
Ecco. "Tu non ucciderai" può sembrare un curioso motto per un soldato il cui mestiere in guerra consiste proprio nell'uccidere. Ma c'è uccidere e uccidere. Anche l'artigliere uccide, e non parliamo del mitragliere. Eppure in un caso come nell'altro l'assassinio non corrisponde a una situazione in cui il bersaglio è ben individuato, riconoscibile e viene abbattuto con uno sparo. Il mitragliere spara nel mucchio, l'artigliere tira a distanza, nel caso degli obici i cui proiettili disegnano una parabola non vede neppure l'obiettivo. Arriviamo così alla scoperta compiuta dal colonnello e storico militare S.L.A. Marshall che intervistò migliaia di reduci dai teatri di guerra dai teatri del Pacifico e dell'Europa. Stiamo parlando del secondo conflitto mondiale. Ebbene venne fuori che soltanto un quarto dei soldati di prima linea aveva effettivamente impiegato le armi individuali durante un combattimento: "Anche i più duri e stagionati veterani della formazioni d'assalto - perfino nelle situazioni più critiche - ben di rado avevano sparato direttamente contro il nemico" (E. Leed, Terra di nessuno, il Mulino, 1985, p.19).
Si spiega così il fatto che nelle memorie di guerra l'uccisione diretta, frontale, del nemico è oggetto di imbarazzo e dà luogo a un preciso racconto. Molto famoso è il brano in cui Emilio Lussu racconta un'esperienza simile:
Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Non ho provato una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimato, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!… Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi è apparso straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?
Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli altri, perché v'era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora più giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimasero che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale.
Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è che probabilmente avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.
L'ufficiale austriaco accede a una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. È stato un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.
Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrata ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra ea farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io dovevo il dovere di tirare.
E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere più calmo, in una camera di casa mia, nella mia città.
Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi ei tratti del viso. La luce dell'alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo… come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido ” è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo.
Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: "Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così! "Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io penso di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:
– Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
– Neppure io.
Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi.
La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio. (Un anno sull'Altipiano)
Lussu, si dirà, era un uomo di sinistra. In lui contava anche il fatto che era abituato all'uso delle armi, prima dell'arruolamento nell'esercito aveva praticato la caccia. Prendiamo invece il caso di qualcuno che si identificava decisamente con il suo ruolo di soldato: Ernest Jünger. Questo scrittore ha parlato della sua esperienza in guerra in numerosi volumi, il più famoso dei quali è probabilmente Tempeste d'acciaio. Qui troviamo un episodio in cui all'uccisione ugualmente non si arriva. L'incontro faccia a faccia con il nemico nella Grande Guerra era cosa rara. Il soldato certo non si sporgevano dalle trincee per vedere cosa succedeva dall'altra parte del fronte. Anche negli assalti difficilmente si arrivava al corpo a corpo. Altra statistica: nella battaglia della Somme le ferite da baionetta erano meno dell'1 per cento del totale dei ferimenti totali riscontrati (Keegan, Il volto della battaglia). Jünger. allora si trova di fronte il nemico in persona; "Fu in quella occasione che incontrai il primo soldato nemico. una figura in uniforme kaki era accoccolata a venti passi da me, in mezzo all'avvallamento martellato dal tiro, con le mani appoggiate al suolo. I nostri sguardi si incontrarono quando uscii da una curva del sentiero. Lo vidi sussultare; teneva gli occhi fissi su di me mentre mi avvicinavo lentamente con la pistola puntata e con espressione truce. Si preparava una scena sanguinosa senza testimoni". Guardare in faccia l'altra persona è per il filosofo Levinas una esperienza capitale Il soffermarsi sul volto dell’Altro stabilisce una relazione originaria con un tu che mi interpella chiedendo di essere accolto e rispettato. Attraverso l’incontro con il volto, l’io si scopre in un certo senso sottomesso alla responsabilità per l’Altro e di conseguenza l’accoglienza si presenta come una limitazione della libertà (Totalità e infinito). Senza arrivare a tanto, si può osservare che l'uccisione del nemico in uno spazio ravvicinato spesso avviene senza passare per uno scambio di sguardi. Questo vale anche per Jünger e per un testimone francese come Maurice Genevoix. Il
caso dell'assassinio deliberato che si produce per via di un corpo a
corpo è presente invece nel famoso romanzo di Erich Maria
Remarque, Niente
di nuovo sul fronte occidentale. Il
protagonista Paul
Bäumer durante un assalto si ritrova in una buca profonda:
Il rumore mi oltrepassa. La prima ondata è passata. Ho avuto un solo
pensiero, imperioso: che fare, se qualcuno salta nella buca? Strappo fuori il pugnale, lo impugno forte, lo
nascondo, con tutta la mano, nella mota. Colpire subito, se qualcuno salta dentro; questo mi martella in fronte;
colpire alla gola, perché non possa gridare; non c’è altro scampo; sarà spaventato al pari di me, il terrore ci
getterà l’uno contro l’altro, e allora devo essere io il primo.
[…]
Si è fatto un poco chiaro. Passi affrettati mi sfiorano. I primi. Si allontanano. Altri ancora. Il crepitare delle
mitragliatrici si estende a una catena ininterrotta. Sto per voltarmi un poco e cambiare posizione, quand’ecco
qualcosa ruzzola giù – un tonfo in acqua – un corpo pesante è caduto nella buca, addosso a me …
Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi s’affloscia e s’insacca: quando
ritorno in me, ho la mano bagnata, viscida …
L’altro rantola. Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un grido, un tuono, ma sono soltanto le mie
arterie che battono. […]
La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei
occhi rimangono fissi, come se fossero inchiodati. È un uomo con un paio di baffetti; la testa gli pende da un
lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L’altra mano preme il petto, nero di sangue.
È morto, dico a me stesso; deve esser morto, non sente più nulla; chi rantola è soltanto il suo corpo. Ma la testa
tenta di sollevarsi, il gemito si fa per un istante più forte, poi la fronte ricade sul braccio. L’uomo non è morto;
muore, ma non è morto ancora. Mi trascino verso di lui, mi arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po’ più in
là, aspetto ancora: un orribile cammino di tre metri, un lungo, terribile viaggio. Finalmente eccomi presso di
lui.
Allora apre gli occhi: deve avermi sentito, e mi fissa con un’espressione di indicibile orrore. Il corpo giace
immobile, ma negli occhi gli leggo che vuol fuggire, una volontà di fuga così tremenda, che per un attimo mi
pare che abbiano la forza di rapire lontano quella povera salma, via, lontano, a centinaia di chilometri, d’un
sol balzo. Il corpo è immobile, perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato; ma gli occhi
gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo immenso, di fuggire, di fuggire; in uno spaventoso
orrore della morte … e di me.
Io mi accascio a terra, sui gomiti: “No, no”, mormoro.
I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi fissano così.
Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto, pochi centimetri. Ma basta quel
movimento a sciogliere l’incubo di quello sguardo. Mi piego su di lui, scuoto la testa e mormoro: “No, no, no” e
alzo la mano, per mostrargli che lo voglio aiutare, e gli sfioro la fronte.
A quel tocco gli occhi sembrano ritrarsi; ormai perdono la loro fissità, le ciglia si abbassano alquanto, la
tensione cede. Allora gli sgancio il bavero, e cerco di poggiare più comodamente la sua testa.
La bocca è semiaperta e si sforza di formulare parole. Ma le labbra sono aride. Non ho con me la borraccia,
l’ho lasciata in trincea. Ma c’è dell’acqua motosa, giù nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto, lo spiego nella
melma, raccolgo nella mano l’acqua gialla che ne filtra. Egli la beve. Vado a prenderne ancora. Poi gli slaccio
la giubba, per bendarlo, se si può. Devo fare così ad ogni modo, affinché quelli di là, se mi fanno prigioniero,
vedano che ho cercato di soccorrere il loro compagno e non mi fucilino sul posto. Egli cerca di schermirsi, ma la
sua mano è troppo debole. La camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta che tagliarla.
Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare la camicia, quegli occhi si spalancano di
nuovo, e di nuovo v’è in essi quel grido, quel delirio, cosicché sono costretto a chiuderli, a tener le dita sulle
palpebre, mentre mormoro “Ma no, ma ti voglio soccorrere, compagno, camarade, camarade …”. E ripeto con
insistenza la parola, perché la capisca.
Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il sangue scorre sotto le bende; le comprimo e
il ferito geme.
È tutto quello che posso fare. Ora non resta che aspettare, aspettare …
Che ore! Il rantolo ricomincia: come è lento a morire un uomo! Perché lo so: salvarlo non è possibile. Ho bensì
cercato di illudermi, ma verso mezzogiorno il suo gemito ha dissipato il mio inganno. Se nell’avanzare non
avessi perduto la mia rivoltella, lo finirei con una palla. Ma pugnalarlo non posso.
