lunedì 29 aprile 2013

Jane Austen, Emma (1815), incipit



Emma Woodhouse, handsome, clever, and rich, with a comfortable home and happy disposition, seemed to unite some of the best blessings of existence; and had lived nearly twenty-one years in the world with very little to distress or vex her.

Traduzione di Pietro Meneghelli, Newton&Compton 2010
Emma Woodhouse, bella, intelligente e ricca, con una casa confortevole e un carattere allegro, sembrava riunire in sé il meglio che la vita può offrire, e aveva quasi raggiunto i ventun anni senza subire alcun dolore o grave dispiacere.

Traduzione di Giuseppe Ierolli*, http://www.jausten.it/jarce01.html
Emma Woodhouse, bella, intelligente e ricca, con una casa confortevole e un buon carattere, sembrava riunire in sé alcune delle migliori benedizioni dell'esistenza, ed era al mondo da quasi ventun anni con pochissimo ad affliggerla o contrariarla. 

Traduzione di Bruno Maffi**, BUR 1954
Bella, intelligente, ricca, con una casa fatta per viverci bene e un'indole felice, Emma Woodhouse sembrava riunire alcuni dei beni più preziosi della vita; e, in realtà era vissuta quasi ventun anni nel mondo  al riparo da grosse noie e fastidi.

Traduzione di Mario Praz, Garzanti 1965
Emma Woodhouse, avvenente, intelligente e ricca, con una casa provvista di ogni agio e un'indole felice, pareva riunire in s alcuni dei migliori vantaggi dell'esistenza; ed era vissuta circa ventun'anni nel mondo senza quasi conoscere dispiaceri o contrarietà.

Traduzione di Fruttero e Lucentini, 1993
Emma Woodhouse era bella, intelligente, ricca. Aveva una casa particolarmente confortevole e un temperamento felice. Pareva che le fossero toccate tutte le fortune, insomma.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel capitolo dedicato a Jane Austen della sua Letteratura inglese (in: Opere, Mondadori, Milano, 1995, pag. 982), scrive: "La Austen è uno di quegli scrittori che richiedono di esser letti lentamente: un attimo di distrazione può far trascurare una frase che ha un'importanza primaria: arte di sfumature, arte ambigua sotto l'apparente semplicità."

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 * http://www.unteconjaneausten.com/2011/09/leggere-jane-austen-in-italiano-quale.html

** http://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Maffi
Emma come romanzo giallo ante litteram: http://fr.wikipedia.org/wiki/Emma_%28roman%29


domenica 28 aprile 2013

L'omaggio di Nenni a Croce

Scambio epistolare tra Pietro Nenni e Benedetto Croce alla vigilia dell'elezione del primo presidente della Repubblica

Roma, 22 giugno 1946
Illustre amico,
i miei compagni della direzione del partito desiderano sapere, se Ella lascerà porre la Sua candidatura alla presidenza della Repubblica.
Noi saremmo lieti di dare a Lei i nostri voti nella convinzione, attinta alla coscienza che abbiamo dei più alti interessi del Paese, che nessuno meglio di Lei può oggi, di fronte al mondo, rappresentare l'Italia e garantire con sicura lealtà la vita della Repubblica Italiana.
Cordiali saluti
Suo
Pietro Nenni
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Napoli, 25 giugno 1946
Preg.mo amico,
La fiducia che la direzione del Partito socialista italiano ha voluto attestare alla mia persona, mi ha indotto a rinnovare un esame di coscienza che più volte, in casi simili, avevo fatto e che aveva avuto costantemente una stessa conclusione.
Io, com'Ella sa, ho speso la vita negli studi; e sebbene da tre anni in qua, per dovere di cittadino, abbia prestato opera nella politica, ho sempre badato a tenerla nei confini di quel che so e posso onestamente fare in relazione alla mia capacità e alle mie forze. Ma l'ufficio al quale mi si vorrebbe ora chiamare esce troppo da questi limiti e mi fa gravemente sentire l'inadeguatezza ad esercitarlo.
Perciò non mi è consentito di lasciare porre la mia candidatura a Presidente della Repubblica Italiana e debbo pregare Lei di presentare le mie scuse e i miei vivi ringraziamenti ai suoi colleghi della direzione del Partito, che hanno voluto darmi una prova di benevolenza della quale serberò sempre memoria.
Mi abbia con molti saluti
Suo
Benedetto Croce

"Dall'«Italia tagliata in due» all'assemblea costituente. Documenti e testimonianze dai carteggi di Benedetto Croce", a cura di M. Griffo, Bologna, Il mulino, 1998, pp. 265-266

mercoledì 24 aprile 2013

I numeri del dottor Gribbels

editoriale del Foglio quotidiano, oggi

Dopo giorni di “non so” e “alla gente non interessa”, finalmente ieri Beppe Grillo ha reso noti i voti delle Quirinarie che hanno portato Stefano Rodotà a essere il candidato per il Colle votato dal M5s. Il leader è nudo. I numeri dei risultati sono impietosi e imbarazzanti: 28.518 votanti su 48.292 aventi diritto, Rodotà scelto da 4.677 persone, meno del tetto massimo di amici che si possono avere su Facebook, Gabanelli prima classificata con 5.796 preferenze. I numeri svelano però anche la bravura di Grillo e dei suoi nel promuovere il grande equivoco di questi giorni, quel se-lo-chiede-la-rete-è-il-popolo-che-lo-vuole che ha mandato nel panico i politici piddini. [...]
La democrazia non è un "mi piace" sul Web. E anche se lo fosse, non con questi numeri.
...

martedì 23 aprile 2013

Barca, Grillo, Renzi, Vendola

Un feroce gioco delle parti

Chissà cosa gli passava per la mente, al Presidente Napolitano, mentre sferzava i partiti che l'hanno costretto, per la loro ignavia, a ritornare al Quirinale a trasloco ormai concluso. Non è difficile immaginarlo riguardando la scena ed ascoltando le parole, ferisce di più se a dirle quelle parole è un uomo anziano, un politico che avrebbe dovuto essere rottamato, per età e per gli anni di presenza politica prima di ogni altro, sempre se volessimo assecondare la logica con cui Matteo Renzi ha ritenuto di condurre la sua campagna per le primarie. Primarie, che tra l’altro hanno comportato l'esclusione di pezzi storici e fondativi del Pd come D'Alema e Veltroni.
La partita alla quale il paese aveva assistito negli ultimi giorni era paradossale nel suo esito ultimo. Tra i vecchi, non era stato rottamato il vecchissimo Presidente della Repubblica ma l’anziano neppure tanto stagionato segretario del Pd poi candidato alla Presidenza del Consiglio. Più che rottamato Pier Luigi Bersani era stato per la verità affondato, come nel gioco di battaglia navale: out, crocettato, eliminato, con l'aiuto di un voto segreto moltiplicato per 101.
E ora? Le cronache riportano la storia di un passo indietro, si ritorna a parlare con D'Alema, si chiede di nuovo ad Amato di scaldare i muscoli, a Chiamparino di tenersi pronto, verrebbe da chiedere a Renzi: e dove sarebbe la rottamazione tanto agognata?
Una domanda la cui risposta potrebbe essere che in fondo il drappello lo guiderebbe lui, si porrebbe lui alla testa di questo magma di grandi notabili della politica, maturi e esperti di politica con trentennale se non quarantennale provata esperienza, che accettano di farsi guidare da un attempato giovanotto ex democristiano ma capace di presentarsi come l’alfiere di un rinnovamento radicale e intransigente (il Rottamatore). Miracoli della politica verrebbe da dire, splendida capriola del machiavellismo applicato in uno Stato di emergenza,o non invece ennesimo pateracchio nello stile dei vecchi governi balneari al tempo della Prima Repubblica? Sembrerebbe che un simile ragionamento possa essere condiviso se presentato come inevitabile per la ragion di Stato, a fronte del quale anche il giovane Letta e il suo meno giovane zio sarebbero pronti a tenere a battesimo il nuovo o ciò che nuovo vorrà apparire. La rottamazione, parrebbe di capire, si è fermata solo sugli scranni parlamentari ma non è destinata a investire la formazione di un prossimo Governo.
Presumibilmente il compromesso quirinalizio sarà respinto da Sel, il cui leader Vendola sembra tentato da un’alleanza con Grillo e Barca. In poche ore tutta la geografia della sinistra si è messa in movimento, travolgendo steccati di recente formazione. I titoli parlano di Barca e Vendola, uniti a Landini della Fiom, con Grillo come riferimento ulteriore o concorrente, questo non è chiaro. Il ministro per la coesione territoriale e il governatore della Puglia inseguono un elettorato, che potrebbe aver votato Grillo per reazione. E’ da vedere se la sinistra delusa si accontenterà della stanca imitazione tardiva, avendo ormai potuto sperimentare la potenza dell’originale pentastellato. Come non è evidente che Grillo e Casaleggio sentano il bisogno di una stampella partitica.

