giovedì 31 luglio 2025

La maschera


Fabienne Darge
La maschera della Commedia dell'Arte o il marchio del diavolo
Le Monde, 31 luglio 2025

Perché Arlecchino ha un brufolo sulla fronte? È un po' un diavolo, l'animale. E la sua gobba è il segno lasciato dal corno del Maligno. Sebbene l'Italia del XVI secolo  fosse già in pieno Rinascimento, a differenza della Francia, le rappresentazioni medievali erano ancora presenti. Con la commedia dell'arte, inventata nel padovano intorno al 1545, il teatro occidentale si ricollegò alla maschera, scomparsa dall'antichità greco-romana.

Da dove deriva la ricomparsa di questo manufatto, il cui nome italiano, maschera , designa sia l'oggetto sia il tipo di personaggio che incarna, Arlecchino, Pantalone, Pulcinella o Brighella? La maschera della Commedia è emblematica di ciò che è in gioco in questo momento di cerniera tra Medioevo ed epoca moderna?

Françoise Decroisette, professoressa emerita di studi italiani all'Università di Parigi VIII, vede questa rinascita della maschera principalmente come il risultato di circostanze storiche e politiche. "La commedia dell'arte fu inizialmente caratterizzata dalla volontà degli attori di riunirsi e organizzarsi professionalmente. Queste compagnie volevano differenziarsi dal teatro accademico destinato a un pubblico limitato, per raggiungere un pubblico più ampio. Inventarono quindi un modo di recitare molto più plastico, partendo dai personaggi della commedia classica e plasmandoli in modo che fossero riconoscibili a tutti. Da qui le maschere, che permettono ai personaggi di essere immediatamente identificabili alla vista. Tuttavia, non tutti i ruoli nella commedia sono mascherati: gli amanti e le donne, in particolare, non lo sono."

Funzione caricatura

Nella Repubblica di Venezia del XVI secolo , dove regnava una certa libertà, le maschere  assunsero inizialmente una funzione caricaturale, per i personaggi di anziani o notabili come Pantalon, il cui autoritarismo, pretenziosità, avidità e incompetenza venivano ridicolizzati. "Queste compagnie si prendevano gioco di molte persone nella società: la nobiltà, i potenti, i dotti... E per questo furono rapidamente condannate. Poiché non potevano essere censurate, perché lavoravano senza testi scritti, con tele su cui improvvisavano, furono spesso scomunicate ed espulse ", spiega Françoise Decroisette.
La Chiesa guarda con occhio pessimo alla maschera, a questo oggetto che si permette di cambiare il volto che Dio vi ha donato. In particolare alle maschere dei servi, gli zani, tra cui quella di Arlecchino, che diventa gradualmente il simbolo della commedia dell'arte. Cosa significa questa testa nera, dal naso camuso, forata da piccolissimi fori per gli occhi, con la fronte rugosa che ostenta questa sorta di strana verruca? Da lì a vedere in queste maschere "un travestimento diabolico, una sopravvivenza metonimica dell'Homo salvaticus medievale (metà uomo, metà bestia)" , come scrive il ricercatore italiano Siro Ferrone nella sua opera La Commedia dell'arte. Actresses et acteurs italiens en Europe (XVI -XVIII secolo) (Sorbonne Université Presses, 2024), il passo è stato breve. Su cui le compagnie dell'epoca avrebbero sapientemente giocato, per sedurre e spaventare il pubblico, affascinato dall'incursione nelle profondità dell'inferno rappresentata da questo volto.

Per Françoise Decroisette, la spiegazione, ancora una volta, è forse più semplice e storicamente ancorata. "Arlecchino è prima di tutto un attore, Tristano Martinelli [1557-1630] , che è probabilmente il primo a usare questo nome per il ruolo del secondo zani. Ora, questo nome Arlecchino è indubbiamente legato a Hellequin, un folletto malvagio delle leggende medievali francesi che si ritrova anche con il nome di Alichino nella Divina Commedia di Dante . La sua origine è quindi diabolica, ma allo stesso tempo Arlecchino suscita simpatia, perché all'inizio sembra un po' idiota e alla fine si rivela più intelligente di quanto sembrasse. Per un vasto pubblico, è un'opportunità per identificarsi con un personaggio un po' ingenuo, che ama le donne ed è sempre affamato – la fame è un fattore molto importante a quei tempi."

"Cuoio da suola"

Rispetto alle maschere greche e asiatiche che coprono il volto, la maschera della commedia è una mezza maschera progettata in modo che il volto dell'attore non sia completamente coperto e possa parlare. Il mezzo volto dell'attore completa la maschera, che è quindi un ibrido tra il personaggio diabolico e la figura e la voce umana. Metà uomo, metà demone, e questo in un personaggio comico: sappiamo che la rappresentazione umoristica del diavolo è un espediente popolare adottato fin dai tempi più remoti per neutralizzare le potenze maligne.

La maschera della Commedia si differenzia dai suoi illustri predecessori anche per il materiale di cui è composta, essendo realizzata in cuoio. "Non siamo sicuri che lo fosse fin dall'inizio ", spiega Françoise Decroisette. " Ma a Firenze, città importante nella storia della Commedia dell'arte, esistevano numerose concerie, che senza dubbio hanno favorito l'adozione di questo materiale". Una tradizione che era andata completamente perduta fino a quando il grande mascheraio Amleto Sartori (1915-1962) non si impegnò a fondo per reinventarla, quando il regista italiano Giorgio Strehler volle mettere in scena Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni nel 1947.

"Non ci sono quasi più copie delle maschere originali di Arlecchino ", osserva Erhard Stiefel, l'altro grande mascheraio del periodo contemporaneo, che ha firmato tutte quelle che compaiono negli spettacoli del Théâtre du Soleil negli ultimi cinquant'anni. " Ho rintracciato quelle che esistono ancora, presso la biblioteca-museo dell'Opéra di Parigi, in Italia e a Zurigo [Svizzera] , perché volevo assolutamente capire come venivano realizzate e ricostruirle. Bisogna essere un genio per riprodurle; è una perfezione totale, molto complicata da raggiungere. Il materiale è praticamente cuoio non irrigidito che deve essere lavorato a mano per almeno dieci giorni. Non c'è taglio, il pezzo è in un unico pezzo, che deve poi essere modellato sulla forma di legno che è stata prima scolpita. L'Arlecchino mi affascina perché è emblematico del legame che la maschera crea tra l'umano e l'animale, da un lato, e il divino o il demoniaco, dall'altro.

https://www.lemonde.fr/series-d-ete/article/2025/07/31/le-masque-de-commedia-dell-arte-ou-la-marque-du-diable_6625636_3451060.html

Il futuro di Israele

Kalman Bar, rabbino capo di Israele

Mario Giro 
Il futuro amaro di Israele

Domani, 31 luglio 2025

A Gaza c’è l’attualità dell’orrore che produce – come scrive Giuliano Ferrara - «una maledetta inversione della colpa» su Israele. Ci sono le morti dei bambini e degli innocenti (cinico sostenere che ve ne sono state altre nella storia per giustificarle), c’è l’orrida fame e la denutrizione, si vede a occhio nudo la quasi totale distruzione di case e alloggi (per impedire ai palestinesi di restare), si rilevano bombardamenti continui di ospedali, scuole, moschee e ora anche di chiese e così via.