[…] E’ la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa vedere da vicino, e la cui
morte sia opera mia. […] Ma ogni suo respiro mi strappa il cuore. Questo morente ha per sé le ore, ha un
pugnale invisibile col quale mi colpisce: il tempo e il mio pensiero.
Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. È duro starsene qui, doverlo vedere, doverlo udire …
Alle tre del pomeriggio è morto.
Respiro: ma per poco tempo. Il silenzio mi sembra ben presto anche più insopportabile che quel gemere di
prima. Vorrei che il rantolo ricominciasse, roco, interrotto, ora fischiando piano e ora più aspro e più forte.
È stupido quello che faccio. Ma ho bisogno di occuparmi. E dunque metto il morto in una posizione più
comoda, benché non senta più nulla. Gli chiudo gli occhi. Sono castani; i capelli neri, con qualche riccio sulle
tempie.
La bocca è carnosa e tenera sotto i baffi; un po’ arcuato il naso, bruna la pelle, non più livida, come poc’anzi,
mentre era in vita. Per un istante il viso sembra anzi riacquistar salute; poi subito si trasfigura in quel viso
spento dei cadaveri che ho visto tante volte, e che li fa tutti uguali.
[…]
Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al morto e gli dico:
“Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qui dentro, io non ti ucciderei, purché anche
tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che
determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me.
[…] Perché non ci hanno detto che voi siete poveri cani al pari di noi, che le vostre mamme sono in angoscia
per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire … perdonami,
compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi, e queste uniformi, potresti essere mio
fratello […]. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa
ne potrò mai fare."
Come si vede, il proposito di uccidere in questo caso è astratto. Il protagonista del romanzo decide semplicemente di colpire per primo, alla gola. Quando l'altro precipita a sua volta nella buca, scatta l'impulso, il soldato tedesco si accanisce sul corpo del giovane francese
finito
nelle buca con lui. La scoperta dell'altro in quanto persona è
successiva: È
un uomo con un paio di baffetti. L'agonia domina
la scena a quel punto, con i pensieri connessi da parte
dell'assassino. In quel tempo si arriva allo scambio degli sguardi.
L'effetto è paralizzante: I
suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi
fissano così. Infine
la morte giunge come una liberazione ma non mette fine
all'episodio. L'opera del riconoscimento continua e a quel punto si
passa dallo scatenamento cieco della violenza alla consapevolezza
dell'assassinio. il morto ha un nome, Gerard Duval, faceva il
tipografo, aveva una famiglia, nel portafogli recava i ritratti di
una moglie e di una bambina. Si arriva a un rovesciamento delle
parti. Bäumer
si identifica con Duval: Io
devo diventar tipografo, penso tutto smarrito, devo diventar
tipografo...
Torniamo a Jünger. In quella guerra, la possibilità di vedere il nemico in faccia non da prigioniero, ma da combattente schierato in campo sembra esclusa. La prima reazione è quindi data da una certa contentezza: "Era come una liberazione poter finalmente vedere il nemico da vicino". Poi si passa ad un riflesso automatico: "Poggiai la bocca della pistola sulla tempia di quell'uomo che sembrava paralizzato dalla paura, mentre con l'altra mano l'afferravo alla giubba adorna di decorazioni e di insegne". Il riconoscimento: "Un ufficiale: forse era stato al comando di questa parte della trincea". Diversamente da quanto è accaduto con Remarque, in questo caso il riconoscimento si produce in vita. Con modalità diverse l'effetto è lo stesso che in Lussu, l'aggressore non spara: "Con un gemito portò la mano alla tasca, per estrarne non un'arma, ma una fotografia che lo ritraeva su una terrazza, circondato da una numerosa famiglia. Era l'incanto di un mondo passato e incredibilmente lontano". Curiosamente lo scrittore non accenna in modo esplicito alla sua decisione del momento, la dà per scontata, limitandosi a commentarle in questi termini: "In seguito ho giudicato una gran fortuna l'essere riuscito a dominarmi e l'aver proseguito il cammino: Quell'uomo mi è apparso diverse volte in sogno. Spero che anche gli altri che mi seguivano gli abbiano fatto grazia della vita". In Tempeste d'acciaio tuttavia, questo non è l'unico episodio in cui viene richiamato il tema dell'uccisione consapevole. Qualche pagina più in là di nuovo si torna a una situazione di scontro aperto con il nemico:
Dall'altra parte della valle, si distinguevano le rovine del villaggio di Vrancourt. Davanti ad esse brillavano i lampi di una batteria da campagna i cui serventi, alla vista e sotto il fuoco dei primi assalitori, ripiegarono verso il villaggio. Alcuni nemici, snidati da una serie di rifugi scavati in uno stretto camminamento, si diedero alla fuga. Ne colpii uno nel momento in cui uscuva dal primo ricovero. Seguito da due soldati della mia compagnia, che nel frattempo mi si erano presentati, avanzai lungo il camminamento. Sulla sua destra si trovava una postazione ancora difesa, dalla quale ci rovesciarono addosso un fuoco nutritissimo. Tornammo indietro per ripararci nel primo ricovero, al di sopra del quale non tardarono a incrociarsi le pallottole delle due parti contendenti, Con ogni probabilità era servito a portaordini e ciclisti della batteria. il mio inglese era disteso lì davanti: un ragazzo. La pallottola gli aveva attraversato il cranio da parte a parte. Giaceva là, coi tratti del viso distesi. Mi sforzai di guardarlo negli occhi. Oro non si poneva più la questione: tu o io. Sono tornato spesso col pensiero a quel morto, e sempre più frequentemente di anno in anno. Lo Stato che ci solleva dalla responsabilità, non ci può liberare dalla tristezza; la dobbiamo portare fino in fondo, sin nelle profondità dei nostri sogni.
