giovedì 31 luglio 2025

Milano in sostanza


Roberto D'Agostino
Milano e le altre, la deriva dell'urbanistica

il manifesto, 31 luglio 2025

Colpisce nella lettura dei tanti articoli sulla questione Milano, così come nell’ascolto dei dibattiti televisivi sul tema, la totale mancanza di comprensione delle motivazioni reali di quanto è accaduto.

Mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione, a tutto vantaggio degli operatori immobiliari e a tutto svantaggio della città e dei suoi cittadini; i conflitti di interesse; la commistione tra tutti i protagonisti, pubblici e privati, mascherata da familiarità; l’interpretazione falsata delle leggi; qualche decina di persone, sempre le stesse, con i mano le sorti di un’intera città: sono il prodotto della distorsione della cultura urbanistica italiana, che è andata di pari passo con l’abdicazione della politica a fare il proprio mestiere e con una vera e propria crisi culturale nella gestione delle città.

A PARTIRE DAGLI ANNI a cavallo del secolo, frange sostanzialmente isolate, rappresentate da alcuni degli urbanisti e degli studiosi di maggiore spessore che avevano contribuito all’elaborazione dei più importanti contributi italiani all’urbanistica europea, come le modalità e le pratiche del recupero dei centri storici, primo fra tutti Leonardo Benevolo, avevano segnalato la deriva dell’urbanistica italiana, che si accompagnava ad una deformazione pubblica del fare architettura.

Da un lato la cancellazione della pratica urbanistica partita, per ironia della sorte, dall’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica, con la prima proposta di riforma delle leggi regionali del ’93 confluite nella nuova legge urbanistica dell’Emilia Romagna del ’95 poi progressivamente estesa a quasi tutte le altre regioni; da un altro lato la trasformazione del fare architettura come ricerca paziente di soluzioni abitative volta al miglioramento della vita degli individui e delle comunità in loghi pubblicitari inventati dalle cosiddette archistar, volti alla promozione delle merci dei committenti.

Le due cose si sono tenute strettamente assieme e sia la politica, sia l’accademia, sia il mondo degli operatori tecnici o economici, chi per incomprensione del fenomeno chi per averlo capito fin troppo bene, si sono ben guardati di parlare. E ora, al di là degli aspetti penali di cui nulla sappiamo e poco ci interessano, la questione di Milano è davanti agli occhi di tutti coloro che vogliono vedere.

Va detto anzi, che oggi ogni città italiana è Milano, indipendentemente dalla correttezza dei singoli e diversi amministratori perché le leggi urbanistiche, che si sono succedute dalla metà degli anni novanta del secolo scorso, hanno distrutto il fare urbanistico e non consentono altri modi di gestione delle città di quelli di cui vediamo oggi le conseguenze.

La cancellazione dei Piani Regolatori delle città e del processo democratico e partecipativo della loro redazione e approvazione, ha spostato tutte le decisioni fondamentali dai luoghi del dibattito democratico e trasparente ai tavoli della contrattazione opaca, una costante strutturale del fare urbanistico attuale. Ma i tavoli della contrattazione non riguardano la maggioranza dei cittadini : sono riservati a coloro che hanno potere, politico o economico, di contrattare.

Per questo è completamente scomparso il dibattito sui destini delle città che animava le comunità urbane nei tempi in cui, come scrive Ida Dominijanni «l’urbanistica era una disciplina progressista, e in versione riformista o rivoluzionaria lavorava a fianco della sinistra, riformista e rivoluzionaria. E la sparizione dell’urbanistica prima, e poi la sua trasformazione in alleata del sistema della rendita immobiliare e finanziaria, è diventato un pezzo non secondario della storia culturale dell’Italia dell’ultimo secolo».

IL CASO DI MILANO poi ci offre un esempio a dir poco grottesco di quanto accade. Chi decide se si fanno torri o altro a Milano e dunque chi bisogna convincere da parte di operatori, tecnici, o politici?: la Commissione per il Paesaggio, un organo consultivo che si esprime, come recita il regolamento «esclusivamente in relazione agli aspetti paesaggistici», formato da soggetti che lavorano a titolo gratuito (perché professionisti qualificati e probabilmente non disoccupati dovrebbero perdere il proprio tempo in quella Commissione?), e che esprimono pareri arbitrari tali da potere essere ribaltati all’occasione.

Il Codice dei Beni Culturali dispone che l’autorizzazione paesaggistica sia responsabilità di uffici con adeguate competenze tecnico-scientifiche e risorse strumentali. La Regione Lombardia, competente ex lege per le autorizzazioni paesaggistiche, ha delegato per esse i Comuni compresa la possibilità di ricorrere ad apposite Commissioni, segnatamente quando trattasi di piccoli comuni che devono unire le loro scarse forze.

DIFFICILE CREDERE che un comune come Milano non abbia al suo interno le risorse e le competenze per gestire come si deve questa funzione: perché mai ha scelto invece di esternalizzarla a una commissione di esperti fatalmente soggetti a non svolgere esattamente con indipendenza la loro funzione? Un “ufficio” esamina e istruisce la pratica, ma non se ne assume la responsabilità essendo essa rimessa a una “commissione esterna” e non intorno a luoghi tecnicamente e giuridicamente abilitati o deputati al confronto politico sulle scelte per la città: la condizione perfetta affinché nessuno sia responsabile!

Che il Pd difenda il proprio sindaco è normale e doveroso, ma che il Pd e le altre forze di sinistra in Consiglio comunale siano da decenni ciechi sul profondo degrado delle modalità di governo delle città dà il segno del livello a cui è giunta la politica in Italia.

* Roberto D'Agostino è stato assessore all’Urbanistica e alla Pianificazione Strategica di Venezia nelle giunte di Masssimo Cacciari e di Paolo Costa

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