domenica 15 settembre 2024

Italia. L'inconscio di un popolo



Giuseppe Lupo, Perché noi italiani siamo così simili a Pinocchio, Il Sole 24ore, Domenica, 15 settembre 2024

Chiunque osservi il famoso dipinto "Goethe nella campagna romana" (1787) di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein resta colpito dalla seriosa compostezza che si addice alla figura in primo piano, però quasi sempre trascura una serie di elementi che compongono il carattere identitario della nostra nazione. La scena è collocata in un contesto di arcadia felice: fronde di alberi, monumenti antichi, cime di monti. Eppure è una rappresentazione tutt’altro che realistica, anzi è una contraffazione della realtà perché ciò che sta nel paesaggio intorno al poeta disteso su blocchi di pietra è il ritratto dell’immaginario in cui Goethe desiderava sentirsi immerso. Il suo sguardo contiene un desiderio, un sogno, come se l’Italia che i viaggiatori del Grand Tour speravano di visitare dovesse corrispondere alla cartolina che di essa circolava al di là delle Alpi: quella di un Paese fuori dal tempo e dallo spazio, in «vacanza dalla realtà», scrive Luigi Zoja, dove ciascuno potesse recuperare la propria innocenza camminando a ritroso verso la soglia di una civiltà non contaminata dal moderno.

Nessun messaggio più falsificato sarebbe stato possibile confezionare e non tanto perché l’Italia di fine Settecento fosse estranea a una geografia rurale o non fosse interpretabile alla luce di quella letteratura della fuga costruita dal Virgilio bucolico, ma perché non poteva reggersi in piedi il racconto di una nazione che dalla fine del Rinascimento «sembra non mirare più all’eccellenza ma all’intrattenimento». Sarà perentorio questo giudizio, ma contiene uno dei cardini del discorso di Zoja perché scaturisce dalla contrapposizione tra i fenomeni del Rinascimento, che ha avuto respiro universale nell’egemonia dell’Italia sull’Europa, e le contraddizioni di un Risorgimento segnato da episodi locali.

È marcata qui la lezione di Burckhartdt, di Garin, di Mack Smith e tuttavia non bisogna cadere nell’errore di pensare al lavoro di Zoja quale rivendicazione di posizioni antiunitarie in nome dell’evidente paradosso secondo cui l’Italia si è trovata al vertice del mondo nel momento in cui la suddivisione in piccole patrie era al culmine. Se questo è avvenuto, non è certo a causa della deriva regionalistica. Nonostante la percezione di una diffidenza verso un modello di Stato accentratore che si sarebbe affermato proprio grazie al Risorgimento e che avrebbe sconfessato definitivamente la lezione di un federalismo municipale tanto cara a Cattaneo, l’obiettivo del libro sta altrove, lontano dalla ruggine della Storia e assai più prossimo a rinvenire i caratteri di una italianità adottando lo strumento della psicologia, soprattutto di matrice junghiana. La disposizione a falsificare il racconto, che si evidenzia nell’olio di Tischbein, è uno dei numerosi indizi.

A suffragare il sospetto che la nostra penisola sia stata la culla in cui nutrire il metodo del tradimento se ne potrebbero elencare altri: il mito del Risorgimento, per esempio, costruito sulla base di una narrazione antiasburgica e presto messo in discussione da parte degli intellettuali antirisorgimentali (argomenti fondamentali, trattati però con un po’ di genericità) oppure il culto della nazione, che si sarebbe alimentato grazie alle ingannevoli chimere del colonialismo e del fascismo, salvo poi rivelarsi un edificio retorico. Per non parlare dei reiterati tradimenti orditi a danno dei partner europei ed extraeuropei prima sul finire dell’Ottocento, poi in occasione della Grande Guerra, infine con l’armistizio dell’8 settembre.

Siamo mai appartenuti a una patria «d’arme, di lingua, d’altare», come auspicava Manzoni? Soprattutto siamo mai stati affidabili nella parola data? Di fronte a tanti esempi di alleanze sottoscritte e contraddette qualche dubbio resta, anche se la vera domanda da porci è dove si origina tutto questo. Qui torna utile l’analisi di Zoja che non intende indagare le scelte storiche, ma trovarne le motivazioni remote «nell’inconscio di un popolo» in cui – scrive – «può sopravvivere un sentimento di debito contratto, torto subito, o di dovere non compiuto» scaturito probabilmente dal fatto che «gli italiani hanno “saputo” per secoli di aver lasciato cadere nel vuoto due appelli senza precedenti: la canzone Italia mia di Petrarca e l’esortazione finale del Principe di Machiavelli, che riprende proprio quei versi».

Qualcosa di non rimosso si agita dentro di noi come lo spettro di una mancanza, di una inadempienza e ci fa operare nei modi che conosciamo, disperati e allegri, tanto comici da rasentare il tragico (siamo sempre noi ad aver inventato il melodramma ottocentesco che è la semplificazione della complessità rinascimentale), così prossimo ai comportamenti di un burattino di legno che è il vero ritratto autobiografico dell’anima popolare, la rappresentazione dell’eterna lotta tra desiderio di diventare adulti e resistenza all’età adulta, la maschera più accreditata a diventare erede di una tradizione teatrale come la commedia dell’arte (poi declinata nelle forme cinematografiche della commedia all’italiana) entro cui radunare gestualità rumorosa ed estro, macchiettismo e pedagogia, irruenza e improvvisazione.

Pinocchio è l’eroe di una patria povera e dialettale, fatta di province più che di città, umile com’era stata percepita la nostra penisola dai Troiani quando, al loro arrivo, la definirono una terra senza montagna (è questo il significato del dell’Eneide che dice: «umilemque vidimus Italiam»). E tale sarebbe rimasta nelle sue manifestazioni più eclatanti quando pronunciare il nome Italia significava evocare il senso di un successo: mi riferisco alla stagione cinematografica del neorealismo (il racconto dell’Italia dialettale che, capovolgendo ogni narratologia, viene fatta sfilare davanti alla macchina da presa a mo’ di divi hollywoodiani) e all’impressionante affermarsi di oggetti dalla natura artigianale, espressione anch’essi di una matrice umile, le arti applicate, che tuttavia resero celebre nel mondo il nome del made in Italy. Ma Pinocchio è soprattutto è l’emblema di un’antica solitudine cominciata dal fratricidio di Romolo e Remo, avvenimento anomalo se pensiamo che le nazioni fondano sé stesse sulla vittoria delle generazioni nuove sulle vecchie.

A noi è andata diversamente, perciò continuiamo a cercare i padri della nazione, che invece sono puntualmente mancati all’appello. Non lo era Cavour, non lo sarebbe stato De Gasperi, anch’egli un paradigma di umiltà. E qui si chiude il cerchio del nostro destino: essere un Paese di figli senza padri e, proprio per l’assenza dei padri, restare in attesa dell’uomo forte. Ne abbiamo avuti diversi dal giorno dell’Unificazione in avanti e tuttavia – ci suggerisce Zoja – Vittorio Emanuele II, Mussolini, Craxi, Berlusconi sono stati soltanto «in parte aspiranti padri» perché «abitualmente troppo impegnati a essere maschi».

https://www.doppiozero.com/luigi-zoja-litalia-sul-lettino

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