domenica 15 settembre 2024

Italia. L'inconscio di un popolo



Giuseppe Lupo, Perché noi italiani siamo così simili a Pinocchio, Il Sole 24ore, Domenica, 15 settembre 2024

Chiunque osservi il famoso dipinto "Goethe nella campagna romana" (1787) di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein resta colpito dalla seriosa compostezza che si addice alla figura in primo piano, però quasi sempre trascura una serie di elementi che compongono il carattere identitario della nostra nazione. La scena è collocata in un contesto di arcadia felice: fronde di alberi, monumenti antichi, cime di monti. Eppure è una rappresentazione tutt’altro che realistica, anzi è una contraffazione della realtà perché ciò che sta nel paesaggio intorno al poeta disteso su blocchi di pietra è il ritratto dell’immaginario in cui Goethe desiderava sentirsi immerso. Il suo sguardo contiene un desiderio, un sogno, come se l’Italia che i viaggiatori del Grand Tour speravano di visitare dovesse corrispondere alla cartolina che di essa circolava al di là delle Alpi: quella di un Paese fuori dal tempo e dallo spazio, in «vacanza dalla realtà», scrive Luigi Zoja, dove ciascuno potesse recuperare la propria innocenza camminando a ritroso verso la soglia di una civiltà non contaminata dal moderno.

Nessun messaggio più falsificato sarebbe stato possibile confezionare e non tanto perché l’Italia di fine Settecento fosse estranea a una geografia rurale o non fosse interpretabile alla luce di quella letteratura della fuga costruita dal Virgilio bucolico, ma perché non poteva reggersi in piedi il racconto di una nazione che dalla fine del Rinascimento «sembra non mirare più all’eccellenza ma all’intrattenimento». Sarà perentorio questo giudizio, ma contiene uno dei cardini del discorso di Zoja perché scaturisce dalla contrapposizione tra i fenomeni del Rinascimento, che ha avuto respiro universale nell’egemonia dell’Italia sull’Europa, e le contraddizioni di un Risorgimento segnato da episodi locali.

È marcata qui la lezione di Burckhartdt, di Garin, di Mack Smith e tuttavia non bisogna cadere nell’errore di pensare al lavoro di Zoja quale rivendicazione di posizioni antiunitarie in nome dell’evidente paradosso secondo cui l’Italia si è trovata al vertice del mondo nel momento in cui la suddivisione in piccole patrie era al culmine. Se questo è avvenuto, non è certo a causa della deriva regionalistica. Nonostante la percezione di una diffidenza verso un modello di Stato accentratore che si sarebbe affermato proprio grazie al Risorgimento e che avrebbe sconfessato definitivamente la lezione di un federalismo municipale tanto cara a Cattaneo, l’obiettivo del libro sta altrove, lontano dalla ruggine della Storia e assai più prossimo a rinvenire i caratteri di una italianità adottando lo strumento della psicologia, soprattutto di matrice junghiana. La disposizione a falsificare il racconto, che si evidenzia nell’olio di Tischbein, è uno dei numerosi indizi.

A suffragare il sospetto che la nostra penisola sia stata la culla in cui nutrire il metodo del tradimento se ne potrebbero elencare altri: il mito del Risorgimento, per esempio, costruito sulla base di una narrazione antiasburgica e presto messo in discussione da parte degli intellettuali antirisorgimentali (argomenti fondamentali, trattati però con un po’ di genericità) oppure il culto della nazione, che si sarebbe alimentato grazie alle ingannevoli chimere del colonialismo e del fascismo, salvo poi rivelarsi un edificio retorico. Per non parlare dei reiterati tradimenti orditi a danno dei partner europei ed extraeuropei prima sul finire dell’Ottocento, poi in occasione della Grande Guerra, infine con l’armistizio dell’8 settembre.

Siamo mai appartenuti a una patria «d’arme, di lingua, d’altare», come auspicava Manzoni? Soprattutto siamo mai stati affidabili nella parola data? Di fronte a tanti esempi di alleanze sottoscritte e contraddette qualche dubbio resta, anche se la vera domanda da porci è dove si origina tutto questo. Qui torna utile l’analisi di Zoja che non intende indagare le scelte storiche, ma trovarne le motivazioni remote «nell’inconscio di un popolo» in cui – scrive – «può sopravvivere un sentimento di debito contratto, torto subito, o di dovere non compiuto» scaturito probabilmente dal fatto che «gli italiani hanno “saputo” per secoli di aver lasciato cadere nel vuoto due appelli senza precedenti: la canzone Italia mia di Petrarca e l’esortazione finale del Principe di Machiavelli, che riprende proprio quei versi».

Qualcosa di non rimosso si agita dentro di noi come lo spettro di una mancanza, di una inadempienza e ci fa operare nei modi che conosciamo, disperati e allegri, tanto comici da rasentare il tragico (siamo sempre noi ad aver inventato il melodramma ottocentesco che è la semplificazione della complessità rinascimentale), così prossimo ai comportamenti di un burattino di legno che è il vero ritratto autobiografico dell’anima popolare, la rappresentazione dell’eterna lotta tra desiderio di diventare adulti e resistenza all’età adulta, la maschera più accreditata a diventare erede di una tradizione teatrale come la commedia dell’arte (poi declinata nelle forme cinematografiche della commedia all’italiana) entro cui radunare gestualità rumorosa ed estro, macchiettismo e pedagogia, irruenza e improvvisazione.

Pinocchio è l’eroe di una patria povera e dialettale, fatta di province più che di città, umile com’era stata percepita la nostra penisola dai Troiani quando, al loro arrivo, la definirono una terra senza montagna (è questo il significato del dell’Eneide che dice: «umilemque vidimus Italiam»). E tale sarebbe rimasta nelle sue manifestazioni più eclatanti quando pronunciare il nome Italia significava evocare il senso di un successo: mi riferisco alla stagione cinematografica del neorealismo (il racconto dell’Italia dialettale che, capovolgendo ogni narratologia, viene fatta sfilare davanti alla macchina da presa a mo’ di divi hollywoodiani) e all’impressionante affermarsi di oggetti dalla natura artigianale, espressione anch’essi di una matrice umile, le arti applicate, che tuttavia resero celebre nel mondo il nome del made in Italy. Ma Pinocchio è soprattutto è l’emblema di un’antica solitudine cominciata dal fratricidio di Romolo e Remo, avvenimento anomalo se pensiamo che le nazioni fondano sé stesse sulla vittoria delle generazioni nuove sulle vecchie.

