Scriveva Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre
carceri… Perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”.
Se questa celebre frase del filosofo francese
dovesse essere utilizzata come metro di giudizio della realtà
carceraria italiana, se ne dovrebbe inevitabilmente trarre la
desolante conclusione che il livello di civiltà del nostro paese è
estremamente basso.
Le fredda logica dei numeri è in proposito assai
eloquente: le carceri italiane custodiscono attualmente oltre 66.000
persone, di cui il 40% in attesa di giudizio definitivo, a fronte di
una capienza massima teorica di 44.000, condizione di
sovraffollamento, come si può facilmente intuire, a dir poco
drammatica, tale da rendere molti istituti di pena del tutto
invivibili. Non è certo un caso se il numero dei suicidi di detenuti
sia cresciuto in maniera impressionante negli ultimi anni (759 dal
2000 ad oggi), fenomeno che ha riguardato in misura minore anche il
personale carcerario.
Tale disastrosa situazione è in larga parte il
frutto velenoso di politiche della giustizia a dir poco discutibili,
che hanno portato all’adozione di leggi che non è eccessivo
definire criminogene (dalla Bossi-Fini sull’immigrazione, alla
quale si deve tra l’altro l’istituzione dei famigerati Centri di
identificazione ed espulsione, alla Fini-Giovanardi sulle droghe,
alla cosiddetta ex Cirielli, che ha inasprito le pene per i
recidivi), che hanno affollato le prigioni italiane di soggetti
perlopiù socialmente disagiati (stranieri, tossicodipendenti, autori
di reati di microcriminalità), trasformandole in vere e proprie
discariche sociali.
Tutto ciò mentre, per converso, i reati dei
“colletti bianchi” sono stati o depenalizzati o hanno potuto
godere di un accorciamento dei tempi della prescrizione, fenomeno
quest’ultimo sempre più diffuso, che ha assunto ormai le
dimensioni di una vera e propria amnistia strisciante dai forti
contenuti di classe.
Una giustizia quindi forte con i deboli e debole
con i forti, con buona pace del principio di uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge.
Se è vero che le leggi
citate poc’anzi sono state tutte approvate dai governi di destra, è
altrettanto vero che i partiti della sinistra, quando sono stati
chiamati in anni recenti alla guida del paese, non hanno certo
mostrato una spiccata volontà di affrontare e di risolvere queste
problematiche, mostrando una persistente idiosincrasia, risalente fin
dai tempi del vecchio Pci, per le questioni relative ai diritti
civili, a lungo considerate “sovrastrutturali” e pertanto non
meritevoli di particolare attenzione.
Una felice eccezione in tal senso è stata a lungo
rappresentata, per quanto riguarda i comunisti, da Umberto Terracini,
un uomo che la durezza della vita carceraria l’ha conosciuta bene e
che si è sempre battuto per la difesa dei diritti dei detenuti, sia
come politico, sia come avvocato. Nell’ultima fase della sua
esperienza politica le sue posizioni hanno molto spesso coinciso con
quelle del Partito radicale, che della questione carceraria ha sempre
fatto, e continua ancora a fare, il proprio cavallo di battaglia.
Ed è proprio con una sua citazione, tratta da un
discorso in Senato del novembre del 1962, nel quale critica il
governo per non aver affrontato un tema a lui particolarmente caro,
quello dell’abolizione dell’ergastolo, che mi piace concludere
questo articolo:
“Forse non tutti hanno coscienza di
ciò che significhi per un essere vivente la perdita della libertà
personale, e per questo si è facili ad accettare che questa si
prolunghi assai al di là di quanto possa essere umanamente
sopportato [...]. È tempo di rinunciare alla credenza che la estrema
durezza delle pene rappresenti la migliore difesa della società”.
Per approfondimenti su questi temi vai a Associazione Antigone.
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