lunedì 22 aprile 2013

Il discorso di Napolitano

Signora Presidente, onorevoli deputati, onorevoli senatori, signori delegati delle Regioni, lasciatemi innanzitutto esprimere – insieme con un omaggio che in me viene da molto lontano alle istituzioni che voi rappresentate – la gratitudine che vi debbo per avermi con così largo suffragio eletto Presidente della Repubblica. È un segno di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso, anche se sottopone a seria prova le mie forze : e apprezzo in modo particolare che mi sia venuto da tante e tanti nuovi eletti in Parlamento, che appartengono a una generazione così distante, e non solo anagraficamente, dalla mia.
So che in tutto ciò si è riflesso qualcosa che mi tocca ancora più profondamente : e cioè la fiducia e l’affetto che ho visto in questi anni crescere verso di me e verso l’istituzione che rappresentavo tra grandi masse di cittadini, di italiani – uomini e donne di ogni età e di ogni regione – a cominciare da quanti ho incontrato nelle strade, nelle piazze, nei più diversi ambiti sociali e culturali, per rivivere insieme il farsi della nostra unità nazionale.
Come voi tutti sapete, non prevedevo di tornare in quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da Presidente della Repubblica.
Avevo già nello scorso dicembre pubblicamente dichiarato di condividere l’autorevole convinzione che la non rielezione, al termine del settennato, è “l’alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica”. Avevo egualmente messo l’accento sull’esigenza di dare un segno di normalità e continuità istituzionale con una naturale successione nell’incarico di Capo dello Stato.
A queste ragioni e a quelle più strettamente personali, legate all’ovvio dato dell’età, se ne sono infine sovrapposte altre, rappresentatemi – dopo l’esito nullo di cinque votazioni in quest’aula di Montecitorio, in un clima sempre più teso – dagli esponenti di un ampio arco di forze parlamentari e dalla quasi totalità dei Presidenti delle Regioni. Ed è vero che questi mi sono apparsi particolarmente sensibili alle incognite che possono percepirsi al livello delle istituzioni locali, maggiormente vicine ai cittadini, benché ora alle prese con pesanti ombre di corruzione e di lassismo. Istituzioni che ascolto e rispetto, Signori delegati delle Regioni, in quanto portatrici di una visione non accentratrice dello Stato, già presente nel Risorgimento e da perseguire finalmente con serietà e coerenza.
È emerso da tali incontri, nella mattinata di sabato, un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento in seduta comune nell’inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell’elezione del Capo dello Stato. Di qui l’appello che ho ritenuto di non poter declinare – per quanto potesse costarmi l’accoglierlo – mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del paese.
La rielezione, per un secondo mandato, del Presidente uscente, non si era mai verificata nella storia della Repubblica, pur non essendo esclusa dal dettato costituzionale, che in questo senso aveva lasciato – come si è significativamente notato – “schiusa una finestra per tempi eccezionali”. Ci siamo dunque ritrovati insieme in una scelta pienamente legittima, ma eccezionale. Perché senza precedenti è apparso il rischio che ho appena richiamato : senza precedenti e tanto più grave nella condizione di acuta difficoltà e perfino di emergenza che l’Italia sta vivendo in un contesto europeo e internazionale assai critico e per noi sempre più stringente.
Bisognava dunque offrire, al paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai nostri problemi : passando di qui una ritrovata fiducia in noi stessi e una rinnovata apertura di fiducia internazionale verso l’Italia.
È a questa prova che non mi sono sottratto. Ma sapendo che quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità. Ne propongo una rapida sintesi, una sommaria rassegna. Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti – che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale – non si sono date soluzioni soddisfacenti : hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento.
Quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica è stato dunque facilmente ignorato o svalutato : e l’insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti, il Parlamento, sono state con facilità (ma anche con molta leggerezza) alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono. Attenzione : quest’ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza, non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme.
Imperdonabile resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005. Ancora pochi giorni fa, il Presidente Gallo ha dovuto ricordare come sia rimasta ignorata la raccomandazione della Corte Costituzionale a rivedere in particolare la norma relativa all’attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi.
La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo imprevedibile, che quella legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità, e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non aver potuto scegliere gli eletti.
Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario. Molto si potrebbe aggiungere, ma mi fermo qui, perché su quei temi specifici ho speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale. Ma ho il dovere di essere franco : se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese.
Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana.
Parlando a Rimini a una grande assemblea di giovani nell’agosto 2011, volli rendere esplicito il filo ispiratore delle celebrazioni del 150° della nascita del nostro Stato unitario : l’impegno a trasmettere piena coscienza di “quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato”, e delle “grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo”. E aggiunsi di aver voluto così suscitare orgoglio e fiducia “perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto. Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo bagaglio di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile.”
Ecco, posso ripetere quelle parole di un anno e mezzo fa, sia per sollecitare tutti a parlare il linguaggio della verità – fuori di ogni banale distinzione e disputa tra pessimisti e ottimisti – sia per introdurre il discorso su un insieme di obbiettivi in materia di riforme istituzionali e di proposte per l’avvio di un nuovo sviluppo economico, più equo e sostenibile.
È un discorso che – anche per ovvie ragioni di misura di questo mio messaggio – posso solo rinviare ai documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo scorso. Documenti di cui non si può negare – se non per gusto di polemica intellettuale – la serietà e concretezza. Anche perché essi hanno alle spalle elaborazioni sistematiche non solo delle istituzioni in cui operano i componenti dei due gruppi, ma anche di altre istituzioni e associazioni qualificate. Se poi si ritiene che molte delle indicazioni contenute in quei testi fossero già acquisite, vuol dire che è tempo di passare, in sede politica, ai fatti; se si nota che, specie in materia istituzionale, sono state lasciate aperte diverse opzioni su varii temi, vuol dire che è tempo di fare delle scelte conclusive. E si può, naturalmente, andare anche oltre, se si vuole, con il contributo di tutti.
Vorrei solo formulare, a commento, due osservazioni. La prima riguarda la necessità che al perseguimento di obbiettivi essenziali di riforma dei canali di partecipazione democratica e dei partiti politici, e di riforma delle istituzioni rappresentative, dei rapporti tra Parlamento e governo, tra Stato e Regioni, si associ una forte attenzione per il rafforzamento e rinnovamento degli organi e dei poteri dello Stato. A questi sono stato molto vicino negli ultimi sette anni, e non occorre perciò che rinnovi oggi un formale omaggio, si tratti di forze armate o di forze dell’ordine, della magistratura o di quella Corte che è suprema garanzia di costituzionalità delle leggi. Occorre grande attenzione di fronte a esigenze di tutela della libertà e della sicurezza da nuove articolazioni criminali e da nuove pulsioni eversive, e anche di fronte a fenomeni di tensione e disordine nei rapporti tra diversi poteri dello Stato e diverse istituzioni costituzionalmente rilevanti.
Né si trascuri di reagire a disinformazioni e polemiche che colpiscono lo strumento militare, giustamente avviato a una seria riforma, ma sempre posto, nello spirito della Costituzione, a presidio della partecipazione italiana – anche col generoso sacrificio di non pochi nostri ragazzi – alle missioni di stabilizzazione e di pace della comunità internazionale.
La seconda osservazione riguarda il valore delle proposte ampiamente sviluppate nel documento da me già citato, per “affrontare la recessione e cogliere le opportunità” che ci si presentano, per “influire sulle prossime opzioni dell’Unione Europea”, “per creare e sostenere il lavoro”, “per potenziare l’istruzione e il capitale umano, per favorire la ricerca, l’innovazione e la crescita delle imprese”.
Nel sottolineare questi ultimi punti, osservo che su di essi mi sono fortemente impegnato in ogni sede istituzionale e occasione di confronto, e continuerò a farlo. Essi sono nodi essenziali al fine di qualificare il nostro rinnovato e irrinunciabile impegno a far progredire l’Europa unita, contribuendo a definirne e rispettarne i vincoli di sostenibilità finanziaria e stabilità monetaria, e insieme a rilanciarne il dinamismo e lo spirito di solidarietà, a coglierne al meglio gli insostituibili stimoli e benefici.
E sono anche i nodi – innanzitutto, di fronte a un angoscioso crescere della disoccupazione, quelli della creazione di lavoro e della qualità delle occasioni di lavoro – attorno a cui ruota la grande questione sociale che ormai si impone all’ordine del giorno in Italia e in Europa.
È la questione della prospettiva di futuro per un’intera generazione, è la questione di un’effettiva e piena valorizzazione delle risorse e delle energie femminili. Non possiamo restare indifferenti dinanzi a costruttori di impresa e lavoratori che giungono a gesti disperati, a giovani che si perdono, a donne che vivono come inaccettabile la loro emarginazione o subalternità.
Volere il cambiamento, ciascuno interpretando a suo modo i consensi espressi dagli elettori, dice poco e non porta lontano se non ci si misura su problemi come quelli che ho citato e che sono stati di recente puntualizzati in modo obbiettivo, in modo non partigiano. Misurarsi su quei problemi perché diventino programma di azione del governo che deve nascere e oggetti di deliberazione del Parlamento che sta avviando la sua attività. E perché diventino fulcro di nuovi comportamenti collettivi, da parte di forze – in primo luogo nel mondo del lavoro e dell’impresa – che “appaiono bloccate, impaurite, arroccate in difesa e a disagio di fronte all’innovazione che è invece il motore dello sviluppo”. Occorre un’apertura nuova, un nuovo slancio nella società ; occorre un colpo di reni, nel Mezzogiorno stesso, per sollevare il Mezzogiorno da una spirale di arretramento e impoverimento.
Il Parlamento ha di recente deliberato addirittura all’unanimità il suo contributo su provvedimenti urgenti che al governo Monti ancora in carica toccava adottare, e che esso ha adottato, nel solco di uno sforzo di politica economico- finanziaria ed europea che meriterà certamente un giudizio più equanime, quanto più si allontanerà il clima dello scontro elettorale e si trarrà il bilancio del ruolo acquisito nel corso del 2012 in seno all’Unione europea.
Apprezzo l’impegno con cui il movimento largamente premiato dal corpo elettorale come nuovo attore politico-parlamentare ha mostrato di volersi impegnare alla Camera e al Senato, guadagnandovi il peso e l’influenza che gli spetta : quella è la strada di una feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento. Non può, d’altronde, reggere e dare frutti neppure una contrapposizione tra Rete e forme di organizzazione politica quali storicamente sono da ben più di un secolo e ovunque i partiti.
La Rete fornisce accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento politico e anche stimoli all’aggregazione e manifestazione di consensi e di dissensi. Ma non c’è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed efficace alla formazione delle decisioni pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da vincolare all’imperativo costituzionale del “metodo democratico”.
Le forze rappresentate in Parlamento, senza alcuna eccezione, debbono comunque dare ora – nella fase cruciale che l’Italia e l’Europa attraversano – il loro apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento del paese. Senza temere di convergere su delle soluzioni, dal momento che di recente nelle due Camere non si è temuto di votare all’unanimità. Sentendo voi tutti – onorevoli deputati e senatori – di far parte dell’istituzione parlamentare non come esponenti di una fazione ma come depositari della volontà popolare. C’è da lavorare concretamente, con pazienza e spirito costruttivo, spendendo e acquisendo competenze, innanzitutto nelle Commissioni di Camera e Senato. Permettete che ve lo dica uno che entrò qui da deputato all’età di 28 anni e portò giorno per giorno la sua pietra allo sviluppo della vita politica democratica.
Lavorare in Parlamento sui problemi scottanti del paese non è possibile se non nel confronto con un governo come interlocutore essenziale sia della maggioranza sia dell’opposizione. A 56 giorni dalle elezioni del 24-25 febbraio – dopo che ci si è dovuti dedicare all’elezione del Capo dello Stato – si deve senza indugio procedere alla formazione dell’Esecutivo. Non corriamo dietro alle formule o alle definizioni di cui si chiacchiera. Al Presidente non tocca dare mandati, per la formazione del governo, che siano vincolati a qualsiasi prescrizione se non quella voluta dall’art. 94 della Costituzione : un governo che abbia la fiducia delle due
Camere. Ad esso spetta darsi un programma, secondo le priorità e la prospettiva temporale che riterrà opportune.
E la condizione è dunque una sola : fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto, sapendo quali prove aspettino il governo e quali siano le esigenze e l’interesse generale del paese. Sulla base dei risultati elettorali – di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no – non c’è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sole sue forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto – se si preferisce questa espressione – si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale.
D’altronde, non c’è oggi in Europa nessun paese di consolidata tradizione democratica governato da un solo partito – nemmeno più il Regno Unito – operando dovunque governi formati o almeno sostenuti da più partiti, tra loro affini o abitualmente distanti e perfino aspramente concorrenti. Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti.
Lo dicevo già sette anni fa in quest’aula, nella medesima occasione di oggi, auspicando che fosse finalmente vicino “il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza” : che significa anche il tempo della maturità per la ricerca di soluzioni di governo condivise quando se ne imponga la necessità. Altrimenti, si dovrebbe prendere atto dell’ingovernabilità, almeno nella legislatura appena iniziata.
Ma non è per prendere atto di questo che ho accolto l’invito a prestare di nuovo giuramento come Presidente della Repubblica. L’ho accolto anche perché l’Italia si desse nei prossimi giorni il governo di cui ha bisogno. E farò a tal fine ciò che mi compete : non andando oltre i limiti del mio ruolo costituzionale, fungendo tutt’al più, per usare un’espressione di scuola, “da fattore di coagulazione”. Ma tutte le forze politiche si prendano con realismo le loro responsabilità : era questa la posta implicita dell’appello rivoltomi due giorni or sono.
Mi accingo al mio secondo mandato, senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione “salvifica” delle mie funzioni ; eserciterò piuttosto con accresciuto senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, quelle che la Costituzione mi attribuisce. E lo farò fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno. Inizia oggi per me questo non previsto ulteriore impegno pubblico in una fase di vita già molto avanzata ; inizia per voi un lungo cammino da percorrere, con passione, con rigore, con umiltà. Non vi mancherà il mio incitamento e il mio augurio.
Viva il Parlamento! Viva la Repubblica! Viva l’Italia!

L'omaggio del quotidiano belga Le Soir a Giorgio Napolitano
Béatrice Delvaux

E' bene guardare quest'uomo, un po' incurvato, elegantissimo nella sua camicia bianca con gemelli, il viso consumato, con quattro fogli di carta nelle mani che tremano leggermente. Ispira il rispetto, suscita l'ammirazione. Dà una lezione agli uomini politici in preda all'irragionevolezza. Offre soprattutto alla storia un'incarnazione del senso dello Stato. A quelli che chiederanno ciò che è “un uomo di Stato„, si potrà mostrare l'immagine di questo vecchio uomo di 87 anni, di fronte al Parlamento italiano, applaudito da quelli che inchioda alla gogna. Non c'è un momento più forte in questa giornata particolare, né un momento più vergognoso per coloro ai quali si rivolge, se non quando Giorgio Napolitano, nuovo presidente italiano, commosso dall'affezione crescente di cui si sente l'oggetto, colpisce: “Ho ritenuto di non poter declinare. Ma ci sono stati troppi errori, sciocchezze e irresponsabilità delle forze politiche. I vostri applausi non devono indurre alcuna autoindulgenza. Calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi vi hanno portato alla sterilità ed al blocco del Parlamento.„ Ricordate questo momento: ha appena reso il suo onore all'Italia. Con la grazia di un vecchio uomo spinto dalla follia che si è impadronita della classe politica del suo paese, a riprendere servizio “fino a che le sue forze glielo permetteranno„. Al sacrificio della sua vita dunque, mentre tanto altri in questo Parlamento non sono pronti a nulla sacrificare. La rabbia fredda di Giorgio Napolitano non è senza ricordare la congestione di Albert II, quando il presidente italiano richiama questo ABC della politica: “Un governo è più importante del rifiuto di un'alleanza.„ Ci sono stati tempi di caos fa in cui l'uomo “provvidenziale„ portava un'uniforme militare e puniva la democrazia schiacciandola. E' invece doveroso rendere omaggio a quei tempi in cui individui armati del solo amore del loro paese, del senso dello Stato e della democrazia salvano il loro paese. Perché è di questo che si tratta.
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Il faut regarder cet homme, un peu voûté, élégantissime dans sa chemise blanche avec boutons de manchette, le visage usé, avec, dans ses mains légèrement tremblantes, quelques feuilles de papier. Il inspire le respect, il suscite l’admiration. Il donne une leçon aux hommes politiques pris de déraison. Il offre surtout à l’Histoire une incarnation du sens de l’État. A ceux qui demanderont ce qu’est un « Homme d’État », on pourra montrer l’image de ce vieil homme de 87 ans, face au Parlement italien, acclamé par ceux qu’il cloue au pilori. Il n’y a pas de moment plus fort dans cette journée particulière, et pas de moment plus honteux pour ceux auxquels il s’adresse, que lorsque Giorgio Napolitano, nouveau président italien, ému par l’affection croissante dont il se sent l’objet, assène : « Je ne pouvais décliner. Mais il y a eu trop d’erreurs, de bêtises et d’irresponsabilités des forces politiques. Vos applaudissements ne doivent induire aucune auto-indulgence. La tactique, le cynisme et l’instrumentalisation vous ont portés à la stérilité et au blocage du Parlement. »
Rappelez-vous ce moment : il vient de rendre son honneur à l’Italie. Par la grâce d’un vieil homme poussé, par la folie qui s’est emparée de la classe politique de son pays, à reprendre du service « jusqu’à ce que ses forces le lui permettront ». Au sacrifice de sa vie donc, alors que tant d’autres dans ce Parlement-là ne sont prêts à rien sacrifier.
La colère froide de Giorgio Napolitano n’est pas sans rappeler le coup de sang d’Albert II, lorsque le président italien en appelle à ce b.a.-ba politique : «Un gouvernement est plus important que le refus d’une alliance.»
Il y eut des temps de chaos où l’homme « providentiel » portait un costume militaire et punissait la démocratie en l’écrasant. On se doit donc de saluer ceux où des individus armés du seul amour de leur pays, du sens de l’Etat et de la démocratie sauvent leur pays. Car c’est de cela qu’il s‘agit.


mercoledì 10 aprile 2013

La felicità è un affetto ribelle


Maurizio Ferraris, la Repubblica, 1 luglio 2012


...Suggerirei conclusivamente tre elementi di buon senso.

Primo, la felicità richiede un oggetto. Nelle istruzioni degli psicofarmaci si legge talora, tra gli effetti collaterali, che potrebbero provocare “euforia”, e suonerebbe davvero strano che uno psicofarmaco potesse provocare, sia pure a livello di effetto collaterale, della felicità. Perché? Secondo me la differenza tra euforia e felicità sta nel fatto che la felicità dipende dall’esistenza di qualcosa nel mondo (e questo mondo può essere anche la nostra psiche) che ci rende felici: una persona, una cosa, una speranza, anche una idea. Non una reazione enzimatica senza oggetto, che creerebbe per l’appunto una semplice euforia.

Secondo, non può essere un fatto puramente individuale. Freud diceva che non si ride e non si piange mai da soli, e credo che avesse ragione. L’uomo è un animale politico, vale a dire un animale che sta in società. Tanto è vero che il solo fatto di stare da soli può essere una causa di infelicità. E d’altra parte non c’è felicità, per immensa che possa essere, che non risulti un po’ diminuita dal fatto di non poterla dire ad altri, così come ci sono felicità che per essenza non ci sarebbero se non ci fossero degli altri. Immaginiamo qualcuno che riceva una medaglia, ma in segreto, e con l’ordine di non dirlo a nessuno e di nascondere la medaglia. Sarebbe felice? C’è da dubitarne. Un corollario di questo punto è che risulta piuttosto difficile essere felici se si causa l’infelicità degli altri, e questo purtroppo è un problema che si dà spesso. [...]

Infine, e soprattutto, non si deve dimenticare che la ricerca ossessiva della felicità è da annoverarsi tra le cause maggiori di infelicità. Kierkegaard ha osservato che gli uomini inseguono così ostinatamente la felicità che a volte la sopravanzano. Credo che sia verissimo, ed è per questo che le Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick (1983, tradotto in italiano da Feltrinelli) è un libretto da cui si può imparare molto. Così come da La felicità di Paolo Legrenzi (il Mulino, 1998), la cui tesi fondamentale è che non ha senso misurare la felicità, ma che si possono invece riconoscere con precisione gli ostacoli che si frappongono tra noi e lei. Senza dimenticare che la felicità è uno stato: si è felici non quando si cerca la felicità, ma quando, cercando qualcos’altro o non cercando affatto, ci accorgiamo di essere felici, e questa consapevolezza spesso coincide con la fine della felicità perché, come ha scritto Adorno “Per vedere la felicità, se ne dovrebbe uscire. L’unico rapporto fra coscienza e felicità è la gratitudine”.
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Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama. 
Eugenio Montale

lunedì 8 aprile 2013

Disagio carcerario, vergogna civile


Scriveva Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri… Perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”.
Se questa celebre frase del filosofo francese dovesse essere utilizzata come metro di giudizio della realtà carceraria italiana, se ne dovrebbe inevitabilmente trarre la desolante conclusione che il livello di civiltà del nostro paese è estremamente basso.
Le fredda logica dei numeri è in proposito assai eloquente: le carceri italiane custodiscono attualmente oltre 66.000 persone, di cui il 40% in attesa di giudizio definitivo, a fronte di una capienza massima teorica di 44.000, condizione di sovraffollamento, come si può facilmente intuire, a dir poco drammatica, tale da rendere molti istituti di pena del tutto invivibili. Non è certo un caso se il numero dei suicidi di detenuti sia cresciuto in maniera impressionante negli ultimi anni (759 dal 2000 ad oggi), fenomeno che ha riguardato in misura minore anche il personale carcerario.
Tale disastrosa situazione è in larga parte il frutto velenoso di politiche della giustizia a dir poco discutibili, che hanno portato all’adozione di leggi che non è eccessivo definire criminogene (dalla Bossi-Fini sull’immigrazione, alla quale si deve tra l’altro l’istituzione dei famigerati Centri di identificazione ed espulsione, alla Fini-Giovanardi sulle droghe, alla cosiddetta ex Cirielli, che ha inasprito le pene per i recidivi), che hanno affollato le prigioni italiane di soggetti perlopiù socialmente disagiati (stranieri, tossicodipendenti, autori di reati di microcriminalità), trasformandole in vere e proprie discariche sociali.
Tutto ciò mentre, per converso, i reati dei “colletti bianchi” sono stati o depenalizzati o hanno potuto godere di un accorciamento dei tempi della prescrizione, fenomeno quest’ultimo sempre più diffuso, che ha assunto ormai le dimensioni di una vera e propria amnistia strisciante dai forti contenuti di classe.
Una giustizia quindi forte con i deboli e debole con i forti, con buona pace del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Se è vero che le leggi citate poc’anzi sono state tutte approvate dai governi di destra, è altrettanto vero che i partiti della sinistra, quando sono stati chiamati in anni recenti alla guida del paese, non hanno certo mostrato una spiccata volontà di affrontare e di risolvere queste problematiche, mostrando una persistente idiosincrasia, risalente fin dai tempi del vecchio Pci, per le questioni relative ai diritti civili, a lungo considerate “sovrastrutturali” e pertanto non meritevoli di particolare attenzione.
Una felice eccezione in tal senso è stata a lungo rappresentata, per quanto riguarda i comunisti, da Umberto Terracini, un uomo che la durezza della vita carceraria l’ha conosciuta bene e che si è sempre battuto per la difesa dei diritti dei detenuti, sia come politico, sia come avvocato. Nell’ultima fase della sua esperienza politica le sue posizioni hanno molto spesso coinciso con quelle del Partito radicale, che della questione carceraria ha sempre fatto, e continua ancora a fare, il proprio cavallo di battaglia.
Ed è proprio con una sua citazione, tratta da un discorso in Senato del novembre del 1962, nel quale critica il governo per non aver affrontato un tema a lui particolarmente caro, quello dell’abolizione dell’ergastolo, che mi piace concludere questo articolo:
Forse non tutti hanno coscienza di ciò che significhi per un essere vivente la perdita della libertà personale, e per questo si è facili ad accettare che questa si prolunghi assai al di là di quanto possa essere umanamente sopportato [...]. È tempo di rinunciare alla credenza che la estrema durezza delle pene rappresenti la migliore difesa della società”.

Per approfondimenti su questi temi vai a Associazione Antigone.

sabato 6 aprile 2013

Piero Sraffa da giovane

l'amico di Gramsci
Federico Fubini

Nel 1921 Sraffa era un ragazzo in visita a Londra, studente Erasmus ante litteram, quando un incontro cambiò la sua vita. Mary Berenson, moglie dello storico d’arte Bernard Berenson che si era rintanato in villa sulle colline di Firenze, lo presenta a John Maynard Keynes. Sraffa aveva 23 anni e veniva da una laurea a Torino con Luigi Einaudi, e prima ancora da un anno passato in divisa nelle retrovie del fronte. Keynes era allora trentottenne, non aveva ancora prodotto nessuna delle teorie che avrebbero cambiato il Novecento, ma il suo pamphlet sulle conseguenze economiche della pace ne aveva già fatto una rockstar intellettuale dell’epoca: un Nouriel Roubini del trattato di Versailles. Keynes soppesa quel ragazzo introverso, percepisce la sua forza mentale nascosta da qualche parte dietro i fitti capelli nerissimi. Per la sua serie Reconstruction in Europe, il dandy inglese decide di commissionare al piccolo venuto da Torino un articolo sui guai ben nascosti delle banche italiane. Apparirà l’anno dopo sull’«Economic Journal», poi ancora in versione semplificata sul «Manchester Guardian» (il «Guardian» di oggi). Alla seconda uscita, quando il ragazzo è ormai rientrato in patria, se ne accorgono i banchieri di Roma e Milano e si lamentano con Mussolini. Il capo del governo proprio allora sta cercando di salvare il Banco di Roma, operazione delicata, e perde le staffe. Detta un rabbioso telegramma non a Sraffa, ma a suo padre, definendo il lavoro del ragazzo «una diffamazione contro l’Italia». Sraffa junior risponde che è tutto basato sui fatti, verificabile, e non ritratta una parola. Aveva rotto la cappa di conformismo e sapeva bene che da quel momento per lui non c’era più nulla da fare. Con il Paese aveva chiuso. Alla fine Keynes lo prenderà sotto la sua ala, inventandogli dei lavoretti a Cambridge pur di tenerlo al riparo. Bibliotecario, poi redattore del giornalino universitario: Sraffa non avrebbe più lasciato il King’s College e nel 1961 avrebbe ricevuto la medaglia dell’Accademia di Svezia, equivalente al Nobel per l’Economia formalmente istituito a partire dal 1969.
Corriere della Sera, la Lettura
13 gennaio 2013

http://lettura.corriere.it/debates/i-giovani-fanno-scena-muta/

Si veda poi di Amartya Sen http://www.inventati.org/sofiaroneyproductions/images/Sraffa_Wittgenstein_e_Gramsci.pdf 

mercoledì 3 aprile 2013

Recalcati, La pastorale americana

 l'aspetto considerato nel romanzo di Philip Roth

...Già, perché negli anni Sessanta, gli anni del Vietnam, un meccanismo virtuoso e in apparenza inossidabile si spezza: il figlio non rappresenta più "l'immagine perfezionata del padre". E si spezza proprio nella casa dello Svedese, dove la figlia Merry decide - alla lettera - di portare la guerra.
Dopo un'adolescenza segnata da una insuperabile balbuzie, Merry ha maturato un odio crescente per il governo e per la propria famiglia, che pure quel governo avversa in modo deciso. Sono però gli anni del fanatismo ideologico, non è tempo per sottili distinguo. Il sistema americano è marcio alle fondamenta e va sovvertito. Sicché la scelta terrorista diventa a un certo punto naturale: la ragazza compie svariati attentati e uccide quattro persone facendo al contempo deflagrare anche l'universo paradisiaco dello Svedese, il suo ideale di vita responsabile, tollerante e armoniosa: lei, "la figlia che lo sbalza dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell'innata rabbia cieca dell'America".

(Franco Marcoaldi, la Repubblica, 3 giugno 2003)

la rilettura

...Anche Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce la sua diversità assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema, fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere.
È il fantasma che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti. Si riguardi la recente consultazione di Bersani con i rappresentanti del M5S. È il dialogo tra un padre in chiara difficoltà e due figli in piena rivendicazione protestataria. Mi è subito venuto alla mente Pastorale americana di Philip Roth dove si racconta la storia tormentata del rapporto tra un padre – il mitico “svedese” – e una figlia ribelle, balbuziente, prima aderente ad una banda di terroristi e poi di una setta religiosa che obbliga a portare una mascherina sul viso per non uccidere i microrganismi che popolano l’aria. Da una parte gli sforzi di conciliazione di un padre che non nasconde la sua insufficienza, dall’altra l’arroganza irresponsabile di chi rivendica il possesso di una ragione assoluta. Il dialogo tra loro è impossibile. Il padre cerca di capire dove ha sbagliato e cosa può fare per cambiare la situazione, la figlia risponde dall’alto della sua innocenza: sei tu che mi hai messa al mondo non io; sei tu che hai creato questa situazione non io; sei tu che devi porvi rimedio non io. Così agisce infatti la critica sterile dell’adolescente rivoltoso nei confronti dei propri genitori. Il mondo degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere cancellato. Ma quale mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica è impotente perché non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata.


(Massimo Recalcati, La pastorale americana, la Repubblica, 3 aprile 2013)
 

lunedì 1 aprile 2013

Michelle Bachelet, una storia

Paolo Manzo
Europa, 29 marzo 2013

La notizia della candidatura alle elezioni del prossimo 17 novembre di Michelle Bachelet non ha sorpreso nessuno, tantomeno i membri della Concertación, la coalizione che riunisce democristiani, socialisti, socialdemocratici radicali e indipendenti. Il prossimo passo perché l’ex presidente possa tornare alla guida del Cile sarà quello di vincere, il 30 giugno, le primarie della Concertación. Una novità, dato che in precedenza l’accordo veniva sempre “concertato” a livello di vertici politici. La “lotta” delle prossime primarie di giugno sarà, dunque, tra la Bachelet, Claudio Orrego Larraín, ex sindaco democristiano di Peñalolén, città di 200mila anime, il socialdemocratico radicale José Antonio Gómez e Andrés Velasco Brañes, ex ministro dell’Economia della Bachelet che si presenta come candidato indipendente.

Già presidente dal 2006 al 2010, quando lasciò la Moneda con un gradimento record dell’84 per cento, la Bachelet ha adesso il compito di riportare di nuovo a sinistra il timone della nave cilena dopo i quattro anni zeppi di conflitti – con studenti e minatori – del destrorso Sebastián Piñera. Un presidente che ha un gradimento di poco più del 20% dei cittadini e che si è interessato più al bene delle sue aziende che a quello del Cile. Per questo la vera sfida della Bachelet sarà soprattutto all’interno della Concertación (per vincere le primarie) e della sinistra (per evitare l’effetto dei comunisti in stile Grillo che fecero vincere Piñera nel 2009) piuttosto che con lo sparuto numero di elettori ancora disposti a votare a destra dopo il “disastro Piñera”.
Dopo tre anni come direttore esecutivo di “UN Women”, organismo dell’Onu creato nel 2010 per tutelare i diritti delle donne, la Bachelet si presenta come la figura che catalizzerà la scena politica cilena dei prossimi mesi. Per capirla meglio, più che alla sua carriera politica, è bene guardare ai suoi “primi 40 anni”. Le sue origini, infatti, marcano bene le differenze con chi, come Piñera ad esempio, ebbe il fratello – Don José – ministro del lavoro prima e delle miniere poi durante il governo del dittatore Augusto Pinochet Ugarte.
Quando il 12 marzo del 1974 moriva in carcere a causa delle atroci torture inferte da suoi due sottoposti, il generale delle Forze aeree cilene Alberto Bachelet Martínez, rimasto fedele a Salvador Allende sino all’ultimo, sua figlia Michelle viveva ancora a Santiago nonostante fossero passati oltre sei mesi dal golpe. Cevallos Jones e Cáceres Jorquera, gli sgherri di Pinochet Ugarte, superarono nell’occasione ogni limite umano con la loro picana elettrica d’ordinanza – il pungolo elettrico usato dai gauchos per controllare le vacche e “rilanciato” dalle varie dittature nell’ambito del Plan Condor per torturare – provocando così l’arresto del miocardio del generale Bachelet.
Michelle seppe quasi subito che il padre era morto. Ciò di cui venne tenuta all’oscuro è che si trattò di omicidio. Dal 2012 per quell’infarto provocato con la tortura i due ex ufficiali torturatori sono finiti sotto processo. Lei, che una trentina d’anni dopo sarebbe diventata nel 2003 la prima ministro della difesa donna e nel 2006, la prima “presidenta” del Cile, scelse coraggiosamente di rimanere a Santiago per continuare gli studi in medicina e appoggiare il Partito socialista che dopo il golpe di Pinochet era stato messo “fuori legge”.
Quando però il suo fidanzato dell’epoca, Jaime López, figlio di un ferroviere e segretario generale del Partito socialista clandestino fece perdere le sue tracce, Michelle Bachelet cominciò a pensare di rifugiarsi all’estero. E ciò che inizialmente fu solo un pensiero fugace presto si trasformò in una necessità.
Catturata dagli sbirri della DINA, i servizi segreti di Pinochet, per tre settimane fu torturata nel lager di Villa Grimaldi. Appena uscita da quell’incubo, Michelle assieme alla madre Ángela Jeria si rifugiò prima in Australia e poi in Germania Est per poi rientrare in Cile dove, nel 1982, si laureava in chirurgia pediatrica con il massimo dei voti. Si occupò di medicina sino a quando Pinochet non venne mandato a casa con il referendum, ed entrò in politica solo negli Novanta. Anche per onorare la memoria di suo padre, il generale che morì per non tradire.

Pangloss e le false ragioni


Voltaire
Candido

"... Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmoscemologia. Dimostrava in modo mirabile che non c’è effetto senza causa, e che, in questo che è il migliore dei mondi possibili, il castello di monsignore era il più bello dei castelli e la signora la migliore delle baronesse possibili. “E’ dimostrato” diceva “che le cose non possono essere in altro modo: perché siccome tutto è creato per un fine, tutto è necessariamente per il migliore dei fini. Notate che i nasi son stati fatti per portar gli occhiali, infatti ci sono gli occhiali. Le gambe sono evidentemente istituite per esser calzate, ed ecco che ci sono i calzoni. Le pietre sono state formate per essere squadrate, e per farne castelli, infatti monsignore ha un bellissimo castello; il massimo barone della provincia dev’essere il meglio alloggiato; e siccome i maiali sono fatti per essere mangiati, mangiamo maiale tutto l’anno; quelli che hanno affermato che tutto va bene hanno quindi affermato una sciocchezza: bisognava dire che tutto va nel migliore dei modi.” Candido ascoltava attentamente e innocentemente credeva; perché trovava bellissima madamigella Cunégonde anche se non si pigliava mai la licenza di dirglielo. Concludeva che dopo la felicità di esser nato barone di Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità era di essere madamigella Cunégonde; il terzo, era di vederla ogni giorno; e il quarto, di ascoltar mastro Pangloss, il massimo filosofo della provincia, quindi della Terra intera. Un giorno Cunégonde, andando a spasso nei pressi del castello nel boschetto che chiamavano parco, vide tra i cespugli il dottor Pangloss che impartiva una lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua mamma, piccola brunetta assai carina e docilissima. Siccome madamigella Cunégonde aveva spiccate disposizioni per le scienze, osservò senza batter ciglio le reiterate esperienze di cui fu testimone; vide chiaramente la ragion sufficiente del dottore, gli effetti e le cause, e tornò tutta sconvolta, tutta pensosa, tutta piena d’una gran voglia d’esser erudita, pensando che lei poteva ben essere la ragion sufficiente del giovane Candide, il quale poteva d’altronde essere la sua. S’imbatté in Candide tornando al castello, e arrossì; anche Candide arrossì, lei gli diede il buongiorno con voce rotta, e Candide le parlò senza sapere cosa dicesse. L’indomani, dopo il pranzo, uscendo di tavola Cunégonde e Candide si trovaron dietro un paravento; Cunégonde lasciò cadere il fazzoletto, Candide glielo raccattò, lei gli prese innocentemente la mano, innocentemente il giovane baciò la mano della giovinetta con una vivacità una sensibilità, una grazia particolarissima; le bocche si incontrarono, gli occhi si accesero, le ginocchia tremarono, le mani si smarrirono. Il signor barone di Thunder- ten-tronckh passò accanto al paravento e, vedendo quella causa e quell’effetto, cacciò Candide dal castello a grandi pedate nel sedere; Cunégonde svenne; appena tornata in sé la signora baronessa la schiaffeggiò; e tutto fu desolazione nel più bello e più piacevole dei castelli possibili... "

Scelta antologica a cura di Francesca Civile

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Pangloss oggi avrebbe a che vedere con la propaganda. O con la pubblicità. O con l'informazione addomesticata e docile. Quindi con una visione alquanto ovvia della realtà, con un aggiustamento verbale intessuto  di ragioni sempre pronte a spiegare le disgrazie e a renderle accettabili. In un certo senso Pangloss, con la sua accettazione del mondo, è il contrario di ciò che Marx suggerisce quando scrive: "I filosofi finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di cambiarlo". Il personaggio è perfino ridicolo nel suo ottimismo. Più che un personaggio, anzi, è una maschera. Quanti Pangloss ci sono tra noi? Meglio ancora: quante volte siamo tentati di fare come Pangloss? Di trovare una ragione a tutto, in modo da poter tutto accettare e stare tranquilli... 
Una vita fatta solo di inquietudini e interrogativi angosciosi è poco attraente. Solo allontanandoci da Pangloss, tuttavia, possiamo accostarci davvero alla realtà. Pensare a cosa abolire, a cosa cambiare, a come cambiare, a come imprimere un senso a ciò che resiste alle nostre domande di senso. A come stare nel mondo, in un mondo tanto più riconoscibile in quanto modificabile.