sabato 2 novembre 2024

Nietzsche e i filosofi preplatonici



Le lezioni tenute da Nietzsche all’Università di Basilea sui filosofi preplatonici furono pubblicate in tedesco per la prima volta nel 1913. Da Talete a Socrate, il filosofo tedesco in queste pagine rivisita uno per uno i pensatori greci che per primi concepirono e fondarono la filosofia nella sua forma più pura, veri e propri pionieri che transitarono il pensiero greco dal mito alla forma più matura di sapienza, a cui tutta la storia successiva della filosofia è debitrice.

Barbara Castiglioni
, I preplatonici, gli "inventori" della filosofia amati dal Nietzsche più tragico, Il Giornale, 2 novembre 2024

Un giovane professore prematuramente pensionato, afflitto da un'oscura malattia, quasi cieco, in costante movimento tra la riviera italiana e francese
in inverno e l'Engadina d'estate. Questo era Friedrich Nietzsche nel 1879, quando lasciava l'università di Basilea, dando inizio a una vita errabonda.
In sette inverni, cambierà un numero inverosimile di abitazioni, deprecando sempre 
«la sudiceria del meridione», e lamentando di non riuscire a trovare «nulla di adatto ad un essere pensante e pulito come me».

Tra Svizzera, Italia e Francia, con un gigantesco baule che conteneva i fogli su cui scriveva, Nietzsche viaggiava in treno, e lo detestava: odiava il movimento, il continuo traballare, le carrozze non riscaldate, vomitava spesso, e ci metteva giorni a riprendersi da un viaggio. Prima di tutto questo, «l'asceta che ha intorno tutto quanto gli è più spiacevole», però, aveva insegnato, tra il 1869 e
il 1879, Filologia all'Università di Basilea: in questi anni, scriverà la Nascita della tragedia e le Considerazioni inattuali, come ricorda Piero di Giovanni nella sua accurata, vivida introduzione a I filosofi preplatonici (Mimesis), che contengono le lezioni preparate per gli studenti di Basilea tra il 1872 e il 1876. Secondo Nietzsche la tragedia e la filosofia rappresentano quel modo di interpretare l'esistenza umana che la scienza, nella sua dimensione fenomenica, non può cogliere nella sua interezza. E nei suoi presocratici, non ci sono solo Talete, Anassimene o Anassimandro, ma anche Edipo e Dioniso, che rispecchiano quell'atrocità della vita sulla terra che sarà esplicitata dal Sileno nella Nascita della tragedia («Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto»): parole non troppo diverse da quelle del vademecum del pessimista di ogni tempo, il Qohélet: «I morti perché morti io lodo, i vivi no perché vivi. E più di loro il felice che non è ancora stato».

Nietzsche sapeva bene che «il desiderio sempre più forte di bellezza, di feste,
di divertimenti» dell'uomo greco «si era sviluppato dalla mancanza, dalla
privazione, dal dolore»: come quelli descritti dal presocratico che considerava
il suo diretto antenato, cioè Eraclito. «Sublime, solitario, estatico», Eraclito
riesce a concepire l'idea dell'eterno divenire, «che in un primo momento ha
qualcosa di spaventoso ed inquietante»: e solo una forza notevole poteva
trasformare «questo effetto in quello opposto, cioè in quello del grandioso e
dello stupore gioioso». Perché i presocratici vivono nell'età tragica, dionisiaca
dei greci, non quella della decadenza, che inizia con l'Atene di Pericle e avrà il
suo esponente più famoso in Socrate: irascibile, col naso piatto, le labbra grosse
e gli occhi sporgenti, questo «autodidatta etico», secondo le parole di Nietzsche,
non era altro che un incolto plebeo nemico dell'arte, della scienza e della natura.
Decisamente più vicino alla «poderosa formazione dello spirito e del cuore»
nietzschiana era, invece, Empedocle, che nella lotta tra philia (amore) e neikos
(odio) riesce a intravedere il senso del dolore che l'uomo è costretto a vivere e
soffrire nel mondo.

Barbara Castiglioni, laureata in Lettere Classiche e Dottore di Ricerca in Studi
Umanistici presso l'Università di Torino con una tesi sull'Elena di Euripide, si
specializza nello studio della tragedia antica e nella ricezione dei classici. Ha
pubblicato numerosi saggi che analizzano la tragedia greca e il legame tra il
dramma antico e le sue forme moderne.

Amore e Psiche. L'enigma dell'amore, a cura di Barbara Castiglioni
Marsilio, Venezia 2024

La favola di Amore e Psiche, tramandata dalle Metamorfosi di Apuleio, è forse la più affascinante e misteriosa di ogni tempo. Il figlio di Afrodite, Amore, si innamora di Psiche, l’anima, ma il loro amore ha una condizione: Psiche non dovrà mai vedere il volto del suo amato. Amore diventa così lo sconosciuto amante notturno, che la possiede nel buio e all’alba sparisce. Psiche però, vinta dal desiderio di conoscere il suo amante, lo coglie nel sonno e gli illumina il volto con una lampada. Amore fugge, lasciando Psiche nella disperazione, ma i due innamorati, dopo un lungo periodo di peripezie, si ritroveranno e si uniranno in matrimonio: dalla loro unione, nascerà Voluttà. La favola ha dato vita a un numero infinito di variazioni. Secondo La Fontaine, per cui «tutto l’universo obbedisce all’Amore», i due amanti rappresentano la prova che l’illusione e il desiderio, cioè l’amore al buio, siano da preferire alla realtà. Per Keats, che diventa il «sacerdote di Psiche», Amore e Psiche simboleggiano il trionfo dell’amore. Secondo Heine, la colpa di Psiche, che «si lascia morire perché i suoi occhi hanno visto il corpo nudo del suo Amore», rappresenta i mali del cristianesimo. Per Leopardi, la curiosità di Psiche, «che era felicissima senza conoscere», è la prova dei danni della conoscenza. Secondo Pascoli, Psiche è l’emblema dell’impossibilità dell’amore, e non a caso ritroverà il suo Amore solo «oltre la morte». Per Marina Cvetaeva, la favola è il simbolo di quello che l’amore dovrebbe essere: «anima senza corpo». Il significato di Amore e Psiche, quindi, rimane un mistero, che rispecchia, forse, l’enigma dell’amore. (presentazione editoriale)


Maria Jennifer Falcone, il manifesto, Alias, 1 luglio 2024

Erant in quadam civitate rex et regina: «c’erano in una città un re e una regina». È
l’inizio della favola, il ‘c’era una volta’ che subito immerge in un’atmosfera magica e altra:
una città indefinita, un re e una regina, la loro bellissima figlia, così bella da far ingelosire
Venere e da far innamorare di sé Amore in persona. La storia di Amore e Psiche, incastonata
nel centro delle
 Metamorfosi di Apuleio (ora pubblicate dalla Fondazione Valla per le cure
di Lara Nicolini, Caterina Lazzarini e Nicolò Campodonico con la traduzione – qui
riportata – di Luca Graverini) è uno dei grandi classici della letteratura latina: la bella
 
fabella 
affascinante e ricca di interpretazioni – anche molto diverse tra loro – che l’hanno
interessata sin dal Tardo Antico.

La giovane si trova a vivere in una dimora splendente dove ogni notte nel buio
incontra un amante misterioso. Curiosa, non riesce a rispettare il patto di non
vederlo, una notte accende la lampada e una goccia d’olio bollente risveglia Amore.
È la fine: il dio alato scappa via e per recuperare il suo amante Psiche dovrà superare
prove mortali, che affronterà con aiuti non umani; nonostante la sua curiosità alla
fine ritroverà Amore e genererà una figlia divina, chiamata Voluptas.

La trama, di cui quella di Apuleio costituisce la prima versione, ha avuto un’enorme
fortuna, favorita in tempi recenti anche dal successo del film di animazione La
Bella e la Bestia,
 ispirato all’omonima fiaba di G.S. Villeneuve del 1740. Se gli abiti
lussuosi, le danze in salone e le ceramiche parlanti del palazzo disneyano richiamano
alla mente questa storia, narrata da Apuleio in una lingua particolare e ricercata, è
però ben precedente e molto più profondo il rilievo culturale che essa ha esercitato
sulla cultura europea. Un volume della collana «Variazioni sul mito» di Marsilio,
ormai da tempo punto di riferimento riconosciuto nel panorama degli studi sulla
ricezione dei classici (Apuleio, La Fontaine, Keats, Heine, Leopardi, Pascoli,
Cvetaeva, Amore e Psiche L’enigma dell’amore, Marsilio «Letteratura universale,
pp. 264, euro 18,00), curato da Barbara Castiglioni, ne mette in luce alcune tappe
[rilevanti] con una selezione dei testi a volte brevissimi ma sempre significativi.

Come sempre apre il volume il testo classico, vale a dire la narrazione di Amore e
Psiche estratta dalle Metamorfosi di Apuleio. Dopo l’ampio racconto di Jean de la
Fontaine, il lettore si imbatte nella magia poetica di un incontro impossibile
nell’Ode a Psiche di Keats; è quindi accompagnato a rileggere allegoricamente la
vicenda con Leopardi che in una pagina dello Zibaldone (10 febbraio 1821) associa
la figura apuleiana all’uomo della Genesi e riflette sui rischi della conoscenza. I
quattordici versi della Psyche di Heine aprono uno scorcio sui temi della colpa e
della nudità e ci presentano davanti agli occhi una Psiche immutata nel tempo,
iconico emblema della sopravvivenza dei classici («Dopo diciotto secoli, diciotto!, /
di penitenza, lei è ancora lì»). Alla Psiche dei Poemi Conviviali di Pascoli in perfetto
equilibrio tra dottrina e spontaneità segue infine la figura evocativa e rarefatta
dell’«anima senza 
corpo» della Psiche di Marina Cvetaeva.

Come è d’uso in questa collana, tutti i testi (antichi o moderni in lingua straniera)
sono presentati in traduzione italiana. Rendere fruibili le opere letterarie
mantenendone il carattere poetico è un lavoro complesso ed è uno dei meriti del
libro: se la traduzione di Apuleio è quella di Stella Sacchini già pubblicata da
Feltrinelli (2020), sono stati tradotti appositamente per il volume i testi di La
Fontaine (Susanna Spero), Keats (B. Castiglioni), Heine (Maria Grazia Ciani) e
Cvetaeva (Luisa De Nardis).

Nell’introduzione, scritta dalla curatrice, trovano spazio anche molti altri capitoli
della ricezione di questa favola, la cui fortuna ampia e sfaccettata è resa evidente
dalla continuità diacronica e dalla varietà di autori e opere citati. E se Castiglioni
identifica nell’erotismo e nella voluttà il tratto per lei più affascinante del testo di
Apuleio, le letture che popolano le sue pagine mostrano la natura molto più
complessa e decisamente sfuggente del racconto, che si prestava a essere
interpretato in chiave allegorica anche grazie alla scelta del nome proprio della protagonista, Psiche ovvero ‘anima’.

Universale e misteriosa, dunque, e profondamente enigmatica, Psiche è
rappresentata con grazia struggente in particolare da Pascoli; il componimento,
ben introdotto dalla curatrice, è stato studiato a fondo da Lucia Pasetti in alcuni
contributi richiamati nelle note (nelle quali sono spesso suggeriti approfondimenti
critici). Prigioniera e piangente, «tenue più del tenue fumo / ch’esce alla casa»,
la Psiche pascoliana, in linea con la tradizione, perde il suo amato guardandolo con
la lanterna: «E lo sapesti solo allor che sparve, / l’Amore alato». Le prove, il dolore
e l’inedita figura di Pan puntellano i versi; richiami verbali e ripetizioni danno
struttura e creano suggestioni. E così nel finale una Psiche non più prigioniera ma
«fuggitiva» è sparita dalla sua casa «donde più non esce / il tenue fumo»: sparve
(«alla tua casa vuota / di cui sparve il celeste alito in cielo!»), proprio come sparve
Amore. Quasi ‘assunta in cielo’ («Pan l’eterno t’ha ripresa, o Psyche») ha raggiunto
il suo amato in un luogo che tutti cercano e che nessuno può trovare se non nella
magia eterna e sempre nuova della letteratura.












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