Luigi Manconi
Goffredo Fofi è stato un maestro. Con la m rigorosamente minuscola, per carità. Nulla a che fare con i “venerati maestri” irrisi da Alberto Arbasino; e nemmeno quel Maestro con la m rigorosamente maiuscola, con il quale oggidì si è soliti appellare l’autore di un paio di romanzi e di un saggetto sulla cosmesi “al tempo dei social”; o il regista di un docufilm su gastronomia e intelligenza artificiale: ed eccoli entrambi pronti a tenere una qualche lectio magistralis davanti a un pubblico selezionatissimo.
Fofi è stato un maestro, innanzitutto perché intorno alla metà degli anni Cinquanta conseguì il diploma di maestro elementare, come tanti giovani della provincia italiana. E fu maestro per il rapporto pedagogico che ha avuto con tanti, tantissimi che, nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta, trovarono in lui una capacità di ascolto e di insegnamento che avrebbe inciso profondamente sulla loro formazione.
Fofi era nato nel 1937 e, dunque, durante i movimenti collettivi della fine degli anni Sessanta e dei primi Settanta aveva appena superato la trentina. Aveva giusto quell’età che induceva al sospetto quei segmenti delle nuove generazioni che scoprivano, allora, la militanza politica e la mobilitazione sociale. Jerry Rubin, uno dei protagonisti del movimento Hippie, pronunciò all’epoca quelle parole fatidiche: “Non fidarti di chi ha più di trent’anni”.
Ebbene, molti di quelli che facevano parte dei settori militanti di quella generazione (attenzione: non si trattava di una “intera generazione”, bensì di una parte modesta eppure attivissima) si fidarono di lui. Per tante ragioni che costituiscono l’arte pedagogica di Fofi. Innanzitutto, la sua autorità orizzontale.
Mai ha parlato dall’alto di una cattedra, di una tribuna, di un palco: era sempre in mezzo ai suoi allievi-compagni, convinti o riottosi o anche ostili che fossero. Lui visibilmente più anziano e tuttavia così affine. E questa postura fisica corrispondeva puntualmente a un atteggiamento morale che costituiva un altro tratto peculiare della sua vocazione educativa. Era severo e talvolta intollerante e persino crudele, ma sempre stando fino in fondo dentro alle contraddizioni che denunciava e agli errori che criticava.
Una leggenda su di lui, non troppo estranea alla realtà, dice che fosse solito esaltare il primo libro o il primo film o la prima opera teatrale di un autore esordiente, per poi stroncare la seconda prova. Anche in questo si scorge una finalità educativa: intuiva il talento di un giovane, lo sosteneva, lo promuoveva e spesso lo recensiva entusiasticamente perché voleva offrirgli la migliore delle opportunità. Ma, poi, ne evidenziava i limiti e i difetti perché voleva che quello scrittore o quel regista non “si accontentassero”, non riposassero sugli allori, non precipitassero nel narcisismo autorale.
Fatto sta che, nel corso di circa settant’anni ebbe la curiosità e l’intuito e l’intelligenza, per segnalare, prima di chiunque altro, una lunghissima teoria di “artisti da giovani”: da Enrico Palandri a Salvatore Piscicelli, da Alessandro Baricco a Fabrizia Ramondino, da Filippo Timi a Nicola Lagioia, dal Teatro delle Albe a Pietro Marcello, da Silvio Orlando a Elio De Capitani. Da Clara Sereni a Mario Martone. E poi Roberto Saviano, Nadia Terranova, Salvatore Mannuzzu, Alberto Capitta. Ma l’elenco, davvero, potrebbe essere senza fine.
Era, si può dire, una sua ossessione come quella di utilizzare e di far utilizzare gli alias: a me impose due o tre pseudonimi affinché “non mi montassi la testa”. Ma ciò che rappresenta il suo connotato più peculiare di formatore della gioventù era la sua capacità di ripartire da capo sempre. Dalle periferie, da tutti i sud, da ciò che è piccolo e umile. E dalla Mensa dei Bambini Proletari, creata nel 1973 in una Napoli sfigurata, dove torna il colera.
A diciotto anni lui, nato a Gubbio, è in Sicilia con Danilo Dolci; a 88 anni è a Lamezia Terme in una comunità guidata da un prete: uno di quei tanti sacerdoti, irrequieti o ribelli che incontrò, dopo aver letto con passione Ernesto Bonaiuti: da don Zeno, fondatore di Nomadelfia – un’importante esperienza pastorale e sociale di cui non si parla più – a don Giacomo Panizza di progetto Sud. E altri eretici e disobbedienti, da Aldo Capitini a Bianca Guidetti Serra, ad Alex Langer, ai teologi e alle teologhe valdesi.
La sua autorità orizzontale si manifestò anche nel suo rapporto con i movimenti extraparlamentari degli anni Settanta, ai quali mai partecipò direttamente, ma che sempre accompagnò con sguardo curioso, anche nei momenti di più acuto disaccordo, senza mai abbandonarli a sé stessi e alla loro involuzione. Mai quella sudditanza psicologica che pure contraddistinse molti intellettuali dell’epoca. Così, all’interno di una cultura nazionale di cui Umberto Saba già nel 1945 evidenziava la tendenza al fratricidio, Fofi seppe essere fratