Guido Melis
Il congedo dalla vita: un ricordo di
Peppino Fiori
Dev’essere stato nell’autunno del 1974, o giù di lì, che ho incontrato per
la prima volta Peppino Fiori. Avevo 24 anni, stavo per laurearmi in
Giurisprudenza e mi era presa, come a tanti ragazzi della mia generazione, la
passione travolgente per Gramsci. E proprio su Gramsci, precisamente sui suoi
scritti “sardi”, stavo preparando, a Roma, quello che poi sarebbe stato il mio
primo libro. Peppino degli studi gramsciani e in particolare del “Gramsci
sardo” era allora lo specialista indiscusso. Aveva pubblicato qualche
anno prima la celebre
Vita di Antonio Gramsci, un libro poi tradotto
in molte lingue, nel quale – oltre a svelare il dissenso di Gramsci in carcere
nei confronti della svolta stalinista dell’Internazionale (fondamentale
l’intervista al fratello, Gennaro, che raccontò per la prima volta del suo
famoso viaggio a Turi) – aveva ricostruito, in un’inchiesta degna del miglior
giornalismo, le origini sarde, la storia della famiglia, l’infanzia e la prima
adolescenza di quello che sarebbe poi divenuto il principale teorico del
marxismo italiano. Naturale dunque che, forte dell’amicizia che lo legava a mio
padre, mi rivolgessi anzitutto a lui.
Mi venne a prendere all’angolo tra Piazza del Popolo e via del Babuino
(lavorava ancora alla Rai, la cui sede era lì nei pressi), brusco e diretto
com’era sempre, ma al tempo stesso simpatico, alla mano, coinvolgente. Fu
subito un interrogatorio: cosa facevo, cosa mi piaceva studiare, perché mi
interessava tanto Gramsci, quali erano i miei progetti per il futuro. Mi fece
montare in macchina (guidava, lo avrei capito frequentandolo, in un modo tutto
suo). Un breve percorso nel traffico romano ci portò lungo i tornanti di Monte
Mario, in via dei Giornalisti. E qui, in un appartamento microscopico
straripante di vecchi libri, mi presentò un vecchino tutto ingolfato in una
giacca da camera a scacchi rossi e neri, la testa coperta da un improbabile
berettuccio di lana, gli occhialini dorati, la voce esile quasi impercettibile.
Era, come appresi con emozione, Alfonso Leonetti.
Leonetti voleva dire un pezzo di storia del movimento operaio del primo
Novecento. Amico personale e stretto collaboratore di Gramsci all’ “Ordine
Nuovo”, dirigente socialista in Puglia prima, poi comunista fondatore del
partito nel ’21, espulso nel 1930 per aver sostenuto insieme a Tresso e
Ravazzoli le posizioni di Trotzky, conservava ricordi nitidissimi degli anni
torinesi. Mi raccontò un suo Gramsci personale, in gran parte inedito, nel
quale certi tratti caratteriali – diceva – , a cominciare dalla pronunzia
marcata, gli erano sempre sembrati tipicamente sardi. Nella breve prefazione
che accettò di scrivere per il mio libro avrebbe tra l’altro segnalato “un
piccolo erroruccio ortografico” in una lettera di Nino del ’26: la parola
“eccittat
to”, scritta “proprio con due t, come se stesse conversando
in sardo”.
Da quella prima volta nacque tra me e Peppino un rapporto che si sarebbe
presto trasformato in una lunga amicizia, per quanto – lo ammetto – molto
singolare: intanto per l’asimmetria generazione (lui era del 1923, io del 1949:
avrei potuto essere suo figlio); poi per la diversità delle esperienze e
persino delle idee (socialista lui, in procinto di spostarsi a sinistra contro
la conquista craxiana del vecchio Psi, extraparlamentare con ingenue passioni
rivoluzionarie io); infine per l’ambito e la formazione così differenti (lui
abituato al clamore del giornalismo da inviato, io ai silenzi degli archivi e
delle biblioteche). Ma Peppino, non so perché, prese subito a volermi bene.
Cominciò a seguire i miei progressi negli studi con indulgente attenzione,
incoraggiandomi e commentandoli passo per passo con competenza, e anche non
perdendo occasione di vantare le mie presunte doti di studioso in decollo
ovunque gli capitasse di poterlo fare. Come quando, dovendo citare un passo di
Gramsci sulla Sardegna in una puntata di Tv7, fece in modo, quasi succedesse
per caso, di esibire per un attimo in favore di telecamera la copertina del mio
libro “sardo”, allora freschissimo di stampa. Pubblicità occulta, insomma, per
pura amicizia tra sardi.
Io, a mia volta, cominciai a scrivergli lunghe lettere-relazione nelle quali
gli parlavo molto di storia e un po’ anche di politica. Dopo un po’, ma
specialmente negli ultimi anni, divenne abituale la telefonata domenicale per
un breve saluto, spesso trasformata in una chiacchierata sull’universo mondo. E
prendemmo l’abitudine, facendosi più frequenti i miei viaggi romani per
lavorare negli archivi, di cenare ogni tanto insieme, sempre, immancabilmente
da “Fortunato al Pantheon” (“lo abbiamo scoperto noi di sinistra quando era una
trattoria – si lamentava sempre – , ed ora ci vengono i signori della
destra”), dove naturalmente era impossibile sottrargli almeno per una volta il
conto.
Frattanto, dopo essere stato uno dei giornalisti televisivi migliori della
sua generazione (una leva straordinaria, per altro, dove spiccavano il
magistero di Giorgio Vecchietti e la personalità emergente di Sergio Zavoli),
era passato alla politica. Eletto senatore in Sardegna, un ruolo che avrebbe
ricoperto con grande serietà ed efficacia (noi storici dobbiamo essergli grati
in particolare per aver sottratto le carte del Tribunale speciale fascista alla
gestione dei militari ed averle fatte versare all’Archivio centrale dello
Stato) proseguiva con metodo le sue ricerche (era, con Pietro Scoppola, uno
dei rari, assidui senatori che capitava di trovare al lavoro nella splendida
biblioteca del Senato). Ne sarebbero venuti libri importanti come le “vite” di
Michele Schirru, di Enrico Berlinguer, di Ernesto Rossi, soprattutto di Emilio
Lussu, il personaggio che forse, tra tutti, era quello che gli somigliava
caratterialmente di più. Intransigente come Lussu, del resto, Peppino lo era di
suo, senza bisogno di modelli; e ho sempre pensato che quella scelta etica
fosse un po’ scritta nella sua stessa fisiognomica: corpulento, massiccio, il
viso tipicamente sardo scolpito con pochi tratti essenziali, l’espressione
apparentemente sempre aggrottata, l’atteggiamento severo. Non faceva
sconti, né blandiva i toni a seconda delle circostanze e degli interlocutori.
Davanti alla ressa un po’ invereconda di tanti personaggi di spicco, anche di
sinistra, nelle Tv commerciali di Berlusconi (
Il venditore, secondo il
fulminante e precoce ritratto che ne avrebbe tracciato nel ’95), amava dire
scherzando agli amici: “Quando muoio scrivete sulla mia tomba: ‘Qui giace
Giuseppe Fiori. Non andò mai alle Maldive, né alle Mauritius, né al ‘Maurizio
Costanzo show’”.
Parlava e scriveva per frasi brevi, essenziali, soggetto-predicato-verbo,
senza parentesi o eccessive specificazioni, quasi una scrittura “orale”,
trasmettendo così a chi lo ascoltava o leggeva la sensazione della precisione
del concetto, e in definitiva anche della sua implicita autenticità. Ma poteva
poi, se voleva, anche aprirsi a momenti di indimenticabili tenerezze, a un
senso pudico e trattenuto di umanità, spesso malinconica, perché la vita gli
aveva riservato qualche dolore (la scomparsa precoce della moglie Nandina) e
qualche malanno di troppo, affrontato però con stoica capacità di
sopportazione.
Capitava qualche volta, se la serata era propizia, anche durante le nostre
cene che si lasciasse andare ai ricordi e persino che scoprisse un po’ di sé
stesso. E, sebbene raramente, poteva accadere anche in pubblico. Appena uscito
il suo libro su Rossi, gli chiesi di venire a parlarne a Napoli, ad un convegno
storico sull’etica pubblica. Fu una lezione magistrale, in un silenzio
assoluto, conclusa da un applauso interminabile. Alla fine, al pubblico
affascinato, raccontò di quando un Ernesto ormai prossimo alla morte, stanco e
forse anche sconfitto, va al cinema a vedere
Il posto delle fragole di
Bergman. E silenziosamente, nel buio della sala, piange.
Ci commosse tutti. E tutti avemmo la sensazione, da
certe impercettibili vibrazioni della sua bella voce, calda e pastosa, che
anche lui, il narratore magistrale di tante storie altrui, il cronista
oggettivo di tante drammatiche vicende, quella volta, nel raccontare il congedo
del vecchio Rossi dalla vita, si sentisse personalmente
partecipe.
Fonte
Il coraggio della verità. L'Italia civile di Giuseppe Fiori, a
cura di Jacopo Onnis, Cagliari, CUEC, 2013.