lunedì 30 settembre 2024

Il papa contestato dai cattolici

 


E' successo in Belgio e la cosa non stupisce.

Domenico Agasso, L'Università di Lovanio contro il Papa: "Conservatore sulla questione femminile", La Stampa, 30 settembre 2024

Nel penultimo giorno di visita papale in Belgio, in una nota successiva al dialogo nell’aula magna, l’Ateneo contesta le parole sulle donne pronunciate da Francesco,  esprime «disapprovazione» e «disaccordo», e definisce le affermazioni del Pontefice «incomprensibili». Peraltro il trattamento e il saluto riservato al Vescovo di Roma sono calorosi, scanditi da cori «viva il Papa», musica jazz e applausi scroscianti (pur non unanimi).

Bergoglio davanti agli studenti e alla rettrice Françoise Smets ha parlato della figura femminile rispondendo a una missiva letta dai giovani, in cui si denuncia che «le donne sono invisibili» nelle Sacre Stanze: «La teologia cattolica tende a rafforzare questa divisione attraverso la sua “teologia della donna”, che ne esalta il ruolo materno e le proibisce l’accesso ai ministeri ordinati». Il Papa riconosce che «pesano qui violenze e ingiustizie, insieme a pregiudizi ideologici». Ma ribadisce che la Chiesa «è donna, non è maschio». Allo stesso tempo, però, sui ruoli avverte che «non siamo una multinazionale», e «ciò che è caratteristico della donna non viene sancito dal consenso o dalle ideologie. È brutto quando la donna vuole fare l’uomo». C'è la «dignità» che «è un bene inestimabile», e che «nessuna legge umana può dare o togliere». A partire da questo «la cultura cristiana elabora sempre nuovamente la vocazione e missione dell’uomo e della donna e il loro reciproco essere per l’altro, nella comunione. Non l’uno contro l’altro, in opposte rivendicazioni, ma l’uno per l’altro».
Alcuni minuti dopo l’Università bolla come «una posizione riduttiva» quella del Papa. L’Ateneo afferma di essere una realtà «inclusiva» impegnata a «combattere il sessismo e la violenza sessuale». E fa appello alla Chiesa affinché «segua lo stesso cammino senza discriminazione».

Il comunicato

Dans un communiqué, l'UCLouvain a remercié le Pape François  "d'avoir répondu et de partager les préoccupations majeures exprimées par 50 membres de sa communauté".  L'université "déplore néanmoins les positions conservatrices exprimées par le Pape François quant à la place des femmes dans la société". 
"L'UCLouvain exprime son incompréhension et sa désapprobation quant à la position exprimée par le Pape François concernant la place des femmes dans l'Eglise et dans la soicété", poursuit le communiqué. 
Dans sa réponse à la lettre rédigée par des étudiants, doctorants et professeurs de l'UCLouvain, le Pape a notamment déclaré : "La femme est accueil fécond, soin, dévouement vital". Pour l'université, cette position est "déterministe et réductrice". 

En Belgique, le pape François ne convainc pas toutes les victimes de violences sexuelles dans l’Eglise catholique (lemonde.fr)

Mussolini e il delitto Matteotti


Delitto Matteotti. Il trasporto della salma


Giovanni Sabbatucci

 È un pomeriggio caldo quello del 10 giugno 1924. Giacomo Matteotti esce di casa e non vi ritorna più. Non è di un deputato qualsiasi il corpo massacrato che verrà trovato due mesi dopo in un bosco vicino Roma. Solo dieci giorni prima della sua sparizione Matteotti ha tenuto un discorso infuocato alla Camera, contro il fascismo e l'irregolarità delle elezioni. È il leader di uno dei maggiori partiti di opposizione, forse il leader dell'intera opposizione. Non è difficile collegare i due avvenimenti, il discorso e la morte, né scoprire che gli autori del delitto, che non si sono preoccupati di cancellare le tracce, sono uomini dello stretto entourage del Duce. Ce n'è abbastanza per far scoppiare il più clamoroso scandalo politico della storia d'Italia. E ce ne sarebbe abbastanza per le dimissioni immediate del governo. Tutto sembra far credere a una crisi. Ma non è questo che accade. L'opposizione parlamentare sceglie la strada della protesta morale, il governo resiste, la maggioranza non accenna a spaccarsi, il regime si consolida. Mussolini, il trionfatore delle elezioni del '24 contro le quali aveva tuonato Matteotti, forza la sorte e instaura la 'dittatura a viso aperto'. Quel delitto che sarebbe potuto essere l'ultima occasione di arrestare il regime, ne diviene invece il punto di svolta, lo snodo decisivo. Ma quel corpo abbandonato e quel rifiuto morale si caricano di un significato simbolico. L'atto di morte del deputato Matteotti è l'atto di nascita dell'antifascismo come scelta politica ed etica.

Le responsabilità di Mussolini
Giovanni Sale, La Civiltà Cattolica, 1 giugno 2024

Quale fu la responsabilità di Mussolini nella vicenda del delitto Matteotti? Fu lui il mandante del delitto, oppure no? Ebbe una responsabilità diretta nella realizzazione dello stesso, oppure una responsabilità soltanto indiretta, vale a dire soltanto politica o morale? Il dibattito storico su questa delicata materia è ancora aperto: su essa pesano molto, al di là della lettura degli atti processuali e della documentazione che è stata pubblicata, i diversi punti di vista degli interpreti, non sempre scevri, in realtà, di partigianeria ideologica.

Secondo alcuni storici, Mussolini sarebbe stato il mandante materiale del delitto. Questa posizione è stata sostenuta in passato, spesso sulla base di motivazioni molto generiche, da diversi intellettuali di sinistra, ed è riapparsa in più recenti pubblicazioni, trovando maggiore attenzione da parte degli storici. Secondo altri, invece, a Mussolini andrebbe imputata soltanto la responsabilità morale e politica del delitto. Essi parlano dello zelo eccessivo di alcuni uomini vicini al Duce, come Marinelli e compagni, che, prendendo spunto da alcune parole – quelle riguardanti la Ceka – pronunciate da Mussolini in un momento d’ira, si decisero ad agire, nella presunzione che con quelle parole egli intendesse eliminare Matteotti. Questa posizione è stata sostenuta in sede processuale da Rossi – nemico giurato del Duce – ed è sostanzialmente condivisa anche dal maggiore biografo di Mussolini, Renzo De Felice.

La crisi politica conseguente
Giuliano Procacci, Storia degli italiani

Parve per un momento che il vuoto dovesse farsi attorno al governo, la cui complicità nell'assassinio ben pochi mettevano in dubbio. Molti distintivi fascisti scomparvero dagli occhielli delle giacche e Mussolini stesso ebbe la sensazione del proprio isolamento. Ben presto però egli ritrovò la sua baldanza, perché da una parte l'opposizione parlamentare, guidata da Giovanni Amendola, dopo aver abbandonato l'aula di Montecitorio (la cosiddetta secessione dell'Aventino), non seppe fare appello al paese e proporre una reale alternativa, paralizzata ancora una volta dalla paura della rivoluzione, e d'altra parte perché poté contare sull'appoggio del re e sulla neutralità del Vaticano. Il 3 gennaio 1925 Mussolini si presentò alla Camera per assumersi tutta la responsabilità del delitto Matteotti e per sfidarla provocatoriamente ad avvalersi della facoltà di metterlo sotto stato d'accusa. La Camera, non accettando il guanto di sfida che le veniva lanciato, segnò praticamente la propria condanna a morte e lo Stato liberale cessò definitivamente di esistere. 

Il discorso del 3 gennaio 1925   https://it.wikisource.org/wiki/Discussione:Italia_-3_gennaio_1925,_Discorso_sul_delitto_Matteotti
In viaggio con Barbero - Il Caso Matteotti (la7.it)



domenica 29 settembre 2024

Il postmoderno



Francesco LongoChi era Fredric Jameson, l’autore della Bibbia del postmoderno, Rivista Studio, 23 settembre 2024


Non ha inventato la categoria di postmoderno ma ha reso questa parola un passepartout per afferrare processi molto diversi della contemporaneità: con questa chiave aveva accesso a fenomeni artistici, politici, culturali, architettonici, economici, ideologici, letterari, filosofici. Senza il lavoro di Jameson oggi non sapremmo interpretare molto aspetti del mondo in cui viviamo. Leggendario teorico della cultura, star degli studi marxisti negli Stati Uniti, professore multidisciplinare di letterature comparate, è studiato in ogni angolo del pianeta, nella metà degli anni Ottanta è già invitato a tenere conferenze nelle università cinesi.

È proprio in quegli anni, nel 1984, che pubblica su New Left Review “Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism“, un saggio capitale, provocatorio e illuminante, che in Italia arriva grazie a Garzanti, un libretto di culto, poche pagine esplosive che formano una guida per districarsi in un’epoca indecifrabile. Il suo affondo è evocativo, rivelatore, capace di scoprire verità e di divulgarle a tutti. Nel 1991 esce il volume dal titolo Postmodernismo in cui espande quello studio precedente (in Italia sarà pubblicato da Fazi nel 2007). Questo libro è ancora la bibbia per chi vuole occuparsi del concetto di postmoderno, parola spesso scivolosa, molto spesso fumosa, fraintesa, finita per essere usata per definire tutto e il contrario di tutto. Per Jameson il postmoderno è un periodo storico e tutto ciò che accade quando la modernità ha esaurito la sua energia. Prodotti culturali compresi, ovviamente, che risponderebbero a logiche economiche, quelle del luna park chiamato tardo capitalismo. Tra le pagine indimenticabili di quel saggio, il confronto tra le scarpe rappresentate da Van Gogh e quelle di Andy Warhol, la lettura dell’hotel Bonaventura rivestito di specchi progettato da John Portman a Los Angeles, i romanzi di E. L. Doctorow, il cinema di David Lynch. Jameson è soprattutto un osservatore di forme, e in tutto ciò che vede coglie tratti comuni: la crisi della Storia, la lenta scomparsa del passato, la debolezza della realtà, il predominio su tutto della nostalgia, la sofferenza di stili ridotti a semplici giochi d’intrattenimento, inseriti nel frullatore di artisti incapaci di inventare qualcosa di veramente nuovo. Secondo Jameson il mondo ha perso profondità, tende a diventare una sterminata Disneyland dove tutto le caratteristiche delle epoche precedenti collassano tra loro.

La frase di Jameson più citata e più celebre resta: «È più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo». Anni dopo proverà a spiegare che non intendeva negare la possibilità di una rivolta contro il sistema capitalistico, perché ciò, tra l’alto, avrebbe sabotato la sua energia critica. Ma la frase resta emblematica del suo modo di intendere le ideologie e in particolare l’età del postmoderno: qualcosa in cui siamo totalmente immersi e che ci rende impossibile guardare oltre. Il suo incipit più fulminante invece è «Storicizzare sempre!», con cui si apre l’altro suo capolavoro, L’inconscio politico (del 1981), concentrato sui risvolti simbolici delle narrazioni letterarie.

Per affrontare Jameson bisogna essere pronti a lasciarsi travolgere dalla potenza dell’immaginario collettivo, passare da Hegel a Raymond Chandler, perdersi in una giostra planetaria di riferimenti a nuovi linguaggi, a paesaggi urbani trasformati dal denaro, aggirarsi tra metropoli di carta e insegne di Las Vegas. Tutto il discorso del postmoderno nasce infatti dall’architettura, da edifici improvvisamente piacevoli, colorati, divertenti, “architettura ludica”, incompatibili con il modernismo novecentesco. Da lì, procedendo in ogni direzione, legge tutto come segnale della fine della modernità. Il suo argomentare è complesso ma non oscuro (non è ostico come sfogliare Jacques Derrida o Jacques Lacan), per essere un marxista non è chiuso in una coltre ideologica, né in un linguaggio oracolare (ha dialogato con i teorici della Scuola di Francoforte ma è andato per la sua strada). Si percepisce chiaramente in ogni pagina una curiosità senza freni, il richiamo irresistibile di un mondo in cui sono saltati parametri, confini, valori e verità e che tuttavia è un mondo sempre più sfavillante e magnetico. Da giovane Jameson studia in Europa, digerisce vari mostri sacri, Auerbach, Adorno, Sartre, ma la sua terra è l’America e i viaggi internazionali per tenere conferenze. Per lo sguardo, gli interessi e le intuizioni la sua mente ricorda quelle eclettiche di Walter Benjamin e di Roland Barthes, menti capaci di destreggiarsi tra espressioni artistiche diverse e di individuare analogie tra testi letterari e urbanistica, tra filosofia e merci, tra cucine esotiche e industria culturale.

«La globalizzazione è la postmodernità e viceversa», scrive Jameson nel 2007. I suoi tantissimi libri e le sue parole d’ordine, “Marx”, “Brecht”, “inconscio”, “utopia”, “ideologia”, “allegoria”, “realismo”, sono ancora oggi istruzioni per decodificare la realtà, idee non invecchiate affatto, teorie che non conoscono però la parola fine, ma che sono pronte per essere riadattate e utilizzate ancora, all’infinito. Se ci sono elementi che Jameson condivide con il postmoderno riguardano un atteggiamento onnivoro nei confronti del reale, la vena giocosa e la libertà assoluta che lo ha reso uno dei maggiori interpreti del nostro tempo.

Matteo Marchesini, Che idea irreale hanno gli intellettuali del rapporto tra teoria ed esperienza, Il Foglio, 25 ottobre 2024

In queste settimane, dopo la morte di Fredric Jameson, si sono letti elogi un po’ fuori misura per un tardo e spesso farraginoso casista del marxismo. Come Habermas – che però è limpido, e ha tutt’altra statura – Jameson si rifà a una tradizione di cui gli manca il tratto essenziale (ereditato invece da Enzensberger): ovvero la capacità di unire tempestivamente, con intuito e stile saggistico, i particolari offerti dalla cronaca all’universalità dei presupposti teorici. Entrambi i pensatori hanno reso quella tradizione astratta o generica, neutralizzandola attraverso i modi tipici dell’accademizzazione tardonovecentesca della cultura. E dato che maestri come loro hanno giocato un ruolo rilevante nella formazione del ceto intellettuale (post)umanistico, non pochi dei suoi rappresentanti odierni mostrano un’idea irreale del rapporto che corre tra l’esperienza quotidiana e la politica, la letteratura o la filosofia: il che è tragico, in un’epoca in cui l’eccesso d’informazioni, e l’impossibilità di decifrarne la maggior parte con rigore specialistico, esigerebbe più che mai un buon numero di esseri umani perfino “fisicamente” consapevoli del punto di vista da cui guardano il mondo, e abbastanza forti da non scambiarlo per uno immaginario a seconda dei ricatti dell’attualità.
Prevale, invece, la scissione tra un’attitudine demagogica da opinionisti e una boria da debunker quasi sempre indebita, essendo esibita a proposito di temi che non permettono un approccio “scientifico”. Manca, insomma, la prassi di ricerca di cui c’è più bisogno: quella di Socrate, e di Montaigne. Filosofi, critici e scrittori hanno dimenticato che certe cose possono venir comprese ed espresse solo nella forma del dialogo, del saggio, del “tentativo”. Oblio paradossale, in intellettuali che enfatizzano i debiti con Lukács e i francofortesi, o su un altro versante con Nietzsche (del resto filtrato, nove volte su dieci, dalle derealizzanti manipolazioni heideggeriane).
Forse occorrerebbe tornare all’inizio del XX secolo, e privilegiare un’altra strada. Per esempio quella di tre filosofi che allora scelsero di sottoporre la loro meditata concezione teoretica alla prova dell’occasione quotidiana e del genere saggistico: Simmel, Alain e Ortega y Gasset. Nella sua filosofia della vita in lotta con la forma, Simmel insegue l’ossimoro di una “legge individuale”: crede, cioè, che alla profondità speculativa si possa arrivare solo partendo da singoli oggetti comuni (un vaso, un vestito, un’andatura) e in particolare dalla superficie scintillante della modernità metropolitana. Gli esseri umani riescono a tollerare i troppi stimoli di questa modernità solo sfiorandoli in un gioco continuo di distanza e vicinanza. E’, ad esempio, il gioco della civetteria, che Simmel analizza facendo coincidere l’idea pura del fenomeno con la sua descrizione fisica (la civetta guarda “con la coda dell’occhio e la testa mezzo girata”, dando e togliendo attenzione in un unico gesto); ed è, ancora, il gioco della moda, che garantisce a un tempo “obbedienza sociale” e “differenziazione individuale” a una nuova classe media i cui membri non possono più aspirare a un’esistenza umana integra. A Simmel si rivolse il giovane Ortega, instancabile fondatore di riviste. Anche lo spagnolo colma i vuoti del kantismo con un approccio prospettivistico (“Ogni vita è un punto di vista dell’universo”) e approda a un pragmatismo già esistenzialista; anche lui s’identifica con l’immagine di un Goethe non olimpico ma niccianamente inquieto; e anche lui tende all’indagine sociologica – “io sono io e la mia circostanza”– condotta con uno stile che rivendica il ruolo conoscitivo delle metafore. Filosofo elzevirista, narrativo e teatrale, Ortega riunisce sotto il suo titolo più famoso una serie di articoli. “Le città sono piene di gente. Le case, piene d’inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti. (…) Quello che prima non costituiva un problema, incomincia a esserlo quasi a ogni momento: trovar posto”, recita l’incipit di “La ribellione delle masse”, che tematizzando l’equivoco tra giusta democrazia dei diritti e falsa democrazia della qualità parla ancora di noi.
Come Ortega, Alain ricorda che la libertà si conquista giorno per giorno, resistendo contro ciò che in noi tende all’inerzia; ma lo fa coi modi della tradizione cartesiana e radicale francese. In lui il “propos”, ragionamento chiuso in un trafiletto di giornale, raggiunge la perfezione di una sorta di sonetto saggistico. Descrivendo un mestiere o un fiore, una passione o un volto umano, Alain riporta ogni dettaglio della vita a quella “cieca necessità” del cosmo che l’uomo vince nell’atto di definirla. Rifiuta le fantasticherie solipsistiche, che sfuggono all’attrito indispensabile con gli ostacoli mondani, ma anche la delega del pensiero alla “bestia sociale”, perché “solo l’individuo pensa, ogni assemblea è stupida”. C’è già, in questo Alain, la nettezza della sua allieva Weil; ma c’è, soprattutto, l’antidoto alla cattiva filosofia e alla cattiva politica che hanno trionfato dal ’900 a oggi.

Fredric Jameson, la prassi del lavoro culturale | il manifesto

sabato 28 settembre 2024

Penelope la sposa ritrovata

 


Odissea, Libro XXIII, 300-309, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti

Ma i due, quand'ebbero goduto l'amore soave,
godettero di parlarsi, uno all’altra dicendo,
lei quanto in casa soffrì, la donna bellissima,
 costretta a vedere la folla sfacciata dei pretendenti,
che a causa sua, numerose le vacche e le pecore grasse
sgozzavano, e molto vino si attingeva dai vasi;
e lui, il divino Odisseo, quante pene inflisse
ai nemici, e quante sventure dovette subire lui stesso,
tutto narrava: lei godeva a sentire, né il sonno
cadde sui loro occhi, finché tutto fu detto.

Marilù Oliva, L'Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre, Milano, Solferino 2020

Nel talamo nuziale scorrono come fiumi le parole del racconto: io gli riporto quanto ho patito subendo la presenza degli odiosi Proci, che attingevano dagli orci vino senza fine e facevano sgozzare bestie senza criterio. Lui mi narra ciò che gli è successo e ogni tanto ancora gli scendono le lacrime. Tremo con lui inorridita quando ascolto delle tempeste crudeli, del terribile Ciclope cannibale, dell'orrenda Scilla e della stoltezza bestiale dei defunti compagni, periti per loro misera colpa. Parole fiatate sottovoce riempiono la stanza come una dolce melodia, finalmente la rassicurazione della voce amata, la carezza dolcissima del ritorno svelato. Discorriamo interrompendoci soltanto per baciarci e per concederci il piacere a lungo negato, srotoliamo i giochi d'amore senza la fretta della giovinezza, consapevoli di ciò che ricordiamo l'uno dell'altro, poi riprendiamo a confidarci, ventre contro ventre, bocca contro orecchio, braccia intrecciate, finché un sonno irresistibile non ci sorprende ancora abbracciati. 






Netanyahu, la rabbia e lo show



Davide Frattini, Netanyahu, la rabbia e lo show, Corriere della Sera, 28 settembre 2024

[Netanyahu nel suo discorso all'assemblea dell'Onu] cita una poesia del gallese Dylan Thomas, aggiunge «Israele» alle frasi dedicate al padre morente: «Israele non se ne andrà docile in quella buona notte». Questi versi stupiscono Nadav Eyal, editorialista del quotidiano Yedioth Ahronoth e di solito tra i critici più implacabili del primo ministro: «Tra tutte le possibilità ha optato per una composizione che parla di una battaglia persa in cui non c’è vittoria assoluta. Non si può sconfiggere la morte, ma bisogna perseverare nella lotta, se non altro per proteggere l’amore di fronte alla fine inevitabile. Meravigliosa. Resta una scelta sconcertante».

Dylan Thomas

Non andartene docile in quella buona notte

Non andartene docile in quella buona notte,
vecchiaia dovrebbe ardere e infierire quando cade il giorno;
infuria, infuria contro il morire della luce.

Benché i saggi infine conoscano che il buio è giusto,
poiché le parole loro non avevano spezzato il fulmine,
essi non se ne vanno docili in quella buona notte.

I buoni che in preda all’ultima onda
splendide proclamarono le loro fioche imprese,
avrebbero potuto danzare in una verde baia,
e infuriano, infuriano contro il morire della luce.

I selvaggi, che il sole a volo presero e cantarono,
tardi apprendono come lo afflissero nella sua via,
non se ne vanno docili in quella buona notte.

Gli austeri, vicini a morte, con cieca vista scorgono
che i ciechi occhi quali meteore potrebbero brillare ed esser gai;
e infuriano, infuriano contro l'agonia della luce.

E te, padre mio, là sulla triste altura io prego,
maledicimi, feriscimi con le tue fiere lacrime,
non andartene docile in quella buona notte.
Infuria, infuria contro l'agonia della luce.


Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.

Though wise men at their end know dark is right,
Because their words had forked no lightning they
Do not go gentle into that good night.

Good men, the last wave by, crying how bright
Their frail deeds might have danced in a green bay,
Rage, rage against the dying of the light.

Wild men who caught and sang the sun in flight,
And learn, too late, they grieved it on its way,
Do not go gentle into that good night.

Grave men, near death, who see with blinding sight
Blind eyes could blaze like meteors and be gay,
Rage, rage against the dying of the light.

And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless, me now with your fierce tears, I pray.
Do not go gentle into that good night.
Rage, rage against the dying of the light.

giovedì 26 settembre 2024

La morte di Walter Benjamin


Paul Klee, Angelus Novus (1920)

Il 26 settembre di 84 anni fa, dopo un avventuroso tentativo di fuga dalla Francia occupata, moriva suicida alla frontiera spagnola Walter Benjamin (1892-1940). Scrittore e saggista di sconvolgente profondità,  aveva abbandonato la Germania all'avvento del nazismo, per poi stabilirsi in Francia, a Parigi. Essendo ebreo per nascita si era venuto a trovare in una situazione di grave pericolo dopo che, nel giugno 1940, il paese era caduto sotto il controllo delle autorità germaniche. Tra la fine del 1939 e il maggio del 1940 aveva scritto le Tesi di filosofia della storia, il suo ultimo lavoro: una sorta di testamento spirituale.

TESI DI FILOSOFIA DELLA STORIA

1 - Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un'ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l'illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c'era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato "materialismo storico". Esso può farcela senz'altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com'è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.

9.- "La mia ala è pronta al volo,

ritorno volentieri indietro,

poiché restassi pur tempo vitale,

avrei poca fortuna"

(Gerhard Scholem, Il saluto dell'angelo)

C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.


16.- Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive storia. lo storicismo postula un'immagine "eterna" del passato, il materialista storico un'esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la meretrice "C'era una volta" nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia.

https://www.glistatigenerali.com/filosofia_storia-cultura/morire-sulla-soglia-della-liberta-la-morte-di-benjamin-parla-a-noi-oggi/

Montagne e colline di Van Gogh

Campo di grano con sfondo di montagne (1889)

 
Le piccole Alpi. Montagne a Saint-Rémy (1889)

Vincent, nel corso della degenza all'ospedale Saint-Paul-de-Mausole a Saint-Rémy in Provenza, scrisse come solito al fratello Théo confessandogli che dipingere la natura del posto all'aperto gli dava la sensazione di migliorare il suo stato mentale. Nelle lettere inoltre Vincent menzionò spesso Montagne a Saint-Rémy che gli ricordava il libro Le Sens de la vie di Edouard Rod. Da questo testo prese spunto per interpretare a suo modo, e con maggiore espressività la montagna. Van Gogh era infatti consapevole che ritrarre e interpretare la natura era un’attività terapeutica e irrinunciabile per lui. Invece, la realtà metropolitana, con la sua vita caotica e i suoi intrecci mondani, generava ansia al pittore che, come Gauguin, fuggì da Parigi alla ricerca di un mondo integro e semplice.

Un prato tra le montagne (1889)

Van Gogh è forse il più noto tra i pittori del suo tempo ed è spesso associato a paesaggi di pianura, a una distesa di campi sotto il sole, a una chiesa di villaggio, a un ponte in mezzo alla pianura, a una notte stellata sul Rodano, per non parlare dei girasoli e di una stanza con la sedia di paglia. Ci sono anche i ritratti, quadri di una rara intensità. Le colline e le montagne, invece, giungono inaspettate. Per un pittore olandese erano un fatto esotico più ancora della luce solare sulle messi distese nei campi. 

Federico Giannini  Ilaria Baratta, Finestre sull'Arte 

Non v’è dubbio che, alla base della fortuna critica del grande Vincent van Gogh (Zundert, 1853 - Auvers-sur-Oise, 1890), sia possibile collocare, tra gli altri, il contributo apportato dallo storico dell’arte Roger Fry (Londra, 1866 - 1934), che si può annoverare tra coloro che hanno consentito l’ingresso del nome del grande pittore olandese (nei confronti del quale, com’è universalmente noto, la sorte non fu certo benevola fin tanto che fu in vita) nella storia dell’arte. Uno dei meriti di Roger Fry sta nell’aver pienamente colto l’essenza del rapporto tra van Gogh e la natura: nell’articolo con cui, nel 1922, lo studioso inglese operò una sorta di canonizzazione dell’artista (letteralmente: “era un folle, ma era anche un santo”, scrisse Fry, perché “tra tutti i subbugli della sua vita interiore, l’unico impulso supremo e dominante era una passione d’amore universale”), viene formulata a chiare lettere la posizione critica che, di fatto, ha posto van Gogh tra i grandi del XIX secolo. Fry, in particolare, sottolinea il fatto che le immagini dipinte da van Gogh scaturiscano da un approccio al mondo esteriore ch’è diverso rispetto a quello che caratterizzava gran parte dei pittori suoi contemporanei, e che muoveva da un’emozione tutta interiore: in altri termini, i suoi dipinti erano, per utilizzare le parole di Fry, “pure espressioni di sé”, e nessun altro artista era riuscito meglio di van Gogh a “illustrare così pienamente la propria anima”. Tra i momenti più felici della carriera di van Gogh, Fry individuava la prima fase del suo soggiorno ad Arles (tanto da definire il 1888 un annus mirabilis per il pittore di Zundert), e poneva l’accento sull’approccio di van Gogh nei confronti della natura, rimarcando le differenze che lo separavano da Paul Cézanne: riferendosi a un dipinto come La casa gialla di Arles (conservato al Van Gogh Museum di Amsterdam, raffigura l’abitazione dove van Gogh risiedette per qualche tempo in affitto durante la sua permanenza nella città della Camargue), lo storico dell’arte notava come l’artista avesse saturato il cielo per donargli un blu che poco aveva a che vedere con quello dei cieli mediterranei ma che intendeva proporre un’immagine più intensa, drammatica, “quasi minacciosa” (al contrario dei paesaggi di Cézanne che, invece, ispiravano contemplazione e riflessione). “L’interesse dell’artista”, affermava Fry, “era interamente catturato dal drammatico conflitto tra le case e il cielo, e il resto era poco più che un’introduzione a questo tema”.

https://machiave.blogspot.com/2021/11/la-montagna-sainte-victoire.html


 

mercoledì 25 settembre 2024

Sandra Petrignani giornalista

 


Una giovane Oriana Fallaci 







Sandra Petrignani, Il Messaggero degli anni '70, Il Foglio, 21 settembre 2024

Mia madre mi spingeva a iscrivermi al liceo classico, visto che non facevo che leggere e scrivevo poesie. Mio padre sosteneva che scrivere è un hobby con cui puoi baloccarti comunque e tifava per una “carriera moderna”, la segretaria d’azienda, certo sperando di vedermi sistemata appena possibile con qualche manager danaroso sedotto sul luogo di lavoro. Io mi sognavo giornalista, anzi journalist come avevo scritto alla voce “professione” su un passaporto che mi ero costruita per gioco appiccicandoci dentro la foto della testa bionda di una modella che amavo. Il mio mito però era Oriana Fallaci. La seguivo sull’Europeo, mentre stavo leggendo con entusiasmo uno dei suoi primi libri, Il sesso inutile, pescato nella libreria materna, un “viaggio intorno alla donna” – come recitava il sottotitolo – che molto contribuì alla formazione di un mio precoce femminismo.

Perciò optai per il liceo e poi, all’Università, per Lettere moderne. Di fare la giornalista continuavo a coltivare il sogno pur vedendomi destinata a diventare professoressa, perché non avendo “santi in paradiso”, come diceva mio padre (leggi: raccomandazioni), la via era completamente preclusa. Non esistevano allora scuole di giornalismo, ed era un mestiere che dovevi iniziare dalla gavetta, grazie a conoscenze personali nell’ambiente o alla militanza in qualche partito. Lui era ingegnere, la mamma farmacista. Dove lo andavo a pescare qualcuno che m’introducesse in un giornale anche solo dalla porta di servizio? Veramente qualcuno lo avevo scovato, amico di una mia amica e direttore di un quotidiano di provincia. Presi un treno e andai fiduciosa all’appuntamento, ma solo per sentirmi fare questa proposta: c’era la possibilità di una “supplenza estiva”, ma a una condizione, dovevo accettare di convivere con lui, il direttore, per tutto il tempo della supplenza perché la moglie lo aveva lasciato ed era tristissimo. Non riusciva assolutamente a restare nella casa matrimoniale senza una donna. Ero inorridita (a scanso di equivoci: a vent’anni non ero certo una santarellina, ma avevo ben chiaro il diritto a fare l’amore con chi mi andava a genio e quel tipo non mi attirava minimamente). Lui per convincermi, o forse per disprezzo vista la mia reazione, prese a sfottere: “Guarda che questo mestiere non lo farai mai se non ti rassegni a essere un po’ mignotta. Anche la tua adorata Oriana Fallaci, che credi, non sarebbe mai diventata Fallaci senza essere una gran puttana”. Questo era veramente troppo. Rifeci la valigia e me ne tornai a Roma, sicura che lì finiva ogni speranza e che potevo stracciare il vecchio passaporto dei miei sogni infantili. Pietra sopra.

Invece il destino decise diversamente.

Il palazzo romano del Messaggero a Largo Tritone

Avevo una cugina di otto anni più grande che apprezzava la mia determinazione a non finire casalinga come lei. Un giorno mentre aspettava la figlia fuori dalla scuola si era messa a parlare col padre di un altro bambino e aveva scoperto che faceva il giornalista al Messaggero. Il quotidiano che leggevamo tutti in famiglia, tutti i giorni! “Da vera sfacciata” come mi riferì poi in preda a grande eccitazione, gli aveva parlato di me, del mio desiderio fin da quando ero piccola, di quanto fossi curiosa e brillante e indipendente… Insomma, lui era una persona gentile (poi l’ho conosciuto anch’io) e fu subito possibilista: “Dai, dille, di venire da me in redazione. Io sono un semplice cronista, non conto niente. Ma le presento il capo della cronaca che qualche ragazzetto lo fa scrivere: tutti sotto il falso nome di Tony Cardini, ma è un modo per cominciare. Poi, se è brava, va avanti da sola. Senza farsi troppe illusioni. Non posso garantirle niente”.

Io lo sapevo dov’era il Messaggero. Ci passavo sempre davanti in autobus diretta al centro di Roma lungo via del Tritone. C’era una fermata proprio di fronte e guardavo incantata dai finestrini la gente che entrava e usciva dal grande palazzo Liberty, che una volta era stato un albergo, il Select. Si trovava dove si trova tuttora, col suo ampio angolo stondato su Largo del Tritone. Inalberava una grande insegna luminosa, Il Messaggero, in eleganti caratteri Victorian, sotto le finestre d’angolo del primo piano, e un’altra gigantesca in alto in alto sopra il tetto terrazzato. Ero, a questo punto, provvista di motorino, un Ciao della Piaggio color verde chiaro che avevo comprato usato con i proventi del mio lavoro da baby-sitter: 40 mila lire, se non sbaglio. E così un bel giorno inforcai lo scooter e andai all’appuntamento con Silvano Rizza, capo della cronaca di Roma, noto per certe idee originali. “Se il conto non torna mandatelo al Messaggero” fu una sua invenzione che fece epoca. Era un bell’uomo dai modi bruschi che non intendeva perdere tempo. “Che proponi?” mi chiese a bruciapelo. Io mi ero preparata: un pezzo sulla mancanza di discoteche per i giovani a Roma. “Ci sono solo night-club costosissimi in questa città” dissi. Gli piacque. Il pezzo, rigorosamente firmato Tony Cardini, uscì il 5 maggio del 1976. Ho qui il ritaglio, conservato come tutti i pezzi successivi da mio padre che divenne il primo dei miei fan.

Silvano Rizza

Adoravo il grande atrio dove gli usceri dietro al bancone cominciarono presto a riconoscermi e a non fermarmi quando passavo, l’ampia chiocciola delle scale attorcigliata intorno all’ascensore, che non prendevo mai perché Cronaca, stanza del direttore e segreteria erano al primo piano. Ma soprattutto mi emozionava la redazione affollatissima, dove nessuno faceva caso a me che andavo dritta nella stanza a vetri di Rizza con le mie proposte. Avevo la sensazione di stare dentro un film americano, era la felicità, la realizzazione di un sogno, un cambiamento enorme della mia vita. Ed era solo l’inizio. Sfogliando i ritagli di mio padre, sempre a firma Tony Cardini, vedo un pezzetto sui vestiti usati in vendita da Cheap, un negozietto di viale Etiopia, un altro sull’unica scuola romana di karate riservata alle donne in via Donizetti, un altro sulle agenzie di baby-sitting con tanto di prezzi, un altro ancora sulle radio libere che imperversavano in quel periodo, e un’intervista al mangiafuoco di piazza Navona che svelava i suoi trucchi, un’altra a uno degli ultimi fiumaroli, “un po’ barcarolo e un po’ filosofo”, che viveva sul Tevere con moglie, cani e gatti e si vantava di non avere un reumatismo e che a lui l’acqua inquinata faceva un baffo… cose così. Finché a fine anno Tony Cardini viene promosso: ora gli articoli sono firmati S. Petrignani. Qui mio padre avrà stappato lo champagne, anche perché intanto mi ero laureata e pure sposata e poteva contare su una figlia un po’ stravagante, ma che in fondo non tradiva le sue aspettative esistenziali.

Sì, mi ero sposata perché “al cuor non si comanda”, ma se dovessi dirla tutta, il mio cuore batteva al massimo quando facevo progressi nei miei rapporti con la redazione, conoscevo gli altri giornalisti, chiedevo udienza al direttore implorando “l’articolo 2”, che era l’agognato passaggio a una forma di collaborazione fissa, ben lontana dall’ “articolo 1”, che equivaleva a una vera e propria assunzione, ma insomma avrebbe significato un bel passo avanti per smettere di essere mantenuta dal giovane marito. Intanto di piani ne salivo anche due ogni tanto, avendo infilato la testa nella redazione Spettacoli per proporre un fondamentale pezzo sulla nuova stagione del teatro femminista La Maddalena in via della Stelletta. La mia vera meta però era l’ultimo piano. Qui stava asserragliato nella confusione di uno stanzone pieno di scrivanie accatastate, solo e brontolone, Ruggero Guarini, direttore della Cultura, un intellettuale rispettatissimo e temuto. Avevo confessato a Rizza che il sogno dei sogni per me era scrivere per la Terza Pagina (allora il servizio Cultura su tutti i quotidiani era collocato in quella eminente posizione). E lui mi aveva dato il consiglio più ricco di futuro della mia ancora traballante carriera. Assomigliava un po’ a Luciano Salce. Con la bocca leggermente storta e squadrandomi dalla testa ai piedi, disse: “Che aspetti? Non hai che salire qualche piano. Presentati lì e digli quel che hai detto a me: che vuoi scrivere per lui. Se hai anche l’idea per un pezzo, è meglio”.

Aldo Braibanti

Ce l’avevo l’idea. Bazzicavo l’underground, avevo pubblicato poesie e racconti su riviste specializzate, conoscevo il mondo dell’off teatrale, mi piacevano tutte le avanguardie. In queste mie scorribande intercettavo artisti bizzarri, outsider d’ogni tipo di cui erano pieni i ribollenti anni Settanta, e uno di loro si chiamava Aldo Braibanti, un ex combattente della Resistenza, omosessuale, condannato per “plagio” (reato che ai tempi aveva connotazioni sessuali) perché convivente con un giovane minorenne. Uscito di prigione, era rimasto in silenzio per dieci anni e ora tornava alla ribalta esordendo in teatro. Mi presentai a Guarini e proposi un’intervista a Braibanti. Ne fu entusiasta. Il pezzo uscì il 19 ottobre del 1977 e la firma era intera: Sandra Petrignani. Era fatta. Presto avrei avuto l’articolo 2 e se per essere assunta dovettero passare altri dieci anni, poco importa. Intanto diventavo una firma della Terza Pagina e poi degli Spettacoli, dove era arrivato un altro caposervizio, Luigi Vaccari, che davvero cambiò la mia vita perché per la prima volta mi fece sentire sul serio parte di un gruppo. E il gruppo in quella stanzetta destinata agli Spettacoli era un’isola spavalda e irriverente dentro Il Messaggero fatta di giornalisti pazzi, ma veramente pazzi, per la musica, il cinema, il teatro e destinati a diventare punti di riferimento nel loro campo, dagli “anziani” Guglielmo Biraghi a Renzo Tian, da Fabrizio Zampa a Paolo Zaccagnini, da Renato Minore a Rita Sala, ai più giovani Marco Molendini, Gloria Satta, Dario Salvatori, Diego Mormorio, Alfredo Gasponi, Fabio Ferzetti… Eppoi c’era il più vecchio di tutti, vice di Gigi Vaccari, Mario Galdieri (della stirpe dei Galdieri che hanno fatto il teatro e la canzone napoletana) che quando qualcuno di noi giovani entrava in redazione, lo accoglieva inevitabilmente alzando gli occhi al cielo e sbuffando: “Eravamo scarsi a fetenti…” e tutti a ridere. In effetti eravamo “fetenti”, cioè malvestiti e un po’ mascalzoni, gelosi l’uno dell’altro, pronti a farci le scarpe magari per un solo giorno e ritornare amici il giorno dopo, malati di scrittura e di spazi, di esclusive e rivelazioni. E di celebrità, quella fittizia e brevissima di un solo giorno. Perché tanto durava l’articolo anche più sensazionale o più bello. Era una lotta quotidiana, ma non credo di essermi mai divertita tanto lavorando.

La redazione degli Spettacoli. Io sono a sx davanti a Zaccagnini

E del resto non mi tiravo mai indietro quando si trattava di correre per un’intervista concessa all’ultimo momento, da Marcel Marceau a Renato Rascel, da Anna Proclemer a Eduardo De Filippo, da Franco Zeffirelli a Milva. Sempre pronta a fare la valigia per andare a un festival o per raggiungere Tadeusz Kantor di passaggio a Firenze o inseguire ovunque Roberto Benigni. E siccome passavano gli anni ma restavo sempre un “articolo 2”, m’inventavo grandi inchieste in varie puntate o serie di interviste a grandi scrittori da Moravia e Malerba, da Calvino a Manganelli o alle Signore della scrittura (che divenne poi il mio primo libro), così per un po’ sapevo che un mio pezzo era previsto almeno una volta a settimana e potevo riposarmi dal farmi venire un’idea dietro l’altra. Intanto nascevano amicizie, come quella con Lalla Romano e con Edith Bruck, con Dario Fo e con Giulio Einaudi con esiti importanti per il resto della mia vita.

Quando poi, oltre la metà degli anni Ottanta, l’agognato articolo 1 arrivò, non posso dire che la mia vita cambiasse in meglio, anzi. Certo, avevo la possibilità di fare l’esame per diventare una vera giornalista iscritta all’albo, ma conoscevo anche la dura vita del redattore che, oltre a scrivere i pezzi, li deve pure mettere in pagina, e tagliarli e correggerli e titolarli. E scendere in tipografia – come usava una volta – nell’incontro scontro serale con operai che le cose le vedevano diversamente e quando mi mettevo a pensarci su troppo a lungo a come dovevo tagliare un pezzo che non entrava nel suo spazio (non entrava fisicamente, perché erano pezzi di carta da incollare materialmente dentro la forma della pagina che poi sarebbe stata stampata) e allora, armata di forbici cercavo di tagliare qua e là senza rovinare il testo, invece di far fuori semplicemente il finale rinunciando magari a una battuta di chiusura che mi pareva imperdibile, il tipografo spazientito mi diceva: “A Sa’, che stai a perde tempo, tanto domani co sta pagina c’incartano le ova al mercato!”

Ecco, sì, con l’attesa assunzione la mia vita cambiava di nuovo, ma in peggio. Senza contare la morte improvvisa di qualche personaggio importante, magari proprio quando te ne stavi tornando a casa, ed era tutto da rifare: sostituire articoli e fotografie all’ultimo momento, fare sicuramente notte…. Ma il destino mi venne incontro ancora una volta e fui richiesta dalla redazione romana di un settimanale, Panorama, la cui sede principale era a Milano. Voleva dire: una pacchia. Niente più lavoro il sabato e la domenica, orari meno stressanti e nessun testo da sistemare in pagina, perché ci pensavano i milanesi. Oltretutto la tecnica era in evoluzione, trionfavano i computer, libri e giornali non si stampavano più a piombo. La mia vita cambiava di nuovo, ma non clamorosamente come era avvenuto quindici anni prima con il mio ingresso al Messaggero dalla porta secondaria. Quella era stata una favola irripetibile, il sogno di una ex bambina che si voleva journalist e ci riuscì.