A noi è andata diversamente, perciò continuiamo a cercare i padri della nazione, che invece sono puntualmente mancati all’appello. Non lo era Cavour, non lo sarebbe stato De Gasperi, anch’egli un paradigma di umiltà. E qui si chiude il cerchio del nostro destino: essere un Paese di figli senza padri e, proprio per l’assenza dei padri, restare in attesa dell’uomo forte. Ne abbiamo avuti diversi dal giorno dell’Unificazione in avanti e tuttavia – ci suggerisce Zoja – Vittorio Emanuele II, Mussolini, Craxi, Berlusconi sono stati soltanto «in parte aspiranti padri» perché «abitualmente troppo impegnati a essere maschi».

https://www.doppiozero.com/luigi-zoja-litalia-sul-lettino

La maledizione del centro



Per un osservatore progressista, negli ultimi tempi, lo spettacolo della politica italiana si rivela assai sconfortante: lo scandalo del ministro Sangiuliano, la protezione offerta agli interessi corporativi di categorie come i balneari e i tassisti, il vano inasprimento delle leggi sull'ordine pubblico, lo stato delle carceri, l'evasione fiscale sarebbero tutti motivi atti a determinare una caduta dei consensi alla destra di governo. Invece i sondaggi dicono il contrario, le intenzioni di voto per la destra conservatrice non solo si mantengono, crescono addirittura, sia pure di poco. Il mistero ha una chiave che tanto misteriosa non è. Alla fin fine le mancanze della classe politica al governo scompaiono di fronte alle garanzie offerte al ceto medio contro le paure e le rabbie più o meno giustificate e diffuse in giro. Alcuni pensano che tutto questo accada perché manca una sinistra capace di fare il suo mestiere. Senza dubbio una sinistra più forte potrebbe mobilitare almeno in parte gli astenuti. Lo si vede dall'aumento dei consensi per l'Alleanza Verdi Sinistra. Aumento contenuto, tuttavia. Nessun terremoto elettorale in vista. Un terremoto ci potrebbe essere in compenso se il centro arrivasse a presentarsi in una forma attraente e degna di fiducia. Il futuro ci dirà se questa è una speranza fondata o una pia illusione. 

Alessandra Ghisleri, Il Pd boccia Renzi. Due elettori su tre contro il campo largo, La Stampa, 15 settembre 2024

... Le elezioni nazionali sono ancora lontane - se non accadono imprevisti - e per la politica esiste una vera prateria su cui lavorare, perché il quadro delle previsioni elettorali... dimostra che ancora un elettore su due non ha intenzione di votare; è allora utile ricordare che dietro ogni situazione complicata esiste sempre un'opportunità.

Marco Damilano, Quegli ego rissosi che hanno lasciato un vuoto al centro, Domani, 15 settembre 2024

... Nonostante le tante smentite arrivate dalla realtà, continuano a considerarsi l'ego della bilancia. La sola cosa che unisce Renzi e Calenda è la loro incapacità a fare un passo indietro. Conclusione: il posto del centro resta vuoto, in attesa di figure nuove e con un percorso credibile, opposto alle destre (esistono?). Ma intanto c'è uno spazio da occupare, nel corpo centrale della società, tra i non votanti. Un lavoro in più per l'opposizione e per il partito più grande, il Pd che si candida a guidare l'alternativa. 

Dario Di Vico, Ahi, la classe media, Il Foglio, 14 e 15 settembre 2024

C’è attenzione e interesse, e non solo negli States, per il progetto più volte evocato dalla candidata dem Kamala Harris di ricostruire la middle class, di individuare un percorso “oltre” l’attuale polarizzazione sociale. In fondo tutte le politiche centriste o riformiste che le si vogliano definire hanno in questa ricostruzione sociale il loro hic Rhodus, hic salta. Ma come si fa a ricostruire un tessuto sociale usurato se non stravolto? Bastano le policy, per altro ora solo annunciate, a cambiare il volto della società? Nel concreto Kamala Harris ha parlato finora dell’estensione della child tax credit, degli aiuti fiscali fino a 25 mila dollari per il pagamento dei mutui della prima casa e di regolamentare l’andamento dei prezzi introducendo misure di drastico controllo. Ma pur radicali e controverse che siano queste scelte di policy da sole possono riuscire a ricostruire le classi medie?

La domanda l’abbiamo girata ad Arnaldo Bagnasco, emerito di sociologia all’università di Torino e uno dei più attenti studiosi del ceto medio a cui ha dedicato negli anni numerosi studi e pubblicazioni. “In prima battuta verrebbe da dire no – risponde. Le classi medie sono tante cose diverse e si sono ancora più differenziate, sono l’insalata mista che interpretava il sogno americano, sfidato oggi in modo pesante da un cambiamento profondo. La percezione del destino sociale sembra slittare dalla prospettiva di classi medie capaci di crescere e inglobare a quella della disuguaglianza sociale. Non è cosa di poco conto. La disuguaglianza appare conseguenza di fattori endogeni e esogeni, come dato non passeggero e in aumento e in questo senso da vedere e studiare come fenomeno strutturale”.

Le policy sono quindi destinate di per sé a slittare sul terreno, a non riuscire a scaricarsi a terra e questo a prescindere dai loro contenuti più o meno ben costruiti? “Nelle condizioni di oggi non credo che possano essere misure di policy più o meno coerenti, combinazioni incentivanti e redistributive a fare da tappabuchi, a risolvere il problema della crisi della classe media. Non aspettiamoci uno stato ricostruttore del ceto medio. I cambiamenti sociali sono effetti di interazioni complesse, e la politica da sola non può ottenere risultati relativamente stabili ed efficienti su più fronti”.

