Di Tolstoj, Pierre incarna le idee, le
speranze, le delusioni e, infine, anche la calma spirituale, la libertà
interiore finalmente raggiunte; da questo punto di vista, i momenti rivelatori
di apertura a un diverso e più immediato rapporto con la vita sono due nel
romanzo e corrispondono alla lezione offerta da due personaggi che incarnano il
rispetto per l'essere (Natascia) e la buona vita (Platon Karataev). Nel
caso della contessa Rostova lo scambio con Pierre accompagna tutta la
narrazione. Per l'altro personaggio tutto si risolve in un incontro che dura un
mese. Platon Karataev rappresenta la figura dell’uomo semplice, il
soldato-contadino legato alla “terra” e a un’idea pura di Dio. Grazie
all’amicizia con Karataev, il tormentato Pierre riuscirà a sciogliere il
"complicato e terribile nodo della vita" e ad avvicinarsi
all’assoluto.
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Guerra e pace
Libro IV, parte prima
capitolo 12
... E Platon cambiò posizione sulla sua paglia.
Dopo esser rimasto per un po’ in silenzio, si alzò di nuovo in piedi. [...] Quand’ebbe così finito [la preghiera],
si inchinò fino a terra, poi si alzò, diede un sospiro e si sistemò di
nuovo sulla paglia. “Ecco fatto. Come una pietra, Dio, fammi dormire;
come un bel pane fresco fammi alzare” disse, e si sdraiò tirandosi
addosso il pastrano. [...] Fuori, in lontananza, si udivano pianti e
grida e attraverso le fessure della baracca si intravvedevano fiamme; ma
all’interno tutto era silenzio e buio. Per un pezzo Pierre non riuscì a
prender sonno; sdraiato nel suo angolo, con gli occhi spalancati nel
buio, ascoltava il russare ritmico di Platon che giaceva accanto a lui; e
gli sembrava che il mondo, che poco prima gli era parso in rovina,
risorgesse nel suo animo con nuova bellezza, su nuove, incrollabili
fondamenta.
capitolo 13
Nella baracca dove Pierre era stato portato, e
dove avrebbe trascorso quattro settimane, c'erano ventitré soldati, tre
ufficiali e due funzionari civili, tutti prigionieri.
Ciascuno di costoro, in seguito sarebbe
riafforato nella memoria di Pierre come attraverso una nebbia: mentre
Platon Karataev gli si impresse per sempre nella mente e nell'anima come
il ricordo più tenace e più caro, come la personificazione di tutto ciò
che c'è di russo, buono e rotondo. Quando all'alba del giorno seguente,
Pierre potè vedere il suo vicino, quella prima impressione di qualcosa
di rotondo gli si confermò appieno: la figura di Platon, con il suo
pastrano francese stretto in vita da una corda, il berretto a visiera e i
lapti [le scarpe di scorza d'albero], era interamente rotonda; la sua testa era del tutto rotonda. La
schiena, il petto, le spalle, persino le braccia, che teneva sempre in
un certo modo come se fosse sul punto di abbracciare qualcuno, erano
rotonde, il gradevole sorriso, i grandi, teneri occhi erano bruni e
rotondi.
Platon Karataev doveva avere più di cinquant'anni, almeno stando ai
suoi racconti sulle campagne cui aveva partecipato da quando aveva
iniziato il servizio militare. Lui stesso non sapeva né avrebbe mai
potuto stabilire con precisione quanti anni avesse. Ma i denti forti e
bianchi, che gli si scoprivano tutti in due perfetti semicerchi quando
rideva (cosa che gli succedeva di frequente), erano belli e sani dal
primo all'ultimo; nella sua barba e nei capelli non c'era un solo filo
bianco, e tutto il suo corpo dimostrava agilità e, più ancora,
resistenza e robustezza.
Il suo volto, a dispetto delle piccole, rotonde rughe, aveva una
espressione di innocenza e di giovinezza; la voce aveva un timbro
gradevole, melodioso. Ma quel che distingueva il suo modo di parlare era
l'immediatezza e la praticità. Evidentemente, egli non pensava mai a
ciò che aveva appena detto o a ciò che stava per dire: da questo
derivava la particolare, irresistibile forza di persuasione implicita
nella rapidità e sicurezza delle sue intonazioni.
Nei primi tempi della prigionia, la sua forza
fisica e la sua destrezza erano tali da far pensare che neppure sapesse
che cosa sono la stanchezza o la malattia. Ogni mattina e ogni sera,
diceva la sua preghiera: «Come una pietra, Dio, fammi dormire; come un
bel pane fresco fammi alzare»; ogni mattina, alzandosi, scuoteva le
spalle sempre allo stesso modo e diceva: «Sdraiandomi ho fatto
ciambella, alzandomi mi do una scosserella.» In effetti, gli bastava
mettersi giù per addormentarsi come un sasso, e gli bastava scuotersi
per mettersi subito, senza un istante d'indugio, a occuparsi di
qualcosa, come fanno i bambini che afferrano i giocattoli prima ancora
d'alzarsi. Sapeva fare di tutto, non proprio alla perfezione, ma nemmeno
male. Cucinava, cuciva, sapeva usare la pialla e la lesina. Era sempre
indaffarato, e solo di notte si concedeva un po' di conversazione (cosa
che gli piaceva molto) e di canzoni. Non cantava come i cantanti, che
sanno di essere ascoltati, ma come gli uccelli. Si vedeva che per lui
emettere quei suoni era tanto necessario quanto stiracchiarsi o far
quattro passi; erano suoni delicati, sempre teneri e quasi femminei,
pieni di malinconia, e il suo volto, in quei momenti, aveva
un'espressione molto seria.
Caduto prigioniero, s'era lasciato crescere la barba, scrollandosi
evidentemente di dosso quanto d'estraneo e soldatesco gli si era
appiccicato e tornando, istintivamente, al suo modo d'essere di prima,
contadino e popolare.
«Soldato congedato, camicia fuori dei pantaloni,» diceva.
Del periodo passato sotto le armi, non parlava volentieri, benché non
si lamentasse e anzi ricordasse sovente che durante tutto il servizio
non era mai stato punito. Quando si metteva a raccontare, quasi sempre
raccontava dei suoi vecchi e, naturalmente, dei cari ricordi della sua
vita «di cristiano», come diceva, cioè di
contadino. I proverbi che costellavano il suo discorso non erano i
proverbi, per la maggior parte indecenti e sfrontati, che dicono i
soldati, ma quelle sentenze popolari che sembrano così insignificanti
prese così, da sole, e che acquistano invece, all'improvviso, un senso
di profonda saggezza quando vengono pronunciate a proposito.
Sovente gli capitava di dire esattamente l'opposto di quanto aveva
detto un attimo prima: ma sia l'una che l'altra cosa erano giuste. Gli
piaceva parlare e parlava bene, abbellendo il suo parlare di
vezzeggiativi e di proverbi che a Pierre sembravano inventati lì per lì;
ma il fascino principale dei suoi racconti stava nel fatto che, nel suo
modo di esporli, anche gli avvenimenti più semplici, a volte perfino
gli stessi a cui Pierre aveva assistito senza farci caso, prendevano un
aspetto di solenne bellezza. Gli piaceva ascoltare le favole, sempre le
stesse, che un altro soldato raccontava ogni sera. Ma ancora di più gli
piaceva ascoltare storie di vita reale. Nell'ascoltarle sorrideva di
gioia, suggeriva le parole e faceva domande che tendevano a render più
chiara la bellezza di ciò che gli stavano raccontando. Affetti,
amicizie, amore nel senso in cui Pierre intendeva queste cose, Karataev
non ne provava; ma voleva bene a tutti, e viveva in un rapporto
amorevole con tutto ciò che la vita gli faceva incontrare, specialmente
con l'uomo, ma non un uomo determinato, bensì tutti gli uomini che gli
capitavano davanti agli occhi. Amava il suo cagnolino, amava i compagni,
i francesi, amava Pierre, che era il suo vicino; ma Pierre sentiva che
Karataev, nonostante tutta l'affettuosa tenerezza che aveva per lui (e
con la quale rendeva istintivamente omaggio alla vita spirituale di
Pierre), non si sarebbe addolorato nemmeno per un istante se li avessero
separati. E Pierre cominciava a provare lo stesso sentimento nei confronti di Karataev.
Agli occhi di tutti gli altri prigionieri, Platon Karataev era il più
normale dei soldati; lo chiamavano Falchetto o Platoša [Platoscia], lo prendevano
bonariamente in giro, lo mandavano a fare commissioni. Ma per Pierre
egli rimase sempre quel che gli era apparso la prima notte: ineffabile,
rotonda, eterna personificazione della semplicità e della verità.
Platon Karataev non sapeva nulla a memoria, fuorché le sue preghiere.
Quando raccontava qualcosa, sembrava che cominciasse a parlare senza
sapere come avrebbe finito.
Le volte che Pierre, colpito dal senso del suo discorso, lo pregava
di ripetere ciò che aveva detto, Platon non riusciva a ricordare quel
che aveva appena finito di dire, così come non era assolutamente capace
di ripetere a Pierre le parole della sua canzone preferita. C'era, in
essa, «mia cara piccola betulla», e poi «mi sento languire», ma, così a
parole, era impossibile cavarne qualcosa. Non capiva, non poteva nemmeno
concepire il significato di parole prese isolatamente dal discorso. In
ogni sua parola, così come in ogni sua azione, si esprimeva
quell'attività a lui stesso ignota che era la sua esistenza. Ma anche la
sua vita, per lui, non aveva senso di per se stessa, isolatamente, ma
solo come particella di un tutto di cui egli aveva costantemente
coscienza. Le sue parole e le sue azioni fluivano dalla sua persona con
la stessa regolarità, necessità e immediatezza con cui un fiore esala il
suo profumo. Era impossibile, per lui, capire il valore o il
significato di un'azione o di una parola considerate come qualcosa a sé
stante.
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