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Maryam Rajavi |
Francesca Luci
Più nazione e meno religione, l'abile mossa politica di Khamenei
il manifesto, 1 luglio 2025
Nonostante l’immagine spesso cupa e medievale con cui si presenta, il leader supremo della Repubblica Islamica, Ali Khamenei, ha dimostrato una notevole abilità politica nell’ultima crisi con Stati Uniti e Israele. A pochi giorni dall’inizio del conflitto, molti osservatori lo davano per spacciato, nascosto in un bunker chissà dove, isolato e senza contatti, nel timore che venisse ucciso da infiltrati al soldo del Mossad o colpito da una bomba perforante.
Si diceva che avesse trasferito i suoi poteri a un gruppo ristretto di fedelissimi e che avesse già individuato tre candidati alla successione.
L’ultimo principe ereditario della monarchia lucidava la sua corona di fronte al Muro del Pianto, sognando il ritorno al potere, mentre i Mojahedin, oppositori storici, non vedevano l’ora di spolpare il Paese.
AL POTERE DAL 1989, l’86enne ayatollah continua a esercitare una leadership solida, nonostante l’ostilità di tutte le cancellerie occidentali, in particolare di Washington e Tel Aviv.
Il quadro assume connotazioni incredibili se si pensa che, secondo diversi studi, sondaggi e analisi delle rivolte e dell’affluenza alle urne, ben oltre metà della popolazione non sostiene più l’imposizione della sua linea politica autoritaria. La cosiddetta generazione “Z” esprime apertamente il proprio odio attraverso i social media malgrado divieti e controlli. Ma anche tra coloro che parteciparono alla rivoluzione del 1979 contro la monarchia, il consenso è ormai scarso. I nazional-religiosi lo accusano di aver tradito lo spirito di giustizia sociale della rivoluzione.
KHAMENEI ha sempre perseguito l’obiettivo di trasformare l’Iran in una potenza regionale. Un’ambizione che ha reso inevitabile lo scontro con Usa e Israele. La sua strategia si è basata sulla diffusione della rivoluzione islamica e sull’opposizione all’egemonia occidentale. Khamenei ha sempre evitato un conflitto diretto, seguendo una linea di equilibrio tra provocazione e contenimento. Questo approccio affonda le sue radici nella traumatica guerra Iran-Iraq (1980-1988), che costò la vita a circa 280 mila iraniani. Quel conflitto ha plasmato la cultura strategica del Paese, generando un’avversione radicata verso guerre su larga scala.
Tuttavia, ciò non significa che Khamenei, se costretto, non avrebbe sostenuto una difesa del Paese fino all’ultimo sangue. Al contrario, l’appartenenza al ramo sciita dell’Islam – che riconosce il martirio come atto supremo di fedeltà e sacrificio per la causa della giustizia e della verità – rende una simile posizione quasi naturale. Tuttavia, in un Iran sofferente e ostile verso una leadership percepita come dispotica, un richiamo religioso difficilmente avrebbe potuto fungere da collante nazionale. Il vecchio leader percepisce il forte sentimento nazionale della popolazione, che pone la patria sopra ogni altra priorità e non tollererebbe un’aggressione esterna. Per questo, il richiamo al nazionalismo e all’unità diventa centrale nei discorsi di Khamenei, e la bandiera nera del martirio scompare dagli schermi, sostituita da quella nazionale.
ISRAELE E LE OPPOSIZIONI iraniane della diaspora consideravano concreta la possibilità di una sollevazione di massa, auspicandola apertamente. Sebbene molti iraniani desiderino un cambiamento e la fine del regime, paradossalmente, per molti Israele diventa un nemico nel momento in cui la prima bomba distrugge un’abitazione e uccide civili.
Khamenei sembra vedere il conflitto con l’Occidente come un continuum necessario alla propria sopravvivenza. Tuttavia, come dimostrano i fatti, quando viene superato il limite che minaccia la sicurezza del regime, arrivano decisioni come il cessate il fuoco, non previsto fino alla sua entrata in vigore.
Tutto sommato, l’intero evento bellico, pur colpendo duramente strutture nucleari, ha giovato all’immagine di Khamenei: ha evitato la resa sul nucleare, come voleva Washington; ha ottenuto il vantaggio strategico di presentarsi come Paese aggredito, capace di resistere alla superpotenza mondiale, infliggendo per la prima volta danni all’interno del territorio israeliano, umiliandone la difesa e – non da meno – sedando fortemente il malcontento popolare. Nel suo primo discorso dopo il cessate il fuoco, Khamenei parlava dell’unità dei 90 milioni di iraniani, capitalizzando la devozione popolare come se davvero tutto il Paese fosse unito dietro il suo leader.
CHI PENSAVA che questa leadership fosse giunta al termine, o che la sua ostilità verso l’Occidente e Israele si stesse affievolendo, dovrà ricredersi. Khamenei è l’unico leader che è riuscito a raggiungere un cessate il fuoco con un Paese che non riconosce, Israele, e con un altro con cui non parla direttamente, gli Stati Uniti, attraverso la mediazione di un Paese che aveva appena bombardato: il Qatar!
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