Questo è l’oggi, ripugnante e disgustoso, che rende plausibile l’accusa al governo israeliano di compiere crimini di guerra. Ma ancora peggio si prepara il domani, infettato da un immane senso di umiliazione che schiaccia un popolo intero, considerato terrorista e punito in maniera collettiva.

Tutto ciò tornerà indietro come un boomerang. Israele non sa quello che fa, perché – accecato com’è da una furia vendicativa - non si rende conto di cosa l’aspetta nel futuro, di quale serpente velenoso (molto peggiore di Hamas) striscerà fuori dalle macerie per avvelenarlo a morte. Questo riguarderà anche chi viene considerato complice con tanta atrocità, come gli Stati Uniti e l’Europa.

Olivier Roy ricorda un fatto politico importante: Hamas non ha mai commesso attentati fuori dalla Palestina. Si rammenti che al contrario l’Olp di Yesser Arafat lo faceva. Tuttavia, dopo innumerevoli e sanguinosi attentati (anche in Italia), quest’ultima alla fine è stata considerata un partner del negoziato e tolta dalla lista nera. Perché con Hamas non è avvenuto?

Per la questione dell’islam estremista, cioè per il pregiudizio anti-islamico occidentale. Certamente c’erano e permangono buoni motivi per dubitare di Hamas, ma in politica e diplomazia occorre saper andare oltre il presente e guardare le cose con profondità storica.

Infatti gli Stati Uniti stanno negoziando direttamente con Hamas: è una forma di riconoscimento. Chi sostituirà Hamas in futuro non è detto che si limiterà a compiere azioni violente solo in Palestina: vi sono tutte le condizioni (a cominciare dal tasso d’odio smisurato cresciuto a Gaza) per formare nuovi terroristi peggiori dei loro predecessori. Avviene sempre così: è una lezione della storia.

Il dramma è che nessuno crede che sia possibile risolvere la questione palestinese con gli strumenti della politica. Questo perché la guerra viene presentata come una lotta esistenziale, ultimativa, un conflitto di civiltà, mentre si tratta – come sempre - di una guerra politica dalle ragioni territoriali: spazio e potere.

Né l’attuale maggioranza di governo in Israele, né Hamas possono accontentarsi di una banalizzazione del conflitto, cioè della sua riduzione alla verità concreta. Di conseguenza ne esaltano il significato con terminologia apocalittica e religiosa in modo da farcelo considerare unico e insolubile.

È il noto concetto di guerra totale in cui si punta all’annientamento dell’avversario. Si tratta di un’impostazione idealista distorta e ultra-romantica, che non ha nulla a che vedere con le cause reali della crisi ma che fa leva sulle emozioni, paure e isterie (sapientemente alimentate) dei due popoli e dei loro rispettivi tifosi.

Così anche la verità dei fatti non ha più senso ed è coperta dalla propaganda volta ad infiammare gli animi del proprio campo. Entrambi i protagonisti utilizzano tali tattiche, anche se per ora Hamas è vincente in termini di comunicazione e quasi più nessuno crede a ciò che dicono i canali ufficiali israeliani (smentiti d’altronde dagli stessi soldati, ufficiali, civili, media e dai parenti degli ostaggi).

Israele sostiene di fare una lotta al posto nostro, contro la barbarie disumana degli islamisti, ma è ciò che dicevano e dicono i peggiori regimi autoritari arabi. Come uscire da tale impasse? Tornando alla realtà concreta: c’è una terra da dividere tra due popoli. Per ora non possono vivere assieme: vanno condotti (e costretti) a separarsi. Per farlo occorre che le tre superpotenze siano d’accordo e premano unite. Difficile, ma possibile: si tratta di politica, non di altro.

Milano in sostanza


Roberto D'Agostino
Milano e le altre, la deriva dell'urbanistica

il manifesto, 31 luglio 2025

Colpisce nella lettura dei tanti articoli sulla questione Milano, così come nell’ascolto dei dibattiti televisivi sul tema, la totale mancanza di comprensione delle motivazioni reali di quanto è accaduto.

Mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione, a tutto vantaggio degli operatori immobiliari e a tutto svantaggio della città e dei suoi cittadini; i conflitti di interesse; la commistione tra tutti i protagonisti, pubblici e privati, mascherata da familiarità; l’interpretazione falsata delle leggi; qualche decina di persone, sempre le stesse, con i mano le sorti di un’intera città: sono il prodotto della distorsione della cultura urbanistica italiana, che è andata di pari passo con l’abdicazione della politica a fare il proprio mestiere e con una vera e propria crisi culturale nella gestione delle città.

A PARTIRE DAGLI ANNI a cavallo del secolo, frange sostanzialmente isolate, rappresentate da alcuni degli urbanisti e degli studiosi di maggiore spessore che avevano contribuito all’elaborazione dei più importanti contributi italiani all’urbanistica europea, come le modalità e le pratiche del recupero dei centri storici, primo fra tutti Leonardo Benevolo, avevano segnalato la deriva dell’urbanistica italiana, che si accompagnava ad una deformazione pubblica del fare architettura.

Da un lato la cancellazione della pratica urbanistica partita, per ironia della sorte, dall’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica, con la prima proposta di riforma delle leggi regionali del ’93 confluite nella nuova legge urbanistica dell’Emilia Romagna del ’95 poi progressivamente estesa a quasi tutte le altre regioni; da un altro lato la trasformazione del fare architettura come ricerca paziente di soluzioni abitative volta al miglioramento della vita degli individui e delle comunità in loghi pubblicitari inventati dalle cosiddette archistar, volti alla promozione delle merci dei committenti.

Le due cose si sono tenute strettamente assieme e sia la politica, sia l’accademia, sia il mondo degli operatori tecnici o economici, chi per incomprensione del fenomeno chi per averlo capito fin troppo bene, si sono ben guardati di parlare. E ora, al di là degli aspetti penali di cui nulla sappiamo e poco ci interessano, la questione di Milano è davanti agli occhi di tutti coloro che vogliono vedere.

Va detto anzi, che oggi ogni città italiana è Milano, indipendentemente dalla correttezza dei singoli e diversi amministratori perché le leggi urbanistiche, che si sono succedute dalla metà degli anni novanta del secolo scorso, hanno distrutto il fare urbanistico e non consentono altri modi di gestione delle città di quelli di cui vediamo oggi le conseguenze.

La cancellazione dei Piani Regolatori delle città e del processo democratico e partecipativo della loro redazione e approvazione, ha spostato tutte le decisioni fondamentali dai luoghi del dibattito democratico e trasparente ai tavoli della contrattazione opaca, una costante strutturale del fare urbanistico attuale. Ma i tavoli della contrattazione non riguardano la maggioranza dei cittadini : sono riservati a coloro che hanno potere, politico o economico, di contrattare.

Per questo è completamente scomparso il dibattito sui destini delle città che animava le comunità urbane nei tempi in cui, come scrive Ida Dominijanni «l’urbanistica era una disciplina progressista, e in versione riformista o rivoluzionaria lavorava a fianco della sinistra, riformista e rivoluzionaria. E la sparizione dell’urbanistica prima, e poi la sua trasformazione in alleata del sistema della rendita immobiliare e finanziaria, è diventato un pezzo non secondario della storia culturale dell’Italia dell’ultimo secolo».

IL CASO DI MILANO poi ci offre un esempio a dir poco grottesco di quanto accade. Chi decide se si fanno torri o altro a Milano e dunque chi bisogna convincere da parte di operatori, tecnici, o politici?: la Commissione per il Paesaggio, un organo consultivo che si esprime, come recita il regolamento «esclusivamente in relazione agli aspetti paesaggistici», formato da soggetti che lavorano a titolo gratuito (perché professionisti qualificati e probabilmente non disoccupati dovrebbero perdere il proprio tempo in quella Commissione?), e che esprimono pareri arbitrari tali da potere essere ribaltati all’occasione.

Il Codice dei Beni Culturali dispone che l’autorizzazione paesaggistica sia responsabilità di uffici con adeguate competenze tecnico-scientifiche e risorse strumentali. La Regione Lombardia, competente ex lege per le autorizzazioni paesaggistiche, ha delegato per esse i Comuni compresa la possibilità di ricorrere ad apposite Commissioni, segnatamente quando trattasi di piccoli comuni che devono unire le loro scarse forze.

DIFFICILE CREDERE che un comune come Milano non abbia al suo interno le risorse e le competenze per gestire come si deve questa funzione: perché mai ha scelto invece di esternalizzarla a una commissione di esperti fatalmente soggetti a non svolgere esattamente con indipendenza la loro funzione? Un “ufficio” esamina e istruisce la pratica, ma non se ne assume la responsabilità essendo essa rimessa a una “commissione esterna” e non intorno a luoghi tecnicamente e giuridicamente abilitati o deputati al confronto politico sulle scelte per la città: la condizione perfetta affinché nessuno sia responsabile!

Che il Pd difenda il proprio sindaco è normale e doveroso, ma che il Pd e le altre forze di sinistra in Consiglio comunale siano da decenni ciechi sul profondo degrado delle modalità di governo delle città dà il segno del livello a cui è giunta la politica in Italia.

* Roberto D'Agostino è stato assessore all’Urbanistica e alla Pianificazione Strategica di Venezia nelle giunte di Masssimo Cacciari e di Paolo Costa

mercoledì 30 luglio 2025

Pavel Florenskij

 


Bianca Gaviglio

I serpentelli di Pavel Florenskij Lindau, 158 pp., 14,50 euro

Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande, di una grandezza che non possiamo valutare per mancanza di capacità equivalenti. E tanto più grande è il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena peggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia. Padre Pavel per me non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte”. Scritte da Sergej Michail Afanas’evic Bulgakov (1891-1940), l’autore de Il maestro e Margherita, ritenuto uno fra i più grandi romanzieri del Novecento, queste parole così elevate riguardano Pavel Aleksandrovic Florenskij, nato in Azerbaigian nel 1882 e fucilato dai comunisti non lontano da Leningrado l’8 dicembre del 1937. Matematico, filosofo, teologo, studioso di estetica, ingegnere elettrotecnico, oltre che sacerdote ortodosso, sposo e padre amorevole di cinque figli, Florenskij viene considerato un genio assoluto, tale che non si è temuto di paragonarlo a uomini del calibro di Leonardo da Vinci e Blaise Pascal. Dopo lunghi anni di oblio, la sua figura e la sua opera sono divenute oggetto di studio e di ammirazione anche in Italia, come testimonia, fra gli altri, questo interessante volumetto, il cui titolo, sicuramente originale, merita di essere spiegato. Stando sulla riva del mare, il piccolo Pavel vede che, muovendosi continuamente, l’acqua forma dei serpentelli verde-dorati. Incuriosito, il fanciullo chiede che cosa siano, ma la risposta che gli danno gli adulti – sono soltanto una parvenza – non lo soddisfa. I grandi non capiscono che gli occhi del bambino stanno scrutando oltre la dimensione fisica della realtà, senza tuttavia rifugiarsi nell’astrazione. Sarà così per tutta la vita: “Il positivismo mi disgustava – annota Florenskij –, ma non meno mi disgustava la metafisica astratta. Io volevo vedere l’anima, ma volevo vederla incarnata”.

Bianca Gaviglio mostra come tutta l’esistenza di padre Pavel fu spesa per trovare questa unione, cosa che gli costò la persecuzione e la condanna a morte da parte di coloro che volevano affermare una filosofia radicalmente materialista. In realtà, tuttavia, fu una ricerca coronata dal successo: “La sua opera e più ancora la bellezza della sua vita – si legge nel libro – rimangono fissate in quell’eterno in cui nulla va perduto. Nell’eterno che già traluce sotto forma di serpentelli verdi fluttuanti nel mare di Batumi e risveglia lo stupore del piccolo Pavel”.

Soldati. Tu non ucciderai

Ecco. "Tu non ucciderai" può sembrare un curioso motto per un soldato il cui mestiere in guerra consiste proprio nell'uccidere. Ma c'è uccidere e uccidere. Anche l'artigliere uccide, e non parliamo del mitragliere. Eppure in un caso come nell'altro l'assassinio non corrisponde a una situazione in cui il bersaglio è ben individuato, riconoscibile e viene abbattuto con uno sparo. Il mitragliere spara nel mucchio, l'artigliere tira a distanza, nel caso degli obici i cui proiettili disegnano una parabola non vede neppure l'obiettivo. Arriviamo così alla scoperta compiuta dal colonnello e storico militare S.L.A. Marshall che intervistò migliaia di reduci dai teatri di guerra dai teatri del Pacifico e dell'Europa. Stiamo parlando del secondo conflitto mondiale. Ebbene venne fuori che soltanto un quarto dei soldati di prima linea aveva effettivamente impiegato le armi individuali durante un combattimento: "Anche i più duri e stagionati veterani della formazioni d'assalto - perfino nelle situazioni più critiche - ben di rado avevano sparato direttamente contro il nemico" (E. Leed, Terra di nessuno, il Mulino, 1985, p.19).

Si spiega così il fatto che nelle memorie di guerra l'uccisione diretta, frontale, del nemico è oggetto di imbarazzo e dà luogo a un preciso racconto. Molto famoso è il brano in cui Emilio Lussu racconta un'esperienza simile:

Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Non ho provato una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimato, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!… Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi è apparso straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?

Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli altri, perché v'era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora più giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimasero che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale.

Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è che probabilmente avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.

L'ufficiale austriaco accede a una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. È stato un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.

Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrata ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra ea farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io dovevo il dovere di tirare.

E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere più calmo, in una camera di casa mia, nella mia città.

Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!

Un uomo!

Ne distinguevo gli occhi ei tratti del viso. La luce dell'alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo… come su un cinghiale!

Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido ” è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo.

Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: "Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così! "Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io penso di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:

– Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:

– Neppure io.

Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi.

La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio. (Un anno sull'Altipiano)

Lussu, si dirà, era un uomo di sinistra. In lui contava anche il fatto che era abituato all'uso delle armi, prima dell'arruolamento nell'esercito aveva praticato la caccia. Prendiamo invece il caso di qualcuno che si identificava decisamente con il suo ruolo di soldato: Ernest Jünger. Questo scrittore ha parlato della sua esperienza in guerra in numerosi volumi, il più famoso dei quali è probabilmente Tempeste d'acciaio. Qui troviamo un episodio in cui all'uccisione ugualmente non si arriva. L'incontro faccia a faccia con il nemico nella Grande Guerra era cosa rara. Il soldato certo non si sporgevano dalle trincee per vedere cosa succedeva dall'altra parte del fronte. Anche negli assalti difficilmente si arrivava al corpo a corpo. Altra statistica: nella battaglia della Somme le ferite da baionetta erano meno dell'1 per cento del totale dei ferimenti totali riscontrati (Keegan, Il volto della battaglia). Jünger. allora si trova di fronte il nemico in persona; "Fu in quella occasione che incontrai il primo soldato nemico. una figura in uniforme kaki era accoccolata a venti passi da me, in mezzo all'avvallamento martellato dal tiro, con le mani appoggiate al suolo. I nostri sguardi si incontrarono quando uscii da una curva del sentiero. Lo vidi sussultare; teneva gli occhi fissi su di me mentre mi avvicinavo lentamente con la pistola puntata e con espressione truce. Si preparava una scena sanguinosa senza testimoni". Guardare in faccia l'altra persona è per il filosofo Levinas una esperienza capitale  Il soffermarsi sul volto dell’Altro stabilisce una relazione originaria con un tu che mi interpella chiedendo di essere accolto e rispettato. Attraverso l’incontro con il volto, l’io si scopre in un certo senso sottomesso alla responsabilità per l’Altro e di conseguenza l’accoglienza si presenta come una limitazione della libertà (Totalità e infinito). Senza arrivare a tanto, si può osservare che l'uccisione del nemico in uno spazio ravvicinato spesso avviene senza passare per uno scambio di sguardi. Questo vale anche per Jünger e per un testimone francese come Maurice Genevoix. Il caso dell'assassinio deliberato che si produce per via di un corpo a corpo è presente invece nel famoso romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il protagonista Paul Bäumer durante un assalto si ritrova in una buca profonda:

Il rumore mi oltrepassa. La prima ondata è passata. Ho avuto un solo pensiero, imperioso: che fare, se qualcuno salta nella buca? Strappo fuori il pugnale, lo impugno forte, lo nascondo, con tutta la mano, nella mota. Colpire subito, se qualcuno salta dentro; questo mi martella in fronte; colpire alla gola, perché non possa gridare; non c’è altro scampo; sarà spaventato al pari di me, il terrore ci getterà l’uno contro l’altro, e allora devo essere io il primo. […] 

Si è fatto un poco chiaro. Passi affrettati mi sfiorano. I primi. Si allontanano. Altri ancora. Il crepitare delle mitragliatrici si estende a una catena ininterrotta. Sto per voltarmi un poco e cambiare posizione, quand’ecco qualcosa ruzzola giù – un tonfo in acqua – un corpo pesante è caduto nella buca, addosso a me … Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi s’affloscia e s’insacca: quando ritorno in me, ho la mano bagnata, viscida … 

 L’altro rantola. Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un grido, un tuono, ma sono soltanto le mie arterie che battono. […] 

La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rimangono fissi, come se fossero inchiodati. È un uomo con un paio di baffetti; la testa gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L’altra mano preme il petto, nero di sangue. 

 È morto, dico a me stesso; deve esser morto, non sente più nulla; chi rantola è soltanto il suo corpo. Ma la testa tenta di sollevarsi, il gemito si fa per un istante più forte, poi la fronte ricade sul braccio. L’uomo non è morto; muore, ma non è morto ancora. Mi trascino verso di lui, mi arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po’ più in là, aspetto ancora: un orribile cammino di tre metri, un lungo, terribile viaggio. Finalmente eccomi presso di lui. 

Allora apre gli occhi: deve avermi sentito, e mi fissa con un’espressione di indicibile orrore. Il corpo giace immobile, ma negli occhi gli leggo che vuol fuggire, una volontà di fuga così tremenda, che per un attimo mi pare che abbiano la forza di rapire lontano quella povera salma, via, lontano, a centinaia di chilometri, d’un sol balzo. Il corpo è immobile, perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato; ma gli occhi gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo immenso, di fuggire, di fuggire; in uno spaventoso orrore della morte … e di me. 

 Io mi accascio a terra, sui gomiti: “No, no”, mormoro. 

 I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi fissano così. 

 Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto, pochi centimetri. Ma basta quel movimento a sciogliere l’incubo di quello sguardo. Mi piego su di lui, scuoto la testa e mormoro: “No, no, no” e alzo la mano, per mostrargli che lo voglio aiutare, e gli sfioro la fronte. 

 A quel tocco gli occhi sembrano ritrarsi; ormai perdono la loro fissità, le ciglia si abbassano alquanto, la tensione cede. Allora gli sgancio il bavero, e cerco di poggiare più comodamente la sua testa. 

 La bocca è semiaperta e si sforza di formulare parole. Ma le labbra sono aride. Non ho con me la borraccia, l’ho lasciata in trincea. Ma c’è dell’acqua motosa, giù nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto, lo spiego nella melma, raccolgo nella mano l’acqua gialla che ne filtra. Egli la beve. Vado a prenderne ancora. Poi gli slaccio la giubba, per bendarlo, se si può. Devo fare così ad ogni modo, affinché quelli di là, se mi fanno prigioniero, vedano che ho cercato di soccorrere il loro compagno e non mi fucilino sul posto. Egli cerca di schermirsi, ma la sua mano è troppo debole. La camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta che tagliarla. Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare la camicia, quegli occhi si spalancano di nuovo, e di nuovo v’è in essi quel grido, quel delirio, cosicché sono costretto a chiuderli, a tener le dita sulle palpebre, mentre mormoro “Ma no, ma ti voglio soccorrere, compagno, camarade, camarade …”. E ripeto con insistenza la parola, perché la capisca. Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il sangue scorre sotto le bende; le comprimo e il ferito geme. È tutto quello che posso fare. Ora non resta che aspettare, aspettare … 

Che ore! Il rantolo ricomincia: come è lento a morire un uomo! Perché lo so: salvarlo non è possibile. Ho bensì cercato di illudermi, ma verso mezzogiorno il suo gemito ha dissipato il mio inganno. Se nell’avanzare non avessi perduto la mia rivoltella, lo finirei con una palla. Ma pugnalarlo non posso. […] E’ la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa vedere da vicino, e la cui morte sia opera mia. […] Ma ogni suo respiro mi strappa il cuore. Questo morente ha per sé le ore, ha un pugnale invisibile col quale mi colpisce: il tempo e il mio pensiero. Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. È duro starsene qui, doverlo vedere, doverlo udire … Alle tre del pomeriggio è morto. Respiro: ma per poco tempo. Il silenzio mi sembra ben presto anche più insopportabile che quel gemere di prima. Vorrei che il rantolo ricominciasse, roco, interrotto, ora fischiando piano e ora più aspro e più forte. È stupido quello che faccio. Ma ho bisogno di occuparmi. E dunque metto il morto in una posizione più comoda, benché non senta più nulla. Gli chiudo gli occhi. Sono castani; i capelli neri, con qualche riccio sulle tempie. La bocca è carnosa e tenera sotto i baffi; un po’ arcuato il naso, bruna la pelle, non più livida, come poc’anzi, mentre era in vita. Per un istante il viso sembra anzi riacquistar salute; poi subito si trasfigura in quel viso spento dei cadaveri che ho visto tante volte, e che li fa tutti uguali. […] Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al morto e gli dico: “Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qui dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. […] Perché non ci hanno detto che voi siete poveri cani al pari di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire … perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi, e queste uniformi, potresti essere mio fratello […]. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare."

Come si vede, il proposito di uccidere in questo caso è astratto. Il protagonista del romanzo decide semplicemente di colpire per primo, alla gola. Quando l'altro precipita a sua volta nella buca, scatta l'impulso, il soldato tedesco si accanisce sul corpo del giovane francese
finito nelle buca con lui. La scoperta dell'altro in quanto persona è successiva:  È un uomo con un paio di baffetti. L'agonia domina la scena a quel punto, con i pensieri connessi da parte dell'assassino. In quel tempo si arriva allo scambio degli sguardi. L'effetto è paralizzante: I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi fissano così. Infine la morte giunge come una liberazione ma non mette fine all'episodio. L'opera del riconoscimento continua e a quel punto si passa dallo scatenamento cieco della violenza alla consapevolezza dell'assassinio. il morto ha un nome, Gerard Duval, faceva il tipografo, aveva una famiglia, nel portafogli recava i ritratti di una moglie e di una bambina. Si arriva a un rovesciamento delle parti. Bäumer si identifica con Duval: Io devo diventar tipografo, penso tutto smarrito, devo diventar tipografo...

Torniamo a Jünger. In quella guerra, la possibilità di vedere il nemico in faccia non da prigioniero, ma da combattente schierato in campo sembra esclusa. La prima reazione è quindi data da una certa contentezza: "Era come una liberazione poter finalmente vedere il nemico da vicino". Poi si passa ad un riflesso automatico: "Poggiai la bocca della pistola sulla tempia di quell'uomo che sembrava paralizzato dalla paura, mentre con l'altra mano l'afferravo alla giubba adorna di decorazioni e di insegne". Il riconoscimento: "Un ufficiale: forse era stato al comando di questa parte della trincea". Diversamente da quanto è accaduto con Remarque, in questo caso il riconoscimento si produce in vita. Con modalità diverse l'effetto è lo stesso che in Lussu, l'aggressore non spara: "Con un gemito portò la mano alla tasca, per estrarne non un'arma, ma una fotografia che lo ritraeva su una terrazza, circondato da una numerosa famiglia. Era l'incanto di un mondo passato e incredibilmente lontano". Curiosamente lo scrittore non accenna in modo esplicito alla sua decisione del momento, la dà per scontata, limitandosi a commentarle in questi termini: "In seguito ho giudicato una gran fortuna l'essere riuscito a dominarmi e l'aver proseguito il cammino: Quell'uomo mi è apparso diverse volte in sogno. Spero che anche gli altri che mi seguivano gli abbiano fatto grazia della vita". In Tempeste d'acciaio tuttavia, questo non è l'unico episodio in cui viene richiamato il tema dell'uccisione consapevole. Qualche pagina più in là di nuovo si torna a una situazione di scontro aperto con il nemico:


Dall'altra parte della valle, si distinguevano le rovine del villaggio di Vrancourt. Davanti ad esse brillavano i lampi di una batteria da campagna i cui serventi, alla vista e sotto il fuoco dei primi assalitori, ripiegarono verso il villaggio. Alcuni nemici, snidati da una serie di rifugi scavati in uno stretto camminamento, si diedero alla fuga. Ne colpii uno nel momento in cui uscuva dal primo ricovero. Seguito da due soldati della mia compagnia, che nel frattempo mi si erano presentati, avanzai lungo il camminamento. Sulla sua destra si trovava una postazione ancora difesa, dalla quale ci rovesciarono addosso un fuoco nutritissimo. Tornammo indietro per ripararci nel primo ricovero, al di sopra del quale non tardarono a incrociarsi le pallottole delle due parti contendenti, Con ogni probabilità era servito a portaordini e ciclisti della batteria. il mio inglese era disteso lì davanti: un ragazzo. La pallottola gli aveva attraversato il cranio da parte a parte. Giaceva là, coi tratti del viso distesi. Mi sforzai di guardarlo negli occhi. Oro non si poneva più la questione: tu o io. Sono tornato spesso col pensiero a quel morto, e sempre più frequentemente di anno in anno. Lo Stato che ci solleva dalla responsabilità, non ci può liberare dalla tristezza; la  dobbiamo portare fino in fondo, sin nelle profondità dei nostri sogni.

Anche Maurice Genevoix nelle sue circostanziate e puntuali memorie di guerra ricorda specialmente la prima volta in cui si è trovato a uccidere consapevolmente dei nemici. Erano in  tre, tre fanti tedeschi isolati, e a ciascuno correndo dietro di lui per tenere il passo ho tirato una pallottola di pistola in testa o sul dorso. Sono crollati giù con lo stesso grido soffocato.  Occasione memorabile: lo scrittore ha qui sentito il bisogno di aggiungere in nota: È stata la prima occasione - la seconda e ultima alle Eparges, il 18 febbraio al mattino - in cui ho sentito in quanto tali la presenza e la vita degli uomini sui quali sparavo. Per fortuna queste occasioni erano rare: e quando si producevano ammettevano un solo riflesso, se si esclude una resipiscenza: si trattava di uccidere o di essere ucciso. Per una ristampa del libro avevo soppresso questo passaggio: è una indicazione quanto alle "resipiscenze" che dovevano fatalmente verificarsi. Lo ristabilisco oggi considerando una mancanza di onestà l'omissione volontaria di uno tra gli episodi della guerra che mi hanno profondamente scosso e che hanno segnato la mia memoria con una impronta mai cancellata.  

L'immagine del nemico risparmiato che torna in sogno, il pensiero che spesso torna al nemico ucciso, l'impronta lasciata dagli spari sui nemici in fuga sono altrettanti aspetti di un fenomeno che possiamo designare come la sovrapposizione dei codici. Si ha un bel dire, con Eric Leed, che i soldati attraversano un rito di passaggio e acquisiscono una identità diversa da quella civile. Lo sparo che provoca la morte di una persona ben delineata di fronte al soldato suscita una emozione che non si lascia dimenticare. C'è allora un altro tema letterario e poetico. Non tanto l'uccisione del nemico, ma il ricordo di essa. Di questo parla il poeta inglese William Owen nel componimento da lui intitolato Strano incontro: 

e se ferisce, infligge ferite 
più intense che non qui. Poiché molti 
la mia allegria avrebbe potuto 
allietare, e delle mie lacrime 
rimanere qualcosa che ora deve 
morire. La verità taciuta, 
intendo, la pietà della guerra; 
la pietà che la guerra ha distillato. 
L'umanità sarà contenta adesso
di tutto ciò che abbiamo devastato
...
Il mio spirito io l'avrei versato
volentieri, ma non con le ferite; 
né attraverso una tassa di guerra.
Fronti d'uomini hanno sanguinato
dove non c'era nessuna ferita.

Sono il nemico che hai ucciso, amico.
Ti riconobbi, in questa oscurità,
perché ieri così ti corrugasti; 
mentre mi colpivi e mi trucidavi,
Provai a schivarti, ma intorpidite
e gelide erano le mie mani.
Dormiamo ora... 

Di fronte al groviglio di sentimenti racchiuso in questi versi siamo portati a riflettere sul significato profondo di espressioni come ineffabile, indicibile. Che non rimandano certo a una assenza di significato. Il silenzio o l'espressione musicale possono restituire lo sconcerto che l'esperienza della morte procurata provoca nell'animo umano. Forse alla parola spetta invece smentire la pretesa di ridurre tutto a un mistero insondabile. Ciò che non sembra possibile dire invece va detto e ripetuto nelle forme più diverse perché è ciò che soprattutto merita di essere rammemorato.

martedì 29 luglio 2025

Aron critico di Sartre


Nati nello stesso anno 1905, condiscepoli alla scuola normale di rue d'Ulm, Aron e Sartre hanno stretto la loro amicizia nello studio dei grandi testi della filosofia e nell'orizzonte dell'ascesa dei regimi autoritari del XX secolo. Eppure i loro percorsi filosofici divergono già dalla fine degli anni Trenta. Aron avverte lo scoppio della guerra mentre Sartre si proietta nella figura del grande scrittore. La rottura sarà consumata all'inizio degli anni 1950. I due filosofi si oppongono sull'interpretazione del marxismo e sulla questione del senso della storia. Se Aron riconosce il genio dello scrittore Sartre, non risparmia le sue critiche nei confronti della sua filosofia. Storia e dialettica della violenza, risultato del grande corso che dedica tredici anni dopo la sua pubblicazione nel 1960 alla Critica della ragione dialettica, l'ultima grande opera filosofica di Sartre, segna il punto culminante di questo "dialogo" filosofico. 

Nés la même année 1905, condisciples à l'Ecole normale de la rue d'Ulm, Aron et Sartre ont noué leur amitié dans l'étude des grands textes de la philosophie et l'horizon de la montée des régimes autoritaires du XXème siècle. Pourtant leurs chemins philosophiques divergent dès la fin des années 1930. Aron pressent le déclenchement de la guerre quand Sartre se projette dans la figure du grand écrivain. La rupture sera consommée au début des années 1950. Les deux philosophes s'opposent sur l'interprétation du marxisme et la question du sens de l'histoire. Si Aron reconnaît le génie de l'écrivain Sartre, il ne ménage pas ses critiques à l'égard de sa philosophie. Histoire et Dialectique de la violence, résultat du grand cours qu'il consacre treize ans après sa parution en 1960 à la Critique de la raison dialectique, le dernier grand ouvrage philosophique de Sartre, marque le point d'orgue de ce " dialogue " philosophique.

Il grande cedimento

Lucrezia Reichlin
Corriere della Sera, 29 luglio 2025

Nel 2011 l’Europa si è trovata ad affrontare una crisi del debito senza avere gli strumenti economici necessari, né la coesione politica per costruirli. Fu una crisi esistenziale che portò l’euro quasi al collasso. Quattordici anni dopo, la guerra commerciale iniziata da Trump ha trovato l’Europa altrettanto impreparata pur avendo, questa volta, lo strumento giusto, cioè la competenza esclusiva a negoziare accordi commerciali internazionali a nome dei suoi 27 Stati membri.
Impreparata perché arrivata tardi a fare il necessario per rafforzare la sua autonomia strategica e per via della mancanza di coesione e determinazione ad agire insieme dei Paesi che ne fanno parte. Il risultato è stato un accordo commerciale negativo che indebolisce il suo ruolo nel mondo e la rende vulnerabile all’acuirsi delle sue divisioni interne. Un momento buio che avrà conseguenze di lungo periodo.
L’accordo è totalmente asimmetrico: l’Europa non ottiene nulla, ad eccezione della promessa di non essere colpita ancora più pesantemente e su questo non c’è alcuna garanzia. Non ne esce meglio dell’ultra conciliante Giappone e fa peggio di una economia molto più piccola e vulnerabile come il Regno Unito. Inoltre, il patto smaschera la ipocrisia di chi, a parole, difende il multilateralismo, ma, di fatto, accetta di siglare un accordo che viola le regole dell’organizzazione Mondiale del Commercio (Wto). È un’intesa che mostra in modo inequivocabile la sua debolezza.
Si dice che l’alternativa a questo accordo capestro sarebbe stata una guerra commerciale distruttiva per l’economia europea. Ed è certamente vero che è troppo facile criticare senza valutare i costi dell’alternativa, ma sia una strategia pragmatica, perseguita con coesione e lucidità, sia una strategia radicale, basata su accordi con altri Paesi, avrebbero dato risultati migliori di questa disfatta.
L’intesa arriva dopo una serie di miti dichiarazioni pubbliche e deboli tatticismi. Da aprile, ogni volta che l’Unione si è trovata di fronte a una scelta, ha ceduto. Il primo cedimento, ed il grande errore, è stato proprio in aprile, quando ha deciso di non impiegare il suo Strumento anticoercitivo (Aci) per rispondere ai «dazi reciproci» minacciati da Trump e poi, quando questi sono stati temporaneamente sospesi, di non rispondere alle tariffe su acciaio e alluminio e tenersi pronta ad attivare ci. Anche una politica che accettasse — come volevano alcuni Paesi — l’inevitabilità di un accordo asimmetrico per non mettere Trump in difficoltà politica, avrebbe potuto essere più aggressiva. Un migliore equilibrio tra compromesso e minaccia di far saltare il tavolo avrebbe probabilmente portato a un risultato migliore, simile a quello ottenuto da Starmer nel Regno Unito.
Ma la vera domanda è perché l’Europa non abbia scelto di sfidare il bullismo di Trump e di rispondere con una strategia di ritorsione «occhio per occhio» basata su alleanze strategiche con altri Paesi. Perché non una linea assertiva, combinata alla costruzione di un fronte comune con altre aree del mondo, strategia in cui l’Europa avrebbe potuto esercitare una leadership globale per la difesa dei principi del multilateralismo e la cooperazione per la difesa dei beni comuni globali? Questa strategia si sarebbe potuta basare su accordi commerciali intelligenti con quelle economie con cui abbiamo importanti complementarità e avrebbe isolato gli Stati Uniti, evitando la trappola di un negoziato bilaterale.
Certo, si sarebbe rischiata una guerra commerciale, ma le conseguenze economiche e politiche di tale conflitto sarebbero state peggiori per gli Stati Uniti che per noi. Non scordiamo che gli Usa, con l’enorme debito da rifinanziare, avrebbero tra l’altro dovuto affrontare le conseguenze del loro isolamento sulla volatilità nel mercato del debito. Il prezzo economico dell’isolamento si sarebbe fatto sentire nel 2026, nel momento del voto del mid-term, un rischio politico a cui Trump è sicuramente sensibile.
L’Europa non ha perseguito questa strategia perché dipende dagli Usa per la sua difesa e per le tecnologie chiave, ma anche perché, pur avendo la delega a negoziare in nome di tutti gli Stati dell’Unione, è indebolita da interessi divergenti tra i suoi Paesi membri e dalle loro diverse sensibilità politiche. Il fatto che Francia, Germania e Italia non abbiano fatto fronte comune e condiviso le linee strategiche del negoziato ha pesato sul risultato e mostra che la fragilità dell’Unione non sta solo nel limite delle sue competenze, ma soprattutto nella assenza di un’unione politica o comunque di qualcosa che gli si avvicini.
Nel 2011, alla fine la crisi economica si è superata dotandosi di maggiori strumenti economici collettivi, ma oggi, in una situazione in cui le sfide sono geo-politiche, abbiamo bisogno non solo di strumenti economici a livello federale, ma di maggiore potere politico al centro. Non è chiaro come questo sia possibile nel presente regime politico-istituzionale e sembra veramente utopico se si pensa a come sia difficile fare passi avanti su dossier importanti come quello della difesa comune o quello di un aumento del bilancio europeo. L’Europa è la terza potenza mondiale per Pil, ma è un gigante di argilla. Siamo arrivati oggi ad un punto di crisi esistenziale nella storia dell’Unione, più grave di quello che quattordici anni fa ci portò quasi alla disintegrazione dell’euro e più difficile da affrontare senza una leadership europea con l’ambizione giusta e lo sguardo lungo.

https://www.ilfoglio.it/politica/2012/07/02/news/la-principessa-storia-di-lucrezia-reichlin-1854207/


lunedì 28 luglio 2025

Il cattolicesimo nella storia


Alberto Melloni
Chiesa e democrazia sotto Pio XII
Corriere della Sera, 28 luglio 2025