Il rischio però è quella di considerare la politica impotente, totalmente estranea ai processi di cambiamento sociale. “No, la politica può trovare il modo adatto per fare la sua parte – continua Bagnasco –, può anche insistere oggi elettoralmente, in America, sul tema della classe media e ottenere qualche risultato necessario, ma la questione va vista in profondità, innestata su un progetto di economia e società capace di fronteggiare un assetto che genera disuguaglianza sociale, ormai sempre più percepita come tale”. Non si tratta solo di cercare di conservare nel mezzo un’area importante di reddito e consumi – aggiunge – ma di porre il tema dell’emergenza di nuove classi medie dentro quel progetto, riferito a nuove funzioni e nuovi equilibri economici, culturali e di interazione sociale. “E’ un punto cruciale: non si tratta per partiti progressisti semplicemente di raccattare consenso al centro, ma di farsi carico di una complessiva trasformazione della struttura sociale, controllando l’abnorme concentrazione di ricchezza, da un lato, e la crescita di un nuovo proletariato nei servizi allo sbando, dall’altro, che alimentano il populismo, indeboliscono la democrazia e generano inefficienza economica”.

Ma come si può definire o solo delimitare questo progetto perché non sembri irrealistico o solo una via per non rispondere a tono alle proposte dei democratici americani? “Si tratta di ripensare il capitalismo, e non so se i democratici americani sono incamminati su questa strada nelle attuali circostanze e con i rapporti di forza dati. Non so valutare, ma sicuramente sarebbe un impegno di lunga lena, che può al massimo ora cominciare ad essere individuato e magari in certa misura impostato”. La teoria economica e sociale, secondo Bagnasco, aiuta solo fino a un certo punto. “Le classi medie possono essere una pesante palla al piede ma anche forze innovative della storia e oggi utili per quel ripensamento del capitalismo di cui parlo”.

Il professore racconta che sta leggendo Ripensare il capitalismo, di Mazzucato e Jacobs e lo considera utile ai fini di questa discussione. “E’ un libro intelligente perché al di là da richiami spesso generici alle responsabilità del neoliberismo chiama a raccolta specialisti che affrontano diversi problemi del capitalismo contemporaneo, intrecciati tra loro, e discutono con proposte alternative le politiche che li generano”. Alcuni sono problemi economici come la crescita lenta, le strategie a breve termine, la logica della rendita nella competizione fra grandi monopoli, i vincoli eccessivi di equilibrio di bilancio, altri con implicazioni più direttamente sociali come appunto la crescita della disuguaglianza che richiede di ridefinire l’idea di performance economica (vedi Stiglitz) o le conseguenze della esternalizzazioni di servizi pubblici e dell’invadenza in politica delle grandi corporation (vedi Crouch). “Seguendo questa strategia analitica si potrebbe dunque cercare di individuare categorie sociali in potenza o già portatrici di interessi in una nuova direzione, incentivarne la capacità di influenza, creare ponti tra spezzoni di tale nuova classe media emergente in problemi concreti diversi. Questa potrebbe essere la via secondo la quale pensare possibili policy incisive per la questione della classe media, ciò che richiede anche di ridefinire i rapporti tra nuovo e vecchio ceto medio in trasformazione e, come detto, in una direzione riconoscibile di riforma economica e sociale”.

Va da sé che se adottiamo questo punto di vista il collante economico, sociale e politico di una nuova classe media, la sua promessa è la capacità di contrastare la polarizzazione sociale. “Sì, e in un senso nuovo; è una strada di lunga lena ma è utile e interessante già monitorare le politiche per diverse componenti della classe media in relazione a un’idea di riforma che può manifestarsi e magari così aiutarla ad emergere”.


La Maddalena di La Tour, una rassegna

 

Repentant Magdalene (1638),  National Gallery of Art, Washington DC



Il tema della Maddalena riveste un ruolo centrale nella storia dell'arte occidentale. E si capisce perché. La figura femminile più rappresentata in assoluto resta ovviamente la Vergine Maria, la madre di Gesù. Essa assume il profilo della santa, ha una figura dolce e amorevole, nei ritratti è avvolta dalle sue vesti, solo il collo, il volto, i piedi, le mani e le braccia si offrono allo sguardo dello spettatore. Altra cosa è Maria Maddalena, che è il personaggio femminile più rappresentato dopo la Vergine e che riunisce in sé due nature, in un primo tempo è la peccatrice, in un secondo tempo è la donna redenta. A un certo punto, nell'età moderna, la rappresentazione più libera del corpo si afferma, e questo per la Vergine Maria non sarebbe stato possibile. La Maddalena permette agli artisti di spostare l'attenzione dalla figura della madre affettuosa a quella della donna attraente e desiderabile. In tal modo torna in primo piano la peccatrice che si intravede dietro la donna redenta. Si veda per esempio l'opera di Tiziano (1533 circa) o quella di Artemisia Gentileschi (1615-1616). 


