mercoledì 8 maggio 2013

Andreotti come non te l'aspetti



UNA TESTIMONIANZA


Nel momento in cui si sprecano sui media le commemorazioni di Giulio Andreotti, ci può essere posto anche per un piccolo, ma a mio parere emblematico, ricordo personale del “divo Giulio”. Alcuni anni fa ero venuto a conoscenza del fatto che l’ex leader democristiano possedeva nel suo mitico archivio personale alcuni documenti di provenienza vaticana di grande interesse ai fini di una mia ricerca su Umberto Terracini che muoveva allora i suoi primi passi. Si trattava di una documentazione attestante una trattativa risalente all’autunno del 1927 tra lo Stato sovietico e il governo italiano, con la mediazione del Vaticano, volta ad ottenere la liberazione di Terracini e Antonio Gramsci dalle carceri fasciste.
Ben sapendo quanto fosse difficile accedere agli archivi vaticani, decisi di rivolgermi direttamente al senatore a vita, pur non avendo mai avuto in precedenza alcun rapporto con lui, sperando che la sua fama di persona abituata a rispondere a qualsiasi interlocutore fosse vera.
Gli scrissi pertanto una lettera, indirizzata direttamente a Palazzo Madama, nella quale gli chiedevo se sarebbe stato così cortese da inviarmi una copia di questi documenti. Dopo poco più di una settimana ricevetti un plico contenente le carte che avevo richiesto, accompagnate da un breve messaggio personale scritto a mano, nel quale il più volte presidente del Consiglio si dichiarava felice di potermi aiutare e mi augurava buon lavoro.
Va detto che analoghe sollecitazioni rivolte ad ambienti riconducibili alla sinistra siano andate o del tutto a vuoto, o si siano concretizzate solo dopo l’intervento dei soliti “amici degli amici” (forse sarebbe più corretto definirli “compagni dei compagni”…).
In questa occasione Giulio Andreotti mi ha dato una piccola ma significativa lezione su come si gestisce un sistema di potere, qualità nella quale eccelleva più di ogni altro: mai ritenersi troppo in alto da non degnarsi di dare udienza a chiunque…

martedì 7 maggio 2013

Pasolini, Le ceneri di Gramsci

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia
 
con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
 
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
 
tra le vecchie muraglie l'autunnale
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
 
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo...
 
Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
 
quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri - non padre, ma umile
fratello - già con la tua magra mano
 
delineavi l'ideale che illumina
 
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell'umido
 
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia
 
patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d'incudine
dalle officine di Testaccio, sopito
 
nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
 
la sua giornata, mentre intorno spiove.
... 
 http://cemeteryrome.it/press/webnewsletter-it/n.10-2010.pdf
http://www.romeguide.it/monumenti/cimiteri/acattolico/cimiteroacattolico.htm
 http://it.wikipedia.org/wiki/Le_ceneri_di_Gramsci

lunedì 6 maggio 2013

Essadia, basta un sorriso

Anna Cordioli

foto di Stefano Bertolino


Torino, 4 maggio 2013. “Lei si chiama Zohra che significa fiore, mia figlia si chiama Alae che significa tutti i doni che dà il Creatore, lei si chiama Aya che significa miracolo e io mi chiamo Essadia che è la felicità infatti vedi come sono felice?”.
Essadia mi introduce nel loro mondo con un sorriso sereno, come se questa Italia le avesse portato via tutto, ma non quello che il suo nome ha impresso nella sua carne. Sono seduta con loro, come un’amica e mentre parliamo i bambini passano dalle braccia di una a quelle dell’altra.
Finalmente la pioggia ha dato un po’ di tregua e quel pallido raggio di sole che ci illumina ci fa sentire ancora più vicine.
Da lunedì vivono davanti al Municipio, in Piazza Palazzo di Città, determinati a chiedere una risposta concreta al dramma che stanno vivendo, attraverso una protesta pacifica, ma inesorabile. Sono una comunità, mossa da un forte senso di solidarietà e accoglienza, “il tuo problema è anche inevitabilmente il mio e allora non posso che condividere con te tutto questo”. E anche noi veniamo accolti, come se ci conoscessimo da sempre, quello che hanno ci viene offerto, che sia una tazza di the, un caffè, un piatto di cuscus o una minestra calda.
E allora ti siedi con loro sotto i portici, su una coperta, a gambe incrociate, e inizi ad ascoltare le loro storie. Gli uomini ti raccontano che per vent’anni hanno lavorato la notte, ai mercati generali, hanno faticato per risparmiare i soldi necessari per l’acquisto della tanto sognata casa dove crescere i figli, ti raccontano della facilità con cui la banca ha concesso loro il mutuo, dell’arrivo della moglie e poi della nascita dei figli. Il sogno di una stabilità economica che si realizza, con fatica e onestà. Ti raccontano del permesso di soggiorno o dell’umiliazione di essere considerato straniero anche quando hai la cittadinanza italiana. Poi la crisi, il lavoro sempre più precario e sporadico, la banca che con la stessa facilità con cui ti aveva dato una mano ora ti chiede di pagare le rate del muto arretrate altrimenti… il gesto di Mustafa è chiaro, altrimenti “smamma”, ti buttiamo fuori di casa. Ma se non c’è lavoro come si può riuscire a pagare ogni mese 500 euro di mutuo o di affitto?
Le donne ti chiedono di sederti con loro, ti ringraziano perché semplicemente sei lì, ti parlano dei loro figli, di quello che fanno, ti spiegano il significato dei loro nomi che hanno scelto nel Corano e si illuminano quando vedono che anche tu conosci (un pochino) la loro religione.
Sono 15 famiglie, alcune attendono l’esecuzione dello sfratto, una non ha più una casa. Sono una giovane coppia con due meravigliosi bambini di 2 e 3 anni. I loro corpi sono segnati dalla stanchezza, i loro occhi sono pieni di paura per l’insicurezza del domani, non hanno più nulla, tutto è rimasto nella casa dalla quale sono stati sfrattati, hanno solo una piccola valigia con qualche vestito di ricambio. La notte Khadija e i bambini vengono ospitati a dormire dagli amici, mentre il gruppo di uomini restano a dormire qui, davanti al comune, in attesa che qualcuno si accorga di loro e decida di fare qualcosa.
I passanti quasi non li notano, nemmeno il sindaco sembra farlo, scappa verso la macchina quando i bambini lo rincorrono gridandogli “basta sfratti!”. Non riesce a trovare una soluzione o forse semplicemente non la vuole trovare affatto.
Loro restano qui, sono passati sei giorni, ma non mollano. Se chiedi cosa puoi fare per loro, se hanno bisogno di qualcosa, ti sorrido e ti dicono “Nulla, per noi se sei qui basta”.

sabato 4 maggio 2013

Peppino Fiori, in memoriam



Guido Melis
Il congedo dalla vita: un ricordo di Peppino Fiori

Dev’essere stato nell’autunno del 1974, o giù di lì, che ho incontrato per la prima volta Peppino Fiori. Avevo 24 anni, stavo per laurearmi in Giurisprudenza e mi era presa, come a tanti ragazzi della mia generazione, la passione travolgente per Gramsci. E proprio su Gramsci, precisamente sui suoi scritti “sardi”, stavo preparando, a Roma, quello che poi sarebbe stato il mio primo libro. Peppino degli studi gramsciani e in particolare del “Gramsci sardo” era allora lo specialista indiscusso. Aveva pubblicato  qualche anno prima la celebre Vita di Antonio Gramsci, un libro poi tradotto in molte lingue, nel quale – oltre a svelare il dissenso di Gramsci in carcere nei confronti della svolta stalinista dell’Internazionale (fondamentale l’intervista al fratello, Gennaro, che raccontò per la prima volta del suo famoso viaggio a Turi) – aveva ricostruito, in un’inchiesta degna del miglior giornalismo, le origini sarde, la storia della famiglia, l’infanzia e la prima adolescenza di quello che sarebbe poi divenuto il principale teorico del marxismo italiano. Naturale dunque che, forte dell’amicizia che lo legava a mio padre, mi rivolgessi anzitutto a lui.
Mi venne a prendere all’angolo tra Piazza del Popolo e via del Babuino (lavorava ancora alla Rai, la cui sede era lì nei pressi), brusco e diretto com’era sempre, ma al tempo stesso simpatico, alla mano, coinvolgente. Fu subito un interrogatorio: cosa facevo, cosa mi piaceva studiare, perché mi interessava tanto Gramsci, quali erano i miei progetti per il futuro. Mi fece montare in macchina (guidava, lo avrei capito frequentandolo, in un modo tutto suo). Un breve percorso nel traffico romano ci portò lungo i tornanti di Monte Mario, in via dei Giornalisti. E qui, in un appartamento microscopico straripante di vecchi libri, mi presentò un vecchino tutto ingolfato in una giacca da camera a scacchi rossi e neri, la testa coperta da un improbabile berettuccio di lana, gli occhialini dorati, la voce esile quasi impercettibile. Era, come appresi con emozione, Alfonso Leonetti.
Leonetti voleva dire un pezzo di storia del movimento operaio del primo Novecento. Amico personale e stretto collaboratore di Gramsci all’ “Ordine Nuovo”, dirigente socialista in Puglia prima, poi comunista fondatore del partito nel ’21, espulso nel 1930 per aver sostenuto insieme a Tresso e Ravazzoli le posizioni di Trotzky, conservava ricordi nitidissimi degli anni torinesi. Mi raccontò un suo Gramsci personale, in gran parte inedito, nel quale certi tratti caratteriali – diceva – , a cominciare dalla pronunzia marcata, gli erano sempre sembrati tipicamente sardi. Nella breve prefazione che accettò di scrivere per il mio libro avrebbe tra l’altro segnalato “un piccolo erroruccio ortografico” in una lettera di Nino del ’26: la parola “eccittatto”, scritta “proprio con due t, come se stesse conversando in sardo”.
Da quella prima volta nacque tra me e Peppino un rapporto che si sarebbe presto trasformato in una lunga amicizia, per quanto – lo ammetto –  molto singolare: intanto per l’asimmetria generazione (lui era del 1923, io del 1949: avrei potuto essere suo figlio); poi per la diversità delle esperienze e persino delle idee (socialista lui, in procinto di spostarsi a sinistra contro la conquista craxiana del vecchio Psi, extraparlamentare con ingenue passioni rivoluzionarie io); infine per l’ambito e la formazione così differenti (lui abituato al clamore del giornalismo da inviato, io ai silenzi degli archivi e delle biblioteche). Ma Peppino, non so perché, prese subito a volermi bene. Cominciò a seguire i miei progressi negli studi con indulgente attenzione, incoraggiandomi e commentandoli passo per passo con competenza, e anche non perdendo occasione di vantare le mie presunte doti di studioso in decollo ovunque gli capitasse di poterlo fare. Come quando, dovendo citare un passo di Gramsci sulla Sardegna in una puntata di Tv7, fece in modo, quasi succedesse per caso, di esibire per un attimo in favore di telecamera la copertina del mio libro “sardo”, allora freschissimo di stampa. Pubblicità occulta, insomma, per pura amicizia tra sardi.
Io, a mia volta, cominciai a scrivergli lunghe lettere-relazione nelle quali gli parlavo molto di storia e un po’ anche di politica. Dopo un po’,  ma specialmente negli ultimi anni, divenne abituale la telefonata domenicale per un breve saluto, spesso trasformata in una chiacchierata sull’universo mondo. E prendemmo l’abitudine, facendosi più frequenti i miei viaggi romani per lavorare negli archivi, di cenare ogni tanto insieme, sempre, immancabilmente da “Fortunato al Pantheon” (“lo abbiamo scoperto noi di sinistra quando era una trattoria – si lamentava sempre –  , ed ora ci vengono i signori della destra”), dove naturalmente era impossibile sottrargli almeno per una volta il conto.
Frattanto, dopo essere stato uno dei giornalisti televisivi migliori della sua generazione (una leva straordinaria, per altro, dove spiccavano il magistero di Giorgio Vecchietti e la personalità emergente di Sergio Zavoli), era passato alla politica. Eletto senatore in Sardegna, un ruolo che avrebbe ricoperto con grande serietà ed efficacia (noi storici dobbiamo essergli grati in particolare per aver sottratto le carte del Tribunale speciale fascista alla gestione dei militari ed averle fatte versare all’Archivio centrale dello Stato) proseguiva con metodo le sue ricerche (era, con Pietro Scoppola, uno dei rari, assidui senatori che capitava di trovare al lavoro nella splendida biblioteca del Senato). Ne sarebbero venuti libri importanti come le “vite” di Michele Schirru, di Enrico Berlinguer, di Ernesto Rossi, soprattutto di Emilio Lussu, il personaggio che forse, tra tutti, era quello che gli somigliava caratterialmente di più. Intransigente come Lussu, del resto, Peppino lo era di suo, senza bisogno di modelli; e ho sempre pensato che quella scelta etica fosse un po’ scritta nella sua stessa fisiognomica: corpulento, massiccio, il viso tipicamente sardo scolpito con pochi tratti essenziali, l’espressione apparentemente sempre aggrottata,  l’atteggiamento severo. Non faceva sconti, né blandiva i toni a seconda delle circostanze e degli interlocutori. Davanti alla ressa un po’ invereconda di tanti personaggi di spicco, anche di sinistra, nelle Tv commerciali di Berlusconi (Il venditore, secondo il fulminante e precoce ritratto che ne avrebbe tracciato nel ’95), amava dire scherzando agli amici: “Quando muoio scrivete sulla mia tomba: ‘Qui giace Giuseppe Fiori. Non andò mai alle Maldive, né alle Mauritius, né al ‘Maurizio Costanzo show’”.
Parlava e scriveva per frasi brevi, essenziali, soggetto-predicato-verbo, senza parentesi o eccessive specificazioni, quasi una scrittura “orale”, trasmettendo così a chi lo ascoltava o leggeva la sensazione della precisione del concetto, e in definitiva anche della sua implicita autenticità. Ma poteva poi, se voleva, anche aprirsi a momenti di indimenticabili tenerezze, a un senso pudico e trattenuto di umanità, spesso malinconica, perché la vita gli aveva riservato qualche dolore (la scomparsa precoce della moglie Nandina) e qualche malanno di troppo, affrontato però con stoica capacità di sopportazione.
Capitava qualche volta, se la serata era propizia, anche durante le nostre cene che si lasciasse andare ai ricordi e persino che scoprisse un po’ di sé stesso. E, sebbene raramente, poteva accadere anche in pubblico. Appena uscito il suo libro su Rossi, gli chiesi di venire a parlarne a Napoli, ad un convegno storico sull’etica pubblica. Fu una lezione magistrale, in un silenzio assoluto, conclusa da un applauso interminabile. Alla fine, al pubblico affascinato, raccontò di quando un Ernesto ormai prossimo alla morte, stanco e forse anche sconfitto, va al cinema a vedere Il posto delle fragole di Bergman. E silenziosamente, nel buio della sala, piange.
Ci commosse tutti. E tutti avemmo la sensazione, da certe impercettibili vibrazioni della sua bella voce, calda e pastosa, che anche lui, il narratore magistrale di tante storie altrui, il cronista oggettivo di tante drammatiche vicende, quella volta, nel raccontare il congedo del vecchio Rossi dalla vita, si sentisse personalmente partecipe.
    




Fonte 
Il coraggio della verità. L'Italia civile di Giuseppe Fiori, a cura di Jacopo Onnis, Cagliari, CUEC, 2013.                  

venerdì 3 maggio 2013

Lucrezio, De rerum natura

  







La fede nella ragione


 nam vel uti pueri trepidant atque omnia caecis
Infatti come i fanciulli nelle tenebre temono
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
e hanno paura di tutto, così nella luce noi talvolta
inter dum, nihilo quae sunt metuenda magis quam
temiamo cose che non sono affatto più spaventose
quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
di quelle che i fanciulli paventano nelle tenebre immaginandole imminenti.
Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest 
Questo terrore dell’animo, dunque, e queste tenebre occorre
non radii solis neque lucida tela diei 
che siano dissipate non dai raggi del sole o dai lucenti
discutiant, sed naturae species ratioque. 
dardi del giorno, ma dalla visione e dalla scienza della natura.



De rerum natura, libro II, 54-61
(traduzione di Luca Canali)

E come i fanciulli vedon di notte atterriti
nel vuoto dell'ombra fantasmi di gelide ali
e ne fingono altri in cammino per l'aria,
così nella luce tremano gli uomini
di cose più esigue dell'ombre. Né valgono
i raggi del sole a sperder le tenebre
e questo terrore dell'animo, ma solo 
lo studio del vero, ma solo la luce 
della ragione.
(traduzione di Enzio Cetrangolo)

Lucrezio razionalista? Non proprio, o non solo. Lucrezio ha in sé qualcosa di arcaico e barbarico, pur nella spregiudicata rivoluzione razionalista che il De rerum natura rappresenta sulle orme di Epicuro: questo pensa Luca Canali in particolare. L’importanza che il poeta assegna al tema della morte, la capacità sua di suscitare il sentimento del sublime, la stessa cura nel delineare la possibilità del clinamen, con l’atomo che non segue una traiettoria obbligata, e ancora la rappresentazione dell’amore nel De rerum natura sono segni di un atteggiamento più aperto verso la molteplicità del reale e verso l’intreccio costitutivo della vita. (Giovanni Carpinelli)







giovedì 2 maggio 2013

Il mistero svelato dei 101

Umberto Cherubini

PD: paradossi democratici. Bersani fa le primarie in pompa magna e viene tradito da uno su quattro. Gesù Cristo, che scelse gli apostoli senza le primarie, fece molto meglio: uno su dodici. È un problema di funzionamento della democrazia? O è un problema della politica come professione? Forse è un problema di tutte e due: politica di professione e democrazia non stanno insieme.
Fenomenologia dei 101. Provate a fare un gioco di ruolo. Siete uno dei 101 che ha acclamato Prodi nella riunione dei grandi elettori e non lo ha votato il giorno dopo. Che tipo siete? Perché avete fatto questa scelta? E ora cosa state facendo? Cominciamo dalle cose semplici. In primo luogo, siete contrari a Prodi, anche se gli psicologi potrebbero trovare controesempi: amo Prodi e quindi gli voto contro, per un qualche complesso moto dell’inconscio. Diciamo però che siete contrari a Prodi, e lo siete per motivi politici. Siete appena usciti dalla riunione in cui avete ricevuto l’indicazione di votare Prodi. Non siete intervenuti, forse avete cambiato idea nella notte, forse avete parlato con qualcuno. In fondo, solo i cretini non cambiano idea (anche se questo non vuol dire che anche i cretini lo facciano). Ma tant'è, non volete votare Prodi. E ne siete convinti, perché se non lo foste la scelta giusta sarebbe votare, tanto la probabilità che Prodi raggiunga il massimo dei voti è bassa. Voi votate perché volete stroncare eventuali insistenze sul nome Prodi nelle votazioni successive.

Volete dare un segnale chiaro. L'avete fatto, e avete raggiunto l'obiettivo. Ora ci sono due scenari. Il problema è risolto, e allora è il caso di spiegare perché è stato risolto. Il problema non è risolto? Allora, è il caso di uscire allo scoperto e dare il colpo finale. E' qui che non riusciamo più ad andare avanti con il gioco. E' il silenzio dei 101 che non è spiegabile in nessuna forma logica, se la logica resta all'interno della contesa politica. Possibile che non ci sia nessuno che abbia la voglia di parlare, se non per motivi di trasparenza pubblica almeno per motivi di vanità privata? Possibile che a nessuno non venga neppure in mente di intonare il: "sono qui per seppellire Prodi e non per lodarlo"? Nessuno che senta neppure il bisogno di far sapere le proprie ragioni in forma anonima?
Questo è il mistero dei 101: una falange così compatta, con un silenzio così ostinato, che ci ricorda gli eroi. Una falange senza un capo, ma che si muove come un uomo solo. I conti non tornano, però, perché gli eroi finiscono il lavoro. Gli eroi non potrebbero tollerare che la loro ombra segua il nuovo capo del governo, lasciando anche e soprattutto aperto il sospetto che lui sia uno di loro. In questo caso gli eroi parlano. E allora in questa politica pirandelliana emerge, come sempre, una realtà diversa, che però non ci sorprende mai. E ci viene da sorridere, con amarezza e tenerezza, pensando che quando lo smacchiatore di giaguari minacciava i 5 Stelle: "se si va a casa, si va a casa tutti", i 101 drizzavano le orecchie e prendevano appunti.
Abbiamo quindi provato, con un vero e proprio teorema, che i 101 non hanno votato né in coscienza né in incoscienza. Hanno difeso il loro posto di lavoro. Il fatto che la falange sia altrettanto compatta di una falange di eroi non deve ingannare. Ricordiamoci che anche ai tempi della compravendita di parlamentari regnava il silenzio (almeno sul prezzo). E in questo silenzio, è lecito supporre tutto, anche che un'altra compravendita si sia verificata.
Dopo il teorema, il corollario. Chi può avere paura di perdere il posto? Uno che esercita una professione. Ecco il punto focale. Il teorema implica che i 101 sono politici di professione. Sono casta. Sono la prova e il sintomo di una questione morale che persiste nella sinistra, e che noi di sinistra non siamo più disposti a tollerare.
E, alla fine, i 101 ci lasciano una domanda complessa sulla selezione della classe politica. Come è possibile che un personale politico così scadente sia stato selezionato con le primarie? Perché la democrazia non ha funzionato? Perché ha selezionato personale politico con interessi privati? Su questo non ci sono teoremi, ma una congettura. Il politico di professione è un concetto in
contrasto con la democrazia. I professionisti si scelgono, non si eleggono. Quando dovete chiamare un trombaio fate le primarie?
In conclusione, abbiamo provato che i 101 hanno mostrato l'incompatibilità tra democrazia e politica di professione, hanno profanato le primarie, e adesso seguono, come follower indesiderati, l'operato del governo. La scienza procede a forza di controesempi. Se uno dei 101 vuole inviare un controesempio al mio teorema, lo può fare anonimanente, mi auguro qui su Linkiesta.
In mancanza di questo controesempio, che non arriverà, la diagnosi è infausta. Stiamo lavorando con un governo debole, e con un parlamento che andrebbe sciolto, per la sola esistenza dei 101, e nessuno dell'attuale compagine del PD dovrebbe essere candidato alla prossima elezione, a meno che non si chiarisca il mistero dei 101. Questa è compattezza e unità, e questa è la politica: quando qualcuno sbaglia (e 101 sono più di qualcuno), si paga tutti.

Fonte  http://www.linkiesta.it/blogs/cosi-e-se-traspare-storie-finanza-e-mancanza-trasparenza/la-scarica-dei-101-e-le-primarie#ixzz2S7fwJfim

La vicenda dei 101 secondo Fabio Martini (La Stampa)
Giornalettismo, 26 gennaio 2015

Quirinale, come andò veramente che i 101 parlamentari del Partito Democratico silurarono la corsa di Romano Prodi al colle più alto? Dopo le affermazioni di Stefano Fassina, esponente della minoranza del Partito Democratico, su la Stampa di oggi Fabio Martini pubblica un ampia ricostruzione dei giorni che cambiarono il corso della legislatura e che aprirono la strada al fallimento della segreteria di Pierluigi Bersani.

QUIRINALE, LA STORIA DEI 101 PARLAMENTARI CHE SILURARONO PRODI - “Matteo Renzi fu il capo dei 101 che affossarono Romano Prodi”, ha recentemente affermato Stefano Fassina. Le cose, racconta Martini, sarebbero andate in modo totalmente diverso: “È la sera del 18 aprile 2013″, racconta il cronista della Stampa, “e il giorno prima si era consumato il flop di Franco Marini, candidato al Quirinale dell’accordo tra Bersani e Berlusconi. In quelle ore il Pd sta decidendo di cambiare cavallo e strategia e a quel punto il sindaco di Firenze Matteo Renzi, sempre così restio a farsi vedere a Roma, si scomoda. Convoca i «suoi» 35 parlamentari al ristorante e gli comunica: “Si vota Prodi”. Dunque, le affermazioni di Fassina, scrive Martini, sarebbero “prive di fondamento” perché l’attuale segretario del Pd avrebbe dato ordine ai parlamentari a lui vicini di votare il Professore, se non altro perché se allora si fosse formato “un governo di legislatura, lui rischiava di finire per cinque anni nel freezer”. Così, da Eataly di Roma arriva la direttiva agli esponenti renziani: si voti per Prodi.

LA CANDIDATURA DI MASSIMO D’ALEMA - “Ma quella notte accadono altre due cose decisive”, continua Martini: “Bersani, dopo aver fatto ritirare Marini, sta precipitosamente convergendo anche lui su Prodi. Confida oggi Marini: “La rapidità con la quale Bersani ha lanciato Prodi, senza preparare troppo la candidatura, si spiega in un modo solo: provò a giocare d’anticipo perché temeva una candidatura di D’Alema a quel punto vincente”. L’operazione da bloccare non era quella di Prodi, dunque, ma quella di Massimo d’Alema, pronto sulla rampa di lancio: “D’Alema fa sapere di essere pronto a sfidare Prodi. A scrutinio segreto! Scontro lacerante ma vero tra i duellanti di un ventennio. Nel cuore della notte vengono preparate le schede per la mattina successiva”. La mattina dopo, prestissimo, Pierluigi Bersani propone ai parlamentari del Pd il nome di Romano Prodi: candidatura, come è noto, accolta all’unanimità dai parlamentari del Pd, giusto? Sbagliato: “All’annuncio del nome di Professore, le prime due file, ma solo quelle, si alzano in un applauso entusiastico, Bersani e Zanda «cedono» all’acclamazione senza voto”. D’Alema dirà a Marco Damilano nel suo ultimo libro che quella sera “in sala c’è stato l’errore grave di chi doveva parlare e non lo ha fatto”, ovvero di Anna Finocchiaro, che avrebbe dovuto opporsi all’acclamazione e chiedere la conta.

RODOTA’ NON SI RITIRA - Romano Prodi è candidato da Pierluigi Bersani, dunque, ma nessuno lo chiama. Dovrà essere lui a telefonare a due esponenti cruciali per la definizione della corsa al Quirinale: “Telefona a Massimo D’Alema, che è sincero e gli dice: «La situazione, dopo l’esito del voto su Marini, è molto confusa e tesa». Prodi annota mentalmente: D’Alema non mi farà votare dai suoi. Poi chiama il suo vecchio amico Mario Monti, che gli rinnova tutta la sua amicizia ma gli dice: “Romano la tua candidatura è divisiva…”. Né i dalemiani, né l’area centrista, dunque, sosterranno il Professore al Colle; Stefano Rodotà, ancora in campo per il Movimento Cinque Stelle, fa sapere che davanti al nome di Prodi non intende ritirarsi dalla corsa: l’ex garante della Privacy “fa capire che a chiamarlo deve essere Bersani e comunque l’essenza del passaggio è chiara: davanti ad una soluzione «alta» come quella di Prodi, Rodotà non si ritira”. Pochi minuti dopo Prodi confida alla moglie: “Non passerò”. E la frittata è ormai fatta.