Anche Maurice Genevoix nelle sue circostanziate e puntuali memorie di guerra ricorda specialmente la prima volta in cui si è trovato a uccidere consapevolmente dei nemici. Erano in tre, tre fanti tedeschi isolati, e a ciascuno correndo dietro di lui per tenere il passo ho tirato una pallottola di pistola in testa o sul dorso. Sono crollati giù con lo stesso grido soffocato. Occasione memorabile: lo scrittore ha qui sentito il bisogno di aggiungere in nota: È stata la prima occasione - la seconda e ultima alle Eparges, il 18 febbraio al mattino - in cui ho sentito in quanto tali la presenza e la vita degli uomini sui quali sparavo. Per fortuna queste occasioni erano rare: e quando si producevano ammettevano un solo riflesso, se si esclude una resipiscenza: si trattava di uccidere o di essere ucciso. Per una ristampa del libro avevo soppresso questo passaggio: è una indicazione quanto alle "resipiscenze" che dovevano fatalmente verificarsi. Lo ristabilisco oggi considerando una mancanza di onestà l'omissione volontaria di uno tra gli episodi della guerra che mi hanno profondamente scosso e che hanno segnato la mia memoria con una impronta mai cancellata.
L'immagine del nemico risparmiato che torna in sogno, il pensiero che spesso torna al nemico ucciso, l'impronta lasciata dagli spari sui nemici in fuga sono altrettanti aspetti di un fenomeno che possiamo designare come la sovrapposizione dei codici. Si ha un bel dire, con Eric Leed, che i soldati attraversano un rito di passaggio e acquisiscono una identità diversa da quella civile. Lo sparo che provoca la morte di una persona ben delineata di fronte al soldato suscita una emozione che non si lascia dimenticare. C'è allora un altro tema letterario e poetico. Non tanto l'uccisione del nemico, ma il ricordo di essa. Di questo parla il poeta inglese William Owen nel componimento da lui intitolato Strano incontro:
e se ferisce, infligge ferite
più intense che non qui. Poiché molti
la mia allegria avrebbe potuto
allietare, e delle mie lacrime
rimanere qualcosa che ora deve
morire. La verità taciuta,
intendo, la pietà della guerra;
la pietà che la guerra ha distillato.
L'umanità sarà contenta adesso
di tutto ciò che abbiamo devastato
...
Il mio spirito io l'avrei versato
volentieri, ma non con le ferite;
né attraverso una tassa di guerra.
Fronti d'uomini hanno sanguinato
dove non c'era nessuna ferita.
Sono il nemico che hai ucciso, amico.
Ti riconobbi, in questa oscurità,
perché ieri così ti corrugasti;
mentre mi colpivi e mi trucidavi,
Provai a schivarti, ma intorpidite
e gelide erano le mie mani.
Dormiamo ora...
Di fronte al groviglio di sentimenti racchiuso in questi versi siamo portati a riflettere sul significato profondo di espressioni come ineffabile, indicibile. Che non rimandano certo a una assenza di significato. Il silenzio o l'espressione musicale possono restituire lo sconcerto che l'esperienza della morte procurata provoca nell'animo umano. Forse alla parola spetta invece smentire la pretesa di ridurre tutto a un mistero insondabile. Ciò che non sembra possibile dire invece va detto e ripetuto nelle forme più diverse perché è ciò che soprattutto merita di essere rammemorato.