Il titolo di ogni quadro suggerisce una Maddalena penitente, tuttavia l'immagine trascende questa semplice definizione. La versione di Tiziano è decisamente più provocante. In quella di Artemisia, una certa sensualità traspare per via dell'ampia scollatura generosa e di una spalla nuda. Malgrado la Controriforma, nei secoli XVII e XVIII, persiste la tendenza a rappresentare l'immagine con una concretezza fisica e umana. Nel XIX secolo, si assiste a un'esplosione della nudità con Hayez (1833) e Canova (La Maddalena giacente).
Passando alla Maddalena di Georges de La Tour (1593-1652), non si tratta di un'unica rappresentazione, ma di quattro. Quattro dipinti dello stesso soggetto, come nella montagna Sainte Victoire di Cézanne; secondo Elias Canetti, l'ostinazione nel riprendere sempre lo stesso soggetto sarebbe dovuta a una volontà di resistenza alla morte; non è chiaro se questa interpretazione si applichi anche a Georges de La Tour. Fatto sta che la sua Maddalena  quattro volte ripetuta innova rispetto alla tradizione pittorica. Per trovare un paragone, bisogna tornare alla Maddalena di Giotto nella Cappella degli Scrovegni (1303-1305): in quel caso, la fisicità del volto e delle braccia era resa con estrema economia di mezzi, e la donna si protendeva verso Gesù che, in piedi, le chiedeva di fermarsi con un gesto della mano (Noli me tangere). La Maddalena di La Tour evoca per parte sua altre interpretazioni della figura femminile nella storia dell'arte, come la Gioconda di Leonardo e la madre di Cristo nelle sculture di Michelangelo, la Pietà in San Pietro e la Madonna con bambino di Bruges. In tutte queste opere, la figura rappresentata più che rimandare a una presenza viva dà corpo a un ricordo, che in Leonardo è reso dalla tecnica dello sfumato e in Michelangelo si cristallizza in una sorta di freddezza monumentale. La Maddalena di La Tour emerge dal buio alla tenue luce di una candela. È una donna giovane ridotta alla sua forma essenziale, con un volto assorto, è seduta, porta una gonna che lascia scoperte le gambe allineate in primo piano. Nel quadro è presente un teschio, motivo che ricorre spesso nell'iconografia del soggetto. Notevole è la presenza della candela che simboleggia la luce, la stessa vita umana nell'associazione con il teschio, l'anima individuale, il rapporto tra spirito e materia (la fiamma che consuma la cera). Il peccato e la redenzione non entrano per nulla in questo ordine di considerazioni, Quello che osserviamo attraverso il quadro è il profilo perenne, persistente nella memoria e immutabile nel tempo, della presenza femminile nel mondo degli uomini e della storia. 






The Magdalene with the smoking flame (1637),
Los Angeles Museum of Arts



The Penitent Magdalene (1639), New York, Metropolitan Museum of Art 



La Madeleine à la veilleuse (1640-1645), Louvre

https://machiave.blogspot.com/2015/07/la-leggenda-di-maria-maddalena.html
https://www.arte-mag.it/2023/06/26/georges-de-la-tour-e-le-maddalene-a-lume-di-candela/


venerdì 13 settembre 2024

Ettore e Andromaca, l'addio

Joseph-Marie Vien, Les adieux d'Hector et d'Andromaque, 1786, Museo del Louvre

Siamo abituati a pensare che la scena rappresenti il dilemma tra l'amore per la moglie e il dovere verso Troia in Ettore. Dilemma risolto dall'eroe che aderisce all'ideale del guerriero fedele alla patria. A ben vedere anche Andromaca segue l'andamento della guerra, va sulle mura a osservare gli scontri che si svolgono in basso. Tuttavia in lei prevale l'attaccamento alla vita del marito. Da lui dipende l'intero suo destino. Non sbaglia il pittore Vien quando pone Andromaca al centro della scena, con gli occhi sbarrati, mentre Ettore abbassa le palpebre, quasi per una ammissione di colpa. Dulce et decorum est pro patria mori, canta Orazio sulle orme di Tirteo che aveva a sua volta scandito: «Giacere morto è bello, quando un prode lotta per la sua patria e cade in prima fila». Un secolo prima di Tirteo, l'Iliade pur assegnando il giusto rilievo al patriottismo di Ettore rivela lo strazio prodotto nell'animo della donna dal sacrificio del marito guerriero, ostaggio di una sorte avversa. Andromaca donna di carattere ritorna nella tragedia omonima di Racine (1667). Ci sono varie ipotesi sul significato del suo nome. Alla luce di quanto si è detto, la più plausibile appare essere "colei che combatte audacemente" [viriliter pugnans].

Iliade, VI, versi 392-502, traduzione di Ettore Romagnoli


 Dette queste parole, l’eroe dal fulgente cimiero,
Ettore, mosse: e alla bella sua casa in un attimo giunse.
Ma non trovò nelle stanze la sposa dal candido braccio:
ch’essa col bimbo e l’ancella dal peplo fulgente, recata
s’era alla torre, e lí, piangeva, levava lamenti.
Ettore, poi che in casa non trovò la pura sua sposa,

sopra la soglia i passi fermò, si rivolse alle ancelle:
“Donne, di casa, andiamo, sapete di Andromaca dirmi,
sicuramente dove si trovi? Che fuor della casa.
Dalle cognate è andata fors’ella, o nel tempio d’Atena,
dove la Dea tremenda imploran le donne di Troia?». —
La dispensiera fida con queste parole rispose:
«Ettore, come tu chiedi, ti posso dar certa risposta.
Non già dalle cognate né al tempio d’Atena ella è andata,
dove la Dea tremenda imploran le donne di Troia;
ma sovra l’alta torre di Troia, quand’ella ha sentito
c’han gran vantaggio gli Achivi, che cadono stanchi i Troiani.
Subito allora è corsa di furia, verso le mura
come una pazza; e con lei la nutrice, recando il bambino».
La dispensiera disse così. Si spiccò dalla casa
Ettore, su la medesima via, per le belle contrade.
Ora, quand’egli, tutta la grande città traversata,
giunse alle porte Sceèe, dond’era l’uscita sul piano,
quivi gli venne contro, correndo, la florida sposa,
Andromaca
, la figlia d’Etíone dall’animo grande,
d’Etíone, che sottesse le selve abitava del Placo,
nell’Ipoplacia Tebe, di genti cilicie signore;
e d’Ettore, fulgente guerriero, fu sposa la figlia.
Contro or gli mosse; e l’ancella seguiala, che il bimbo recava
parvolo ancora, 
né ancora parola dicea, tra le braccia,
d’Ettore il figlio diletto, che un astro del cielo sembrava.
Ettore lo chiamava Scamandrio; ma gli altri Troiani
Astïanatte: ché il padre, da solo era schermo di Troia.
Ecco, e sorrise in silenzio, com’egli il suo pargolo vide.
Ma, lagrime versando, vicina gli venne la sposa,
e per la man lo prese, gli volse cosí la parola:

«Misero te, la tua furia sarà la tua perdita, e il bimbo
non ti commuove a pietà, non io sciagurata, che presto
vedova rimarrò di te: ché ben presto gli Achei
t’uccideranno, piombando su te tutti insieme. Ed allora,
quando di te sarò priva, meglio è ch’io discenda sotterra;
poi che nessun conforto, se un tristo destino ti coglie,
piú mi rimane, ma solo cordoglio. Non padre, non madre
piú mi rimane. Ché il padre m’uccise il terribile Achille,

e la fiorente abbatté popolosa città dei Cilíci,
Tebe dall’alta porta. Die’ morte ad Etíone Achille,
né lo spogliò dell’armi, ché n’ebbe nel cuor peritanza;
ma, chiuso ancor nell’armi sue belle, lo diede alle fiamme,
e su le ceneri il tumulo estrusse; e le Ninfe montane,
figlie di Giove, che l’ègida scuote, lo cinsero d’olmi.
Nella mia casa con me vivevano sette fratelli;
ma nello stesso giorno piombarono tutti nell’Ade;
ché tutti quanti Achille, l’eroe piú gagliardo, li uccise,
presso alle tarde loro giovenche, alle pecore bianche.
La madre mia, la sposa del sire di Tebe Ipoplacia,
qui la condusse Achille con l’altre sue prede di guerra.
Poi rimandata l’aveva, ché n’ebbe riscatto infinito;
ma nella casa del padre, d’Artèmide un dardo la spense.
Ettore, dunque per me tu sei padre, sei tenera madre,
fratello sei per me, sei florido sposo.
 Oh, t’imploro,
muoviti adesso a pietà! Rimani con noi sulla torre,
non lasciar orfano il bimbo, né vedova me tua compagna!
E presso il caprifico la gente raccogli, ove il varco
s’apre piú facile verso la rocca, e piú agevole è il muro:
ché già l’hanno tentato tre volte i piú prodi guerrieri,
stretti agli Aiaci intorno, intorno ai due figli d’Atrèo,
a Idomenèo, valoroso campione, al figliuol di Tidèo,
sia che scaltriti li abbia qualcuno d’oracoli esperto,
sia che l’animo loro li spinga e costí li diriga».
Ettore grande, il prode dall’elmo corrusco, rispose:
«Di tutto questo anch’io pensiero mi do, sposa mia;
ma dei Troiani troppo temo io, delle donne troiane,
se come un vile in disparte mi faccio, se schivo la guerra;
né mi v’induca il mio cuore, ché appresi a condurmi da prode,
sempre,
 a combattere sempre fra i primi guerrieri di Troia,
gloria pel padre mio, per me gloria sempre acquistando.
E bene questo io so: me lo dicono l’anima e il cuore:
giorno verrà che cadrà la rocca santissima d’Ilio,
ed il re Priamo, e la gente di Priamo, maestra di lancia.
Ma non cosí dei Troiani la doglia futura mi cruccia,
non d’Ècuba mia madre, né pure del vecchio mio padre,
né dei fratelli miei, che molti, che forti, dovranno
sotto i nemici colpi cader nella polvere spenti,
come di te, quando alcuno dei duri guerrieri d’Acaia
via lagrimosa ti tragga, lontana dai liberi giorni,
e in Argo debba tu filare al telaio d’un’altra,

e da Messíde l’acqua tu debba portar, da Iperèa,
ben repugnante; ma pure costretta sarai dal destino.
E forse alcun dirà, vedendo che lagrime versi:
«D’Ettore è questa la sposa, che primo fra tutti i Troiani
era in valor, quando a Troia d’attorno ferveva la pugna».
Questo qualcuno dirà, nuova doglia sarà nel tuo cuore,
priva dell’uom che potrebbe strapparti alla vita servile.
Ah! Ma la terra sparsa sovresso il mio corpo mi asconda,
pria che il tuo lagno ascolti,
 che via tratta schiava io ti sappia!».
Poi ch’ebbe detto cosí, le mani tese Ettore al bimbo.
Ma con un grido il bambolo il viso nascose nel grembo
della nutrice bella, sgomento all’aspetto del padre:
ché sbigottí, vedendo rifulgere il bronzo, ed i crini
terribilmente ondeggiare su l’alto cimiero de l’elmo.
Sorrise il padre caro, sorrise la nobile madre.
E súbito dal capo via l’elmo si tolse l’eroe,
e a terra lo posò, che fu tutto un barbaglio di raggi.
Quand’ebbe poi baciato, palleggiato il figlio suo caro,
tale preghiera a Giove rivolse ed a tutti i Celesti:
«Giove, e voi tutti, o Numi, deh!, fate che tale divenga
questo mio figlio, quale sono io, dei Troiani l’insigne,
forte cosí di membra, sicuro signore di Troia.

E quando ei tornerà dal campo, taluno abbia dire:
«Questi è più forte molto del padre!». E, trafitto il nemico,
rechi di sangue intrise le spoglie; e s’allegri la madre».
Detto cosi, fra le braccia depose alla sposa diletta
il suo bambolo. Andromaca al seno odoroso lo strinse,
e fra le lagrime rise. 
vide lo sposo quel riso,
e si commosse, 
e a farle carezza distese la mano:
«O poverina! — le disse — non stare ad affliggerti troppo:
ché contro il fato nessuno potrà giù nell’Ade piombarmi:
ché la sua sorte, ti dico, nessuno degli uomini schiva,
né buono, né malvagio, come essa per lui sopraggiunga.
Via, dunque, adesso, a casa ritorna, ed all’opere attendi,
alla tua rocca, al telaio, partisci comandi alle ancelle,
ch’esse lavorino. E gli uomini, quanti ne nacquero in Ilio,
— io più che tutti gli altri — dovranno pensare alla guerra».

