Paolo Manzo
Europa, 29 marzo 2013
La notizia della candidatura alle elezioni del prossimo 17 novembre
di Michelle Bachelet non ha sorpreso nessuno, tantomeno i membri della
Concertación, la coalizione che riunisce democristiani, socialisti,
socialdemocratici radicali e indipendenti. Il prossimo passo perché l’ex
presidente possa tornare alla guida del Cile sarà quello di vincere, il
30 giugno, le primarie della Concertación. Una novità, dato che in
precedenza l’accordo veniva sempre “concertato” a livello di vertici
politici. La “lotta” delle prossime primarie di giugno sarà, dunque, tra
la Bachelet, Claudio Orrego Larraín, ex sindaco democristiano di
Peñalolén, città di 200mila anime, il socialdemocratico radicale José
Antonio Gómez e Andrés Velasco Brañes, ex ministro dell’Economia della
Bachelet che si presenta come candidato indipendente.
Già presidente dal 2006 al 2010, quando lasciò la Moneda con un
gradimento record dell’84 per cento, la Bachelet ha adesso il compito di
riportare di nuovo a sinistra il timone della nave cilena dopo i
quattro anni zeppi di conflitti – con studenti e minatori – del
destrorso Sebastián Piñera. Un presidente che ha un gradimento di poco
più del 20% dei cittadini e che si è interessato più al bene delle sue
aziende che a quello del Cile. Per questo la vera sfida della Bachelet
sarà soprattutto all’interno della Concertación (per vincere le
primarie) e della sinistra (per evitare l’effetto dei comunisti in stile
Grillo che fecero vincere Piñera nel 2009) piuttosto che con lo sparuto
numero di elettori ancora disposti a votare a destra dopo il “disastro
Piñera”.
Dopo tre anni come direttore esecutivo di “UN Women”, organismo
dell’Onu creato nel 2010 per tutelare i diritti delle donne, la Bachelet
si presenta come la figura che catalizzerà la scena politica cilena dei
prossimi mesi. Per capirla meglio, più che alla sua carriera politica, è
bene guardare ai suoi “primi 40 anni”. Le sue origini, infatti, marcano
bene le differenze con chi, come Piñera ad esempio, ebbe il fratello –
Don José – ministro del lavoro prima e delle miniere poi durante il
governo del dittatore Augusto Pinochet Ugarte.
Quando il 12 marzo del 1974 moriva in carcere a causa delle atroci
torture inferte da suoi due sottoposti, il generale delle Forze aeree
cilene Alberto Bachelet Martínez, rimasto fedele a Salvador Allende sino
all’ultimo, sua figlia Michelle viveva ancora a Santiago nonostante
fossero passati oltre sei mesi dal golpe. Cevallos Jones e Cáceres
Jorquera, gli sgherri di Pinochet Ugarte, superarono nell’occasione ogni
limite umano con la loro picana elettrica d’ordinanza – il pungolo
elettrico usato dai gauchos per controllare le vacche e
“rilanciato” dalle varie dittature nell’ambito del Plan Condor per
torturare – provocando così l’arresto del miocardio del generale
Bachelet.
Michelle seppe quasi subito che il padre era morto. Ciò di cui venne
tenuta all’oscuro è che si trattò di omicidio. Dal 2012 per
quell’infarto provocato con la tortura i due ex ufficiali torturatori
sono finiti sotto processo. Lei, che una trentina d’anni dopo sarebbe
diventata nel 2003 la prima ministro della difesa donna e nel 2006, la
prima “presidenta” del Cile, scelse coraggiosamente di rimanere a
Santiago per continuare gli studi in medicina e appoggiare il Partito
socialista che dopo il golpe di Pinochet era stato messo “fuori legge”.
Quando però il suo fidanzato dell’epoca, Jaime López, figlio di un
ferroviere e segretario generale del Partito socialista clandestino fece
perdere le sue tracce, Michelle Bachelet cominciò a pensare di
rifugiarsi all’estero. E ciò che inizialmente fu solo un pensiero fugace
presto si trasformò in una necessità.
Catturata dagli sbirri della DINA, i servizi segreti di Pinochet, per
tre settimane fu torturata nel lager di Villa Grimaldi. Appena uscita
da quell’incubo, Michelle assieme alla madre Ángela Jeria si rifugiò
prima in Australia e poi in Germania Est per poi rientrare in Cile dove,
nel 1982, si laureava in chirurgia pediatrica con il massimo dei voti.
Si occupò di medicina sino a quando Pinochet non venne mandato a casa
con il referendum, ed entrò in politica solo negli Novanta. Anche per
onorare la memoria di suo padre, il generale che morì per non tradire.
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