di speculazioni finanziarie e di manipolazioni
di derivati su entrambe le sponde dell’Atlantico. Nessun operatore era
più famigerato per la sua parte in ciò che la stessa società sul cui
libro paga avevano figurato Monti e Draghi. La Goldman Sachs, che si era
guadagnata negli Stati Uniti il nomignolo di ‘piovra vampiro’, aveva
assecondato la falsificazione dei conti pubblici greci e poi era stata
accusata di frode dalla Commissione Titoli e Scambi (SEC) versando mezzo
miliardo di dollari per transare la causa extragiudizialmente. Attendersi
un taglio netto con il passato da simili funzionari era poco più
realistico che credere che il patrocinio di Craxi non avrebbe lasciato
nessun segno su Berlusconi.
Altri
ricordi del passato erano non meno impressionanti. Nell’estate del 2012
è emerso che Napolitano era intervenuto per bloccare il potenziale
interrogatorio di Nicola Mancino, ministro democristiano dell’interno
nel 1992 quando il magistrato di Palermo Paolo Borsellino era stato
assassinato dalla mafia. Mancino era uno dei quattro ministri
dell’interno – Scalfaro era stato un altro – che ricevevano mensilmente
fondi neri dal servizio segreto SISDE. La negazione di Mancino di aver
incontrato Borsellino poco prima della sua morte, nonostante prove del
contrario, non era mai stata chiarita ed era in corso una nuova indagine
ufficiale sui collegamenti tra stato e mafia, che minacciava di
metterlo a confronto con due altri ministri del periodo che lo avevano
smentito. In grande agitazione ha telefonato al Quirinale e ha implorato
protezione dal braccio destro di Napolitano per gli affari legali,
Loris D’Ambrosio. Lungi dall’essere respinto gli è stato che il
presidente era molto preoccupato per lui. A tempo debito lo stesso
Napolitano ha telefonato a Mancino, inconsapevole che il telefono di
quest’ultimo erano intercettato come parte dell’indagine.
Quando
le trascrizioni degli scambi tra Mancino di D’Ambrosio sono state
pubblicate sulla stampa, assieme alla notizia che i nastri delle
conversazioni dello stesso presidente con Mancino erano in possesso del
magistrato inquirente, Napolitano ha invocato l’assoluta immunità per la
sua carica e, in stile Nixon, ha preteso che i nastri fossero
distrutti. Il fratello di Borsellino, Salvatore, ha chiesto la sua messa
in stato d’accusa; poiché era implicata chiaramente un’ostruzione alla
giustizia, negli Stati Uniti ci sarebbero state basi per essa. In Italia
un esito simile era impensabile. La classe politica e i media hanno
immediatamente serrato i ranghi a difesa del presidente, come era stato
fatto quando Scalfaro aveva usato il suo maggiordomo per soffocare lo
scandalo del SISDE. L’assistente di Napolitano, l’Ehrlichman
dell’affare, è morto di attacco cardiaco nel bel mezzo del putiferio.
Come accade spesso Marco Travaglio, probabilmente il più grande
giornalista d’Europa, è stato l’unico a chiamare i fatti con il loro
nome; nel suo libro ‘Viva il Re!’, pubblicato l’anno scorso, ha
tracciato un’esauriente atto d’accusa circa i precedenti di Napolitano
in carica, in seicento pagine di documentazione incriminatrice. Altrove,
di fronte al pericolo per la sua posizione, il coro dei sicofanti
attorno al presidente – il cui volume andava crescendo da un certo tempo
– ha raggiunto un crescendo isterico.
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