Draghi profeta per caso


 La diagnosi da lui avanzata mentre l’Europa scivola nel deserto economico è ampiamente condivisa dagli esperti. Cosa fare al riguardo è la parte difficile. (politico.eu)

Roberto CiccarelliMomento Draghi: l’Europa si salva con le armi e i capitali, il manifesto, 10 settembre 2024

Armi, microchip, intelligenza artificiale e «energia green» per salvare i diritti sociali senza però rimediare ai danni di 40 anni di neoliberalismo. Avvolto in un’aura sacrale Mario Draghi ieri è tornato a indossare i panni del profeta.

PRESENTANDO il rapporto sul «Futuro della competitività» chiesto dalla presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ieri Draghi ha detto che l’Europa «corre un rischio esistenziale». È il vaso di coccio nella guerra industriale e commerciale tra Stati Uniti e Cina. Per evitare di mettere fine al «modello sociale europeo», o meglio di ciò che ne resta sotto altre spoglie, l’Unione europea deve ripensarsi radicalmente e varare uno strumento finanziario di «debito comune» da 800 miliardi di euro all’anno. Insomma, un Next Generation Eu (chiamato in Italia «Piano nazionale di ripresa e resilienza – Pnrr») moltiplicato per otto. Ogni anno.

UNA MONTAGNA DI SOLDI che dovrebbero finanziare principalmente l’industria dei missili e dei carri armati, della tecnologia digitale, delle infrastrutture. L’obiettivo è partecipare a uno speciale campionato, quello della guerra dei capitali, in cui formare «campioni europei» che, forse in un giorno non precisabile, potranno competere con gli oligopoli statunitensi e i cinesi. La pace, i diritti, la politica si fanno con le armi in pugno.

IL PROGETTO è stato ufficializzato due giorni prima dalla composizione della nuova Commissione Europea. A dire di Von Der Leyen, che ieri ha affiancato Draghi in uno show annunciato, l’ambizioso testo è già «sul tavolo del Consiglio» dove siedono i governi degli Stati membri. I commissari designati all’esecutivo europeo dovranno impegnarsi ad applicare le 170 proposte riassunte, in maniera legnosa, in 62 pagine. Anche se non porta benissimo, visti gli esiti che ha prodotto in Italia, il rapporto è stato ribattezzato «Agenda Draghi» dall’entusiasta Partito democratico in giù. Critici invece l’Alleanza Verdi Sinistra e Cinque Stelle.

CON UN’EUROPA politicamente a pezzi, dilaniata dallo scontro tra il mercantilismo e il nazionalismo, è remota la possibilità di realizzare interamente il piano Marshall intestato a Draghi, più che doppio in termini di investimenti rispetto al Prodotto Interno Lordo: 5% annuo contro l’1-2% degli anni Quaranta del XX secolo). Del resto, tentativi non così ambiziosi, ma comunque significativi quanto quello di Draghi, sono stati già fatti nella storia dell’Unione Europea. Nel 2019 ci provò Jean-Claude Juncker. Passò quasi del tutto inosservato. Altra pasta d’uomo si direbbe. Poco aduso alle magie linguistiche, e all’autorevolezza, di Draghi. Ma le difficoltà restano, sono tante. Al punto che Draghi potrebbe mantenere il suo status di profeta inascoltato mentre l’Europa nei prossimi cinque anni andrà in tutt’altra direzione rispetto a quella da lui auspicata.

L’EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO è un funambolo del realismo capitalista. Lui è pragmatico. Per questo non ha indicato una tabella di marcia, ha messo solo in fila raccomandazioni. È consapevole che può fare irritare i governi importanti. Ad esempio il ministro tedesco delle finanze Christian Lindner che non intende sentire parlare di debito comune europeo.

VON DER LEYEN, nelle acque agitate che si intravvedono, potrebbe presto trovarsi in difficoltà. Starà a lei trovare i compromessi per realizzare la visione di Draghi. Ieri non ha voluto rovinare la magia del momento: «Saranno necessari fondi comuni per alcuni progetti europei comuni. Il compito è ora definire questo progetto – ha detto – Poi definiremo se li finanzieremo con nuovi contributi nazionali o con nuove risorse proprie».

UN ALTRO PUNTO POLITICO rilevante del rapporto Draghi è la riforma del voto all’unanimità senza ricorrere a impegnative revisioni dei trattati europei. Ciò potrebbe portare a un’Europa delle «cooperazioni rafforzate». Draghi suggerisce di adottare un «nuovo quadro di coordinamento della competitività». Se l’Ue è bloccata dai veti incrociati, allora bisogna creare una «coalizione di volenterosi». L’ex banchiere si è reso conto di avere citato il tragico Bush figlio. E ha precisato: l’hanno fatto in un «altro contesto». La possibilità di creare una simile «coalizione» è da verificare nell’attuale congiuntura. Con Marine Le Pen che etero-dirige il governo macronista in Francia e con l’Afd che sta con il fiato sul collo del pallido Olaf Scholz. La creazione di un debito comune presuppone una maggiore concentrazione politica ed economica. Difficile come prospettiva.

DRAGHI HA DATO UNA FORMA politica a un’altra trasformazione osservata negli anni della guerra russa in Ucraina e dell’allineamento dell’Ue alla Nato. La sua idea è di cambiare il paradigma della politica estera continentale in una «politica della sicurezza economica». In un mondo in cui la guerra si fa sia con le armi che con il protezionismo economico la politica estera deve coordinare quella industriale, la concorrenza e il commercio.

LO SCOPO È RAGGIUNGERE una «capacità industriale di difesa indipendente». Questo significa che invece di «produrre dodici diversi tipi di carri armati» bisogna produrne uno solo «come negli Stati Uniti». La raccomandazione di Draghi è modificare le norme sulla concorrenza. Ciò allude all’esenzione degli investimenti in armi dai calcoli del «patto di stabilità». Richiesta avanzata dal governo italiano nell’interesse delle industrie della guerra.

