Francesco Longo, Chi era Fredric Jameson, l’autore della Bibbia del postmoderno, Rivista Studio, 23 settembre 2024
Non ha inventato la categoria di postmoderno ma ha reso questa parola un passepartout per afferrare processi molto diversi della contemporaneità: con questa chiave aveva accesso a fenomeni artistici, politici, culturali, architettonici, economici, ideologici, letterari, filosofici. Senza il lavoro di Jameson oggi non sapremmo interpretare molto aspetti del mondo in cui viviamo. Leggendario teorico della cultura, star degli studi marxisti negli Stati Uniti, professore multidisciplinare di letterature comparate, è studiato in ogni angolo del pianeta, nella metà degli anni Ottanta è già invitato a tenere conferenze nelle università cinesi.
È proprio in quegli anni, nel 1984, che pubblica su New Left Review “Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism“, un saggio capitale, provocatorio e illuminante, che in Italia arriva grazie a Garzanti, un libretto di culto, poche pagine esplosive che formano una guida per districarsi in un’epoca indecifrabile. Il suo affondo è evocativo, rivelatore, capace di scoprire verità e di divulgarle a tutti. Nel 1991 esce il volume dal titolo Postmodernismo in cui espande quello studio precedente (in Italia sarà pubblicato da Fazi nel 2007). Questo libro è ancora la bibbia per chi vuole occuparsi del concetto di postmoderno, parola spesso scivolosa, molto spesso fumosa, fraintesa, finita per essere usata per definire tutto e il contrario di tutto. Per Jameson il postmoderno è un periodo storico e tutto ciò che accade quando la modernità ha esaurito la sua energia. Prodotti culturali compresi, ovviamente, che risponderebbero a logiche economiche, quelle del luna park chiamato tardo capitalismo. Tra le pagine indimenticabili di quel saggio, il confronto tra le scarpe rappresentate da Van Gogh e quelle di Andy Warhol, la lettura dell’hotel Bonaventura rivestito di specchi progettato da John Portman a Los Angeles, i romanzi di E. L. Doctorow, il cinema di David Lynch. Jameson è soprattutto un osservatore di forme, e in tutto ciò che vede coglie tratti comuni: la crisi della Storia, la lenta scomparsa del passato, la debolezza della realtà, il predominio su tutto della nostalgia, la sofferenza di stili ridotti a semplici giochi d’intrattenimento, inseriti nel frullatore di artisti incapaci di inventare qualcosa di veramente nuovo. Secondo Jameson il mondo ha perso profondità, tende a diventare una sterminata Disneyland dove tutto le caratteristiche delle epoche precedenti collassano tra loro.
La frase di Jameson più citata e più celebre resta: «È più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo». Anni dopo proverà a spiegare che non intendeva negare la possibilità di una rivolta contro il sistema capitalistico, perché ciò, tra l’alto, avrebbe sabotato la sua energia critica. Ma la frase resta emblematica del suo modo di intendere le ideologie e in particolare l’età del postmoderno: qualcosa in cui siamo totalmente immersi e che ci rende impossibile guardare oltre. Il suo incipit più fulminante invece è «Storicizzare sempre!», con cui si apre l’altro suo capolavoro, L’inconscio politico (del 1981), concentrato sui risvolti simbolici delle narrazioni letterarie.
Per affrontare Jameson bisogna essere pronti a lasciarsi travolgere dalla potenza dell’immaginario collettivo, passare da Hegel a Raymond Chandler, perdersi in una giostra planetaria di riferimenti a nuovi linguaggi, a paesaggi urbani trasformati dal denaro, aggirarsi tra metropoli di carta e insegne di Las Vegas. Tutto il discorso del postmoderno nasce infatti dall’architettura, da edifici improvvisamente piacevoli, colorati, divertenti, “architettura ludica”, incompatibili con il modernismo novecentesco. Da lì, procedendo in ogni direzione, legge tutto come segnale della fine della modernità. Il suo argomentare è complesso ma non oscuro (non è ostico come sfogliare Jacques Derrida o Jacques Lacan), per essere un marxista non è chiuso in una coltre ideologica, né in un linguaggio oracolare (ha dialogato con i teorici della Scuola di Francoforte ma è andato per la sua strada). Si percepisce chiaramente in ogni pagina una curiosità senza freni, il richiamo irresistibile di un mondo in cui sono saltati parametri, confini, valori e verità e che tuttavia è un mondo sempre più sfavillante e magnetico. Da giovane Jameson studia in Europa, digerisce vari mostri sacri, Auerbach, Adorno, Sartre, ma la sua terra è l’America e i viaggi internazionali per tenere conferenze. Per lo sguardo, gli interessi e le intuizioni la sua mente ricorda quelle eclettiche di Walter Benjamin e di Roland Barthes, menti capaci di destreggiarsi tra espressioni artistiche diverse e di individuare analogie tra testi letterari e urbanistica, tra filosofia e merci, tra cucine esotiche e industria culturale.
«La globalizzazione è la postmodernità e viceversa», scrive Jameson nel 2007. I suoi tantissimi libri e le sue parole d’ordine, “Marx”, “Brecht”, “inconscio”, “utopia”, “ideologia”, “allegoria”, “realismo”, sono ancora oggi istruzioni per decodificare la realtà, idee non invecchiate affatto, teorie che non conoscono però la parola fine, ma che sono pronte per essere riadattate e utilizzate ancora, all’infinito. Se ci sono elementi che Jameson condivide con il postmoderno riguardano un atteggiamento onnivoro nei confronti del reale, la vena giocosa e la libertà assoluta che lo ha reso uno dei maggiori interpreti del nostro tempo.
Matteo Marchesini, Che idea irreale hanno gli intellettuali del rapporto tra teoria ed esperienza, Il Foglio, 25 ottobre 2024
In queste settimane, dopo la morte di Fredric Jameson, si sono letti elogi un po’ fuori misura per un tardo e spesso farraginoso casista del marxismo. Come Habermas – che però è limpido, e ha tutt’altra statura – Jameson si rifà a una tradizione di cui gli manca il tratto essenziale (ereditato invece da Enzensberger): ovvero la capacità di unire tempestivamente, con intuito e stile saggistico, i particolari offerti dalla cronaca all’universalità dei presupposti teorici. Entrambi i pensatori hanno reso quella tradizione astratta o generica, neutralizzandola attraverso i modi tipici dell’accademizzazione tardonovecentesca della cultura. E dato che maestri come loro hanno giocato un ruolo rilevante nella formazione del ceto intellettuale (post)umanistico, non pochi dei suoi rappresentanti odierni mostrano un’idea irreale del rapporto che corre tra l’esperienza quotidiana e la politica, la letteratura o la filosofia: il che è tragico, in un’epoca in cui l’eccesso d’informazioni, e l’impossibilità di decifrarne la maggior parte con rigore specialistico, esigerebbe più che mai un buon numero di esseri umani perfino “fisicamente” consapevoli del punto di vista da cui guardano il mondo, e abbastanza forti da non scambiarlo per uno immaginario a seconda dei ricatti dell’attualità.
Prevale, invece, la scissione tra un’attitudine demagogica da opinionisti e una boria da debunker quasi sempre indebita, essendo esibita a proposito di temi che non permettono un approccio “scientifico”. Manca, insomma, la prassi di ricerca di cui c’è più bisogno: quella di Socrate, e di Montaigne. Filosofi, critici e scrittori hanno dimenticato che certe cose possono venir comprese ed espresse solo nella forma del dialogo, del saggio, del “tentativo”. Oblio paradossale, in intellettuali che enfatizzano i debiti con Lukács e i francofortesi, o su un altro versante con Nietzsche (del resto filtrato, nove volte su dieci, dalle derealizzanti manipolazioni heideggeriane).
Forse occorrerebbe tornare all’inizio del XX secolo, e privilegiare un’altra strada. Per esempio quella di tre filosofi che allora scelsero di sottoporre la loro meditata concezione teoretica alla prova dell’occasione quotidiana e del genere saggistico: Simmel, Alain e Ortega y Gasset. Nella sua filosofia della vita in lotta con la forma, Simmel insegue l’ossimoro di una “legge individuale”: crede, cioè, che alla profondità speculativa si possa arrivare solo partendo da singoli oggetti comuni (un vaso, un vestito, un’andatura) e in particolare dalla superficie scintillante della modernità metropolitana. Gli esseri umani riescono a tollerare i troppi stimoli di questa modernità solo sfiorandoli in un gioco continuo di distanza e vicinanza. E’, ad esempio, il gioco della civetteria, che Simmel analizza facendo coincidere l’idea pura del fenomeno con la sua descrizione fisica (la civetta guarda “con la coda dell’occhio e la testa mezzo girata”, dando e togliendo attenzione in un unico gesto); ed è, ancora, il gioco della moda, che garantisce a un tempo “obbedienza sociale” e “differenziazione individuale” a una nuova classe media i cui membri non possono più aspirare a un’esistenza umana integra. A Simmel si rivolse il giovane Ortega, instancabile fondatore di riviste. Anche lo spagnolo colma i vuoti del kantismo con un approccio prospettivistico (“Ogni vita è un punto di vista dell’universo”) e approda a un pragmatismo già esistenzialista; anche lui s’identifica con l’immagine di un Goethe non olimpico ma niccianamente inquieto; e anche lui tende all’indagine sociologica – “io sono io e la mia circostanza”– condotta con uno stile che rivendica il ruolo conoscitivo delle metafore. Filosofo elzevirista, narrativo e teatrale, Ortega riunisce sotto il suo titolo più famoso una serie di articoli. “Le città sono piene di gente. Le case, piene d’inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti. (…) Quello che prima non costituiva un problema, incomincia a esserlo quasi a ogni momento: trovar posto”, recita l’incipit di “La ribellione delle masse”, che tematizzando l’equivoco tra giusta democrazia dei diritti e falsa democrazia della qualità parla ancora di noi.
Come Ortega, Alain ricorda che la libertà si conquista giorno per giorno, resistendo contro ciò che in noi tende all’inerzia; ma lo fa coi modi della tradizione cartesiana e radicale francese. In lui il “propos”, ragionamento chiuso in un trafiletto di giornale, raggiunge la perfezione di una sorta di sonetto saggistico. Descrivendo un mestiere o un fiore, una passione o un volto umano, Alain riporta ogni dettaglio della vita a quella “cieca necessità” del cosmo che l’uomo vince nell’atto di definirla. Rifiuta le fantasticherie solipsistiche, che sfuggono all’attrito indispensabile con gli ostacoli mondani, ma anche la delega del pensiero alla “bestia sociale”, perché “solo l’individuo pensa, ogni assemblea è stupida”. C’è già, in questo Alain, la nettezza della sua allieva Weil; ma c’è, soprattutto, l’antidoto alla cattiva filosofia e alla cattiva politica che hanno trionfato dal ’900 a oggi.
Fredric Jameson, la prassi del lavoro culturale | il manifesto
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