Quando nel 1881 Leone XIII decise di aprire a tutti gli studiosi gli archivi vaticani, tornati a Roma da Parigi pochi decenni prima, sembrava l’inizio di una pace fra la Chiesa e la storia. Una pace che durò pochissimo: il suo successore, ossessionato da fermenti dottrinali, letterari, esegetici che credeva essere i tentacoli d’un mostruoso «modernismo», ne vedeva uno pericoloso nella storiografia. E dopo di lui la diffidenza verso il sapere storico continuò: tant’è che solo nel 1984 Wojtyla diede adito alle carte dell’archivio segreto vaticano fino a Benedetto XV. Nel 2006 fu poi la volta delle carte degli anni di Pio XI mentre erano già accessibili le carte del concilio, quelle dei Papi conciliari oggetto di processi di canonizzazione e quelle del Sant’ufficio. L’esito di tali aperture è stato diverso. Su Pio X, di cui tanti reclamavano i documenti per capire una repressione che aveva colpito alla cieca (da Roncalli, denunciato da una spia gesuita, a Ratzinger, la cui tesi di dottorato non fu pubblicata), ci sono stati importanti studi di Giovanni Vian e Claus Arnold, e l’edizione più imponente l’ha fatta Monsignor Sergio Pagano, a lungo prefetto dell’archivio, con due tomi che documentano la spregiudicatezza repressiva di un Papa, sul piano personale, umilissimo e santo.
Per Benedetto XV è stata molto lavorata la sua azione diplomatica. Per Pio XI sono stati dirimenti gli studi di Lucia Ceci ed Emma Fattorini e ancora le edizioni curate da Sergio Pagano, e tutti sono rimasti in attesa dell’archivio di Pio XII, di cui si conoscevano dispacci di età bellica usciti per volontà di Paolo VI dopo l’esplosione del dibattito su quello che Pacelli prima di tutto definì il «suo silenzio».
E quando nel 2020 Papa Francesco ha aperto il fondo Pacelli (di cui Giovanni Coco ha dato un inventario nel 2023) è esploso un interesse così febbrile da diventare rivelatore di una debolezza storiografica più profonda. Sia nelle sofisticate iniziative di ricerca elaborate dall’Ecole française de Rome da Laura Pettinaroli e del Deutsches Institut con Simon Unger-Alvi, sia in quelle più divulgative, emergono segni di feticismo archivistico che fa parte del manierismo e non della ricerca.
Perché lo storico sa che gli archivi non coincidono con la realtà e non contengono solo verità nascoste, ma anche banali riflessi dell’efficienza degli uffici che li producono. Sono il precipitato di atti di governo, raccolte di informazioni, visioni illusorie o fobiche che hanno destinatari, obiettivi, codici, orientamenti intenzionali, che possono essere capiti solo attraverso un lavoro di studio che collega, fonti edite e inedite, letteratura grigia e storiografia.
Se si salta questo passaggio si entra nell’alto artigianato di cui ha dato da poco prova Giovanni Coco con Un mosaico di silenzi (Mondadori) dedicato a Pio XII e la questione ebraica, che non conosce o omette la ricerca e le edizioni di fonti che non gli garbano. Oppure si passa direttamente al dilettantismo colto surclassato da chi — lo dimostrarono proprio quarant’anni fa gli studi di Andrea Riccardi nei quali ad archivi chiusi l’intelligenza critica faceva capire la Chiesa e la Roma di Pacelli — aveva meno chilometri di carte davanti ma più filo intellettuale da tessere.
E senza intelligenza critica si producono gradevoli passeggiate nelle fonti come quella offerta ora dal nuovo volume su L’Italia Vaticana. L’egemonia della Chiesa di Pio XII sulla Repubblica (San Paolo) di Cesare Catananti, storico della medicina passato alla storia ecclesiastica. Passeggiate archivistiche che confondono le illusioni di cui l’archivio conserva traccia con ciò che è effettivamente accaduto.
Nelle pieghe della curia pacelliana c’era chi sognava una Italia nazional-cattolica, con una legislazione posta a protezione delle concezioni morali vigenti e una capacità di condizionare la politica di una Dc ritenuta creatura detestabile del detestato Montini?Ovviamente sì. Ma questa domanda a chi fa il mestiere di storico non interessa niente: ciò che preme è capire se quel desiderio s’è realizzato o perché è fallito. E allora, per dirla col titolo del volume, c’è stata un’italia «vaticana» e l’italia poteva esserlo? La risposta è semplice: no.
No, perché i pensieri di Pacelli, di Montini, di Tardini, di Dell’acqua, di Ronca — per non dire di Schuster, di Roncalli, di Siri, di Lercaro — non erano uniformi. No, perché l’anticomunismo a cui Gedda voleva far riassorbire il neofascismo in un anticomunismo

Punti di vista


Non mancarono le pressioni per un’Italia nazional-cattolica Ma ci fu chi le respinse

di massa, incontra resistenze onerose: quella del futuro Paolo VI che la paga e finirà in esilio a Milano, senza porpora; quella di De Gasperi che sventa l’accordo coi missini a Roma anche a costo di vedersi negata l’udienza dell’anniversario di nozze. No, perché la Repubblica sulla quale questa egemonia vorrebbe esercitarsi non si piega grazie a un cattolicesimo pensante, che subisce «pressioni indicibili» (come disse Dossetti) che non si vedono negli archivi italiani e le respinge: non per laicità, ma perché i cattolici migliori sono convinti che cedere sulla legittimazione democratica della Repubblica non farebbe la nazione più cattolica, ma la Chiesa più miserabile.

«L’Italia è di chi se la prende» sibila padre Lombardi al Papa nel gennaio 1947 (p. 44): ma sbaglia. L’Italia repubblicana è già della Costituzione in fieri. E questo non lo dice un foglio d’udienza, ma la storia.

Sicché quando le carte di Pio XII saranno state studiate a sufficienza — senza anacronismi, senza giocare a far sembrare la Santa Sede «più aperta» o «più chiusa» a seconda di convenienze ideologiche — capiremo che in quel tratto della vicenda nazionale sul quale Catananti giustamente attira l’attenzione, c’è stato un processo forse non ancora del tutto esaurito: che richiede non solo gli archivi aperti (che sono un gran bene), ma un senso critico che oggi rischia di essere messo in fuori gioco dal manierismo storiografico che confonde le carte vaticane con il Papa o addirittura la Chiesa. Così si racconta un passato che non c’è a un presente anestetizzato; che è il contrario della funzione di una conoscenza storica uscita dalla paideia pubblica, con gli effetti che vediamo.