IL DOCUMENTO RESTITUISCE la cifra autoritaria e tecnocratica della politica. A tale proposito è interessante rileggere oggi una lettera inviata a Draghi e Von Der Leyen l’otto maggio scorso. È stato firmato da organizzazioni della «società civile» che hanno denunciato la «mancanza di trasparenza» e il «rischio di cattura da parte del big business». «La filosofia complessiva di Draghi – si legge – permetterà alla concentrazione del mercato di aumentare ulteriormente in Europa, danneggiando i consumatori, i lavoratori e le piccole imprese europee e minando di fatto la nostra competitività». «Porterà a una situazione in cui i grandi cosiddetti “Campioni d’Europa” vengono sovvenzionati in modo improduttivo con denaro pubblico, mentre importanti obiettivi sociali, economici e ambientali vengono sacrificati a vantaggio degli azionisti di queste imprese dominanti».

SU QUESTA «FILOSOFIA» è stato costruito il Next Generation Eu e il Pnrr in Italia al quale si pensa più per il metodo di finanziamento che per il coinvolgimento delle cittadinanze, che non c’è stato. Se uno Stato sociale ci dev’essere, esso sarà la conseguenza di una «crescita» del mercato dei capitali e della capacità di produrre microchip, pale eoliche e cannoni.

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Thomas Piketty, "Il rapporto Draghi ha l'immenso merito di stravolgere il dogma dell'austerità di bilancio", Le Monde, 14 settembre 2024

Diciamolo subito: il  rapporto sulla competitività e il futuro dell'Europa  presentato da Mario Draghi alla Commissione Europea va nella giusta direzione.

Per l’ex presidente della Banca centrale europea (BCE), in futuro l’Unione europea (UE) dovrà effettuare 800 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi all’anno – l’equivalente del 5% del suo prodotto interno lordo (PIL) –, ovvero circa tre volte il Piano Marshall (tra l’1% e il 2% del Pil in investimenti annuali nel dopoguerra).

Il continente tornerà così al livello di investimenti degli anni ’60 e ’70. Per raggiungere questo obiettivo, il rapporto propone di ricorrere all’indebitamento europeo, come è stato fatto con il piano di ripresa da 750 miliardi di euro adottato nel 2020 per far fronte al Covid-19. Solo che ora si tratta di raccogliere ogni anno tali somme per investire in modo sostenibile nel futuro (in particolare nella ricerca e nelle nuove tecnologie), e non di finanziare una risposta eccezionale alla pandemia. Se l’UE si dimostrerà incapace di effettuare questi investimenti, il continente entrerà in una “lenta agonia” di fronte agli Stati Uniti e alla Cina, avverte il rapporto.

Possiamo non essere d’accordo con Mario Draghi su diversi punti essenziali, in particolare sulla composizione precisa dell’investimento in questione, il che non è roba da poco. Resta il fatto che questa relazione ha l’immenso merito di torcere il collo al dogma dell’austerità di bilancio.

Secondo alcuni, in Germania ma anche in Francia, i paesi europei dovrebbero pentirsi dei deficit passati ed entrare in una lunga fase di avanzi primari dei conti pubblici, vale a dire una fase in cui i contribuenti dovrebbero pagare molte più tasse di quelle che pagano. ricevere in spesa, per ripagare urgentemente gli interessi del debito e il capitale.

La manna del risparmio

In realtà, questo dogma dell’austerità si basa su un’assurdità economica. In primo luogo perché negli ultimi vent’anni i tassi di interesse reali (al netto dell’inflazione) sono scesi a livelli storicamente bassi in Europa e negli Stati Uniti: meno dell’1% o del 2%, o talvolta addirittura livelli negativi. Ciò riflette una situazione in cui c’è un’enorme manna di risparmi poco o scarsamente utilizzati in Europa e su scala globale, pronti a confluire nei sistemi finanziari occidentali quasi senza alcun ritorno. In una situazione del genere, spetta alle autorità pubbliche mobilitare queste somme per investirle nella formazione, nella sanità, nella ricerca e nelle nuove tecnologie, nelle grandi infrastrutture energetiche e di trasporto, nella ristrutturazione termica degli edifici, ecc.

Per quanto riguarda il livello del debito pubblico, è effettivamente molto elevato, ma non senza precedenti: è vicino a quello osservato in Francia nel 1789 (circa un anno di reddito nazionale), ed è significativamente inferiore a quelli osservati nel Regno Unito dopo le guerre napoleoniche e nel XIX secolo  (due anni di reddito nazionale) e in tutti i paesi occidentali alla fine delle due guerre mondiali (tra due e tre anni).

Tuttavia, ciò che la storia dimostra è che non è possibile affrontare tali livelli di debito con metodi ordinari: sono necessarie misure eccezionali, come i prelievi sui patrimoni privati ​​più elevati, come quelli applicati con successo in Germania e Giappone nel dopoguerra. Quando i tassi di interesse reali aumenteranno, dovremo fare lo stesso coinvolgendo multimilionari e miliardari. Alcuni diranno che è impossibile, ma in realtà è solo un gioco di scrittura al computer. Lo stesso non vale per il riscaldamento globale o per le sfide legate alla salute pubblica o alla formazione, che non si risolveranno con un tratto di penna.

Approccio esperto di tecnologia

Se ora esaminiamo i dettagli delle proposte del rapporto Draghi, c'è ovviamente molto di cui lamentarsi, ed è tanto meglio. Dal momento in cui accettiamo il principio secondo cui l’Europa deve investire in modo massiccio, è positivo che si esprimano diverse visioni sul tipo di modello di sviluppo e sugli indicatori di benessere che desideriamo attuare.

In questo caso, Draghi si affida a un approccio tecnofilo, commerciale e consumistico abbastanza tradizionale. Sottolinea i grandi sussidi pubblici per gli investimenti privati ​​nella tecnologia digitale, nell’intelligenza artificiale e nell’ambiente. Possiamo però legittimamente pensare che l’Europa debba, al contrario, cogliere l’opportunità di sviluppare altre modalità di governance ed evitare di dare, ancora una volta, pieni poteri ai grandi gruppi capitalisti privati ​​per gestire i nostri dati, le nostre fonti energetiche o le nostre reti di trasporto .

Draghi prevede anche investimenti pubblici adeguati, ad esempio nella ricerca e nell’istruzione superiore, ma in un modo troppo elitario e restrittivo. Propone quindi che il Consiglio europeo della ricerca finanzi direttamente le università (e non più solo singoli progetti di ricerca), il che sarebbe un'ottima cosa. Purtroppo il rapporto suggerisce di concentrarsi solo su pochi centri di eccellenza nelle grandi metropoli, il che sarebbe economicamente pericoloso e politicamente inaccettabile. Per quanto riguarda la sanità pubblica e gli ospedali, essi sono quasi del tutto assenti dal rapporto.

In generale, affinché un simile piano di investimenti venga adottato, è essenziale che le aree svantaggiate e le regioni più svantaggiate – tra cui, ad esempio, la Germania – ne traggano beneficio e traggano benefici massicci e visibili. Se Francia, Germania, Italia e Spagna, che riuniscono tre quarti della popolazione e del Pil della zona euro, riusciranno a trovare un compromesso equilibrato e inclusivo sul piano sociale e territoriale, allora sarà possibile andare avanti senza aspettare. all’unanimità e facendo affidamento su uno zoccolo duro di paesi (come prevede il rapporto Draghi). Questo è il dibattito che ora deve iniziare in Europa.


 








giovedì 12 settembre 2024

La memoria e la speranza

Enea con Anchise (la memoria)  e Ascanio (la speranza) sbarca in Italia

Gian Piero Quaglino Augusto Romano, A spasso con Jung, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005

Non c'è racconto d'avventura che si rispetti che non veda a un certo punto della storia (all'incirca a tre quarti) l'eroe in crisi e vicino a soccombere nella lotta con l'antagonista. Poi, di volta in volta, un aiuto esterno, un'invenzione improvvisa o il ricorso alle ultime energie ribaltano la situazione e avviano la vicenda alla sua risoluzione, al suo "scioglimento": l'eroe è vittorioso, il cattivo di turno è sconfitto. Come dire: crisi e lisi. Nel grande universo avventuroso è questo un motivo dominante, un topos ricorrente e ripetitivo. Probabilmente, con esso si vuole mostrare anche al più distratto di noi che la nostra umana impresa incontra talvolta alcuni passaggi obbligati a cui non ci si può sottrarre, passaggi che ci vedono costretti al confronto con l'avversità e l'ostilità, avvinghiati nel combattimento, imprigionati quasi in un groviglio di pensieri e di emozioni da districare: e in altrettanti nodi da sciogliere (nuovamente).
Critica è infatti ogni situazione grave e pericolosa, decisiva e ardua, che impone, se ne richiamiamo l'etimologia, giudizio rigoroso e approfondito, distinzione e separazione, contesa e conflitto. Critica è anche ogni situazione che mette alle corde [...] tutta la nostra esperienza passata e tutte le conoscenze di cui siamo in possesso: che per certi aspetti incatena la nostra storia e la azzera. Qualcuno sostiene che, intrappolati in una crisi, il nodo più difficile corrisponda sempre all'interrogativo: "Perché è capitata proprio a me?" o  "Quale errore ho commesso per meritare questa punizione?" Siccome a questi interrogativi non c'è risposta, ecco il nostro sentirci disarmati: completamente arresi a noi stessi, al nostro passato. Qualcun altro sostiene invece che, essendo la crisi un annuncio di lisi, dunque di una fine intravista (se non di un atteso "lieto fine"), essa non fa che stringere ancor più il nodo, imponendo un secondo più arduo interrogativo: "Ci sarà un'altra storia? Continuerà oltre la fine?" E, dal momento che anche a questi interrogativi non ci sarà risposta, ecco il nostro sentirci non solo disarmati, bensì inermi: daccapo arresi a noi stessi, ma questa volta al nostro futuro.
Quali sono dunque le armi che mancano all'appello, le risorse più preziose (i colpi più "segreti") di cui ci ritroviamo privati, una volta piombati in crisi? Sono quelle della nostra storia, evidentemente: la memoria, da un lato, e la speranza, dall'altro, le uniche armi che potrebbero consentirci di trasformare (così è nell'ideogramma cinese corrispondente proprio al termine crisi) le difficoltà in opportunità: cioè di oltrepassare le peripezie, di "svolgere" i nodi e forse addirittura di conquistare la certezza, come talvolta accade, e come sostiene Christiane Singer, che "le crisi avvengono per evitarci il peggio". 
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 -liṡi [dal gr. λύσις (in composizione -λυσις) «scioglimento, separazione», der. di λύω «sciogliere»]. – 1. Secondo elemento, atono, di parole composte derivate dal greco (come analisicatalisidialisi) o formate modernamente nel linguaggio scient., particolarmente della chimica e della fisica (come elettrolisiidrolisipirolisi, ecc.), nelle quali significa in genere «scomposizione, separazione, demolizione, degradazione chimica, soluzione»; mentre nel primo gruppo il suffisso si unisce a una preposizione, nel secondo si unisce a una base nominale, la quale rappresenta l’agente strumentale che opera la separazione. 2. Nel linguaggio della biologia, e soprattutto della medicina, con pronuncia generalmente piana, è usato con due diverse accezioni: a. Distacco, rimozione di aderenze patologiche mediante intervento chirurgico (come in cardiolisicorelisisalpingolisi, ecc.), intervento che può avere anche lo scopo di restituire mobilità a un organo o elemento anatomico (per es., artrolisi). In questo gruppo, come nel seguente, il primo elemento è ancora una base nominale, che rappresenta però il soggetto passivo della lisi. b. Dissoluzione, distruzione, usura, soprattutto di elementi o tessuti dell’organismo (emolisiistolisiosteolisi, ecc.), o processo di digestione, di dissoluzione, per lo più enzimatica o microbiologica, di materiale organico (batteriolisiproteolisi).