martedì 17 settembre 2024

Mente Materia Dio


 

Emanuele DattiloPensiero panteistico. Divino e sensibile, il manifesto, 12 settembre 2024

C’è una corrente del pensiero che non compare molto spesso nei manuali di storia della filosofia, e il cui statuto storiografico è, in realtà, abbastanza dubbio e incerto. È un pensiero che è sempre stato considerato rozzo, barbaro, immaturo, indegno di avere cittadinanza tra le regioni più urbane della filosofia ufficiale, e che piuttosto andrebbe annoverato genericamente tra le dottrine religiose più primitive e infantili dell’umanità: il panteismo.

Che cos’è il panteismo? Che cosa significa dire che «Dio e mondo sono identici» o che «tutto è Dio»? Al di là di queste formule, assolutamente insufficienti, bisogna intendere subito che il panteismo non è una dottrina teologica o religiosa – perché le categorie stesse di teologia o religione, in questa prospettiva, diventano vacue e inutilizzabili. In generale, potremmo iniziare col dire che il panteismo è anzitutto una radicale, profonda messa in discussione dei dualismi che attraversano la nostra cultura filosofica, da Aristotele in poi. Tra questi, prima di tutto il dualismo tra materia e forma (quello che sta più a cuore ai panteisti medievali e rinascimentali) e tra potenza e atto.

MA ANCHE I MOLTI ALTRI dualismi che ci sono familiari: quello tra soggetto e oggetto, tra sensibile e intelligibile, tra causa ed effetto, ma anche tra bene e male, tra sacro e profano, tra conscio e inconscio. Più che un piatto monismo, allora, che sosterrebbe che tutto è uno, il panteismo è anzitutto – come si direbbe in sanscrito – advaita, ossia un non-dualismo. Se si definisce in questo modo, a partire da ciò che non è e da ciò che contrasta, si potrebbe dire che la natura del panteismo è piuttosto quella di un farmaco, di un antidoto? Questo spiegherebbe anche perché, in occidente, la sua vita è paragonabile a quella di un fantasma, difficile da afferrare. E non è forse questa una delle più preziose qualità del pensiero filosofico – quella di liberarci dall’errore, senza costituire poi un ingombro cognitivo o dogmatico? È chiaro che, se definito in questo modo, il pensiero panteistico conterà tra i suoi non soltanto Spinoza, Cusano o Giordano Bruno; ma idee, tensioni e tentazioni panteistiche saranno presenti anche in Schelling o in Simone Weil, in William James o in Wittgenstein – e magari perfino in Tommaso d’Aquino. Poco importa fornire una definizione identitaria dei pensieri, con cui appropriarsene e stabilire le squadre – importa di più dove questi pensieri ci possono condurre. Tra i dualismi che abbiamo nominato, uno dei più antichi e più difficili da estirpare è senz’altro quello tra mente e materia.

La teologia – che storicamente è stata la guardiana che ha garantito la sopravvivenza dei diversi dualismi e la loro efficacia – ha sancito questo dualismo tra mente e materia attraverso l’idea di creazione. L’idea che Dio abbia creato il mondo non garantisce soltanto la separazione di Dio dal mondo che ha creato, non è solo una tesi teologica o cosmologica. Che il mondo sia creato significa anzitutto che la materia del mondo non coincide con la mente che lo ha pensato e voluto. Dio inoltre, così, non solo non coincide con la propria opera, ossia con il mondo che ha creato, ma non coincide neanche con la propria azione creativa. È libero – e libertà vuol dire, in questa prospettiva: sovranità su se stessi e sulla propria azione. Questo modello, che a noi sembra quasi scontato, fa del pensiero anzitutto un progetto, una specie di cabina di comando della prassi sul mondo, ed è esattamente ciò che i panteisti vogliono contestare. E con ciò, tutto quello che ne deriva – e che costituisce più o meno i tre quarti delle nostre superstizioni antropologiche, sociali, politiche.

LA MENTE, per i filosofi panteisti, è qualcosa di molto più ampio di un possesso individuale soggettivo. Non è qualcosa che sta dentro di noi, come un capitale cognitivo separato dal resto, ma è più simile a un’aria trasparente, in cui le cose si rendono visibili e percepibili. Non la mente è dentro di noi, dunque, ma noi siamo nella mente. L’anima esiste anche fuori, extra-somaticamente, e questa vita al di fuori di noi è altrettanto importante, per noi, della nostra personale vita psichica, dell’io con cui non smettiamo di identificarci. Così non solo la mente non precede l’azione, ma non è neanche davvero una zona separata dalla materia del mondo. Nulla è più lontano dal panteismo della distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa.
Ma perché questa sarebbe una tesi panteistica? Di nuovo: che cosa c’entra tutto ciò con Dio? «Dio», dice David di Dinant – il più geniale e misconosciuto tra i filosofi panteisti medievali, di cui ci è rimasto un brevissimo frammento scampato alle fiamme a cui era stato destinato nel 1210 – è esattamente il nome dell’identità di mente e materia. «Se la materia del mondo è Dio, la forma che avviene alla materia è Dio che rende sensibile se stesso», così si conclude il suo frammento 
Mens Hyle Deus («Mente Materia Dio»). Questa identità incandescente, cioè, non è soltanto un dato per così dire ontologico, non è un’identità fissa, logica, del genere A=A. No, è un’identità dinamica, ossia un’identità di tipo più fragile e precario, che si può perdere o che si può riafferrare, esattamente come la nostra conoscenza ed esperienza del mondo procede per buchi, strappi, intermittenze. Ed è proprio questa identità dinamica a definire lo statuto etico di questa conoscenza – se si può ancora chiamare conoscenza una volta sgombrati tutti gli equivoci che abbiamo detto sulla mente.

ETICO, PER I PANTEISTI, non significa affatto morale, non riguarda le nostre buone o cattive azioni verso il prossimo. Etica è la capacità di ogni cosa di renderci felici. Ciò non significa affatto che tutto è uguale, come vuole un’accusa rivolta molto spesso ai panteisti, di indifferentismo morale: «Dunque, se tutto è Dio, anche Hitler, Auschwitz, gli stupri e i genocidi sarebbero Dio?». Domande formulate in buona fede, ma che mascherano l’antico sospetto che i panteisti non stiano dalla parte giusta. Ma è proprio qui invece, nella nostra possibilità di felicità, che le differenze etiche si rendono davvero tangibili, molto più che attraverso alcune vaghe idee sul bene e sul male o su come sarebbe opportuno e giusto comportarsi. Proprio perché il bene non è di natura cognitiva (Hitler aveva molte idee sul bene), non può essere ridotto a un’opinione sulle cose, e troppo spesso la morale si traduce in un tumore del linguaggio, astratto e contagiato dalla più cupa irrealtà.

Questa possibilità di felicità che la conoscenza panteistica reca con sé, è sempre presente, eppure è anche intermittente, perché intermittenti siamo anzitutto noi, e con infiniti mezzi copriamo, oscuriamo e ci rendiamo opaca la trasparenza della mente, l’identità risplendente di mente e materia. È stato detto in maniera perfetta da Kafka, in una nota dei suoi diari: «È senz’altro pensabile che lo splendore della vita circondi chiunque, e sempre nella sua intera pienezza, accessibile ma velato, nel profondo, invisibile, molto lontano. Però esso sta lì, non ostile, non riluttante, non sordo. Se lo si chiama con la parola giusta, con il nome giusto, allora viene. Questa è l’essenza della magia, che non crea, ma chiama».

https://palomarblog.wordpress.com/2024/09/17dio-abita-in-noi
Meister Eckhart e la divinità senza nome | il manifesto

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