Immanuel Kant
Critica
della ragion pratica, A 287-290 [1788]
Due cose riempiono l'animo con sempre nuovo e crescente stupore e
venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne
occupa: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Entrambe
le cose non posso cercarle e supporle come fossero
nascoste nell'oscurità o nel trascendente, al di fuori del mio
orizzonte; io le vedo davanti a me e le collego immediatamente con la
coscienza della mia esistenza. Il primo comincia dal luogo che io occupo
nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo
nell'infinitamente grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi, e
inoltre nei tempi illimitati del loro movimento periodico, nel loro
inizio e nella loro continuità. La seconda comincia dalla mia invisibile
identità, la personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera
infinità, ma di cui si può accorgere solo l'intelletto, e con il quale
(ma grazie ad esso anche con tutti quei mondi visibili) io non mi
riconosco, come là, in una connessione puramente accidentale, ma in una
necessaria e universale. Il primo sguardo di una innumerabile quantità
di mondi per così dire annienta la mia importanza, che è quella di una
creatura animale, che dovrà restituire ai pianeti la materia da cui è
sorta, dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di
forza vitale. Il secondo al contrario innalza infinitamente il mio
valore, che è quello di una intelligenza, grazie alla mia personalità,
nella quale la legge morale mi rivela una vita indipendente
dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, perlomeno quanto può
essere dedotto dalla destinazione finale della mia esistenza attraverso
questa legge, che non è limitata alla condizioni e ai confini di questa
vita, ma si estende all'infinito. Però, stupore e rispetto possono sì
spingere alla ricerca, ma non sostituirne la mancanza.
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Zwei Dinge erfüllen das Gemüt mit immer neuer und zunehmenden
Bewunderung und Ehrfurcht, je öfter und anhaltender sich das Nachdenken
damit beschäftigt: Der bestirnte Himmel über mir, und das moralische Gesetz in mir.
Beide darf ich nicht als in Dunkelheiten verhüllt, oder im
Überschwenglichen, außer meinem Gesichtskreise, suchen und bloß
vermuten; ich sehe sie vor mir und verknüpfe sie unmittelbar mit dem
Bewußtsein meiner Existenz. Das erste fängt von dem Platze an, den ich
in der äußern Sinnenwelt einnehme, und erweitert die Verknüpfung, darin
ich stehe, ins unabsehlich-Große mit Welten über Welten und Systemen von
Systemen, überdem noch in grenzenlose Zeiten ihrer periodischen
Bewegung, deren Anfang und Fortdauer. Das zweite fängt von meinem
unsichtbaren Selbst, meiner Persönlichkeit, an, und stellt mich in einer
Welt dar, die wahre Unendlichkeit hat, aber nur dem Verstande spürbar
ist, und mit welcher (dadurch aber auch zugleich mit allen jenen
sichtbaren Welten) ich mich nicht, wie dort, in bloß zufälliger, sondern
allgemeiner und notwendiger Verknüpfung erkenne. Der erstere Anblick
einer zahllosen Weltenmenge vernichtet gleichsam meine Wichtigkeit, als
eines tierischen Geschöpfs, das die Materie, daraus es ward, dem
Planeten (einem bloßen Punkt im Weltall) wieder zurückgeben muß, nachdem
es eine kurze Zeit (man weiß nicht wie) mit Lebenskraft versehen
gewesen. Der zweite erhebt dagegen meinen Wert, als einer Intelligenz,
unendlich, durch meine Persönlichkeit, in welcher das moralische Gesetz
mir ein von der Tierheit und selbst von der ganzen Sinnenwelt
unabhängiges Leben offenbart, wenigstens so viel sich aus der
zweckmäßigen Bestimmung meines Daseins durch dieses Gesetz, welche nicht
auf Bedingungen und Grenzen dieses Lebens eingeschränkt ist, sondern
ins Unendliche geht, abnehmen läßt. Allein, Bewunderung und Achtung können zwar zur Nachforschung reizen, aber den Mangel derselben nicht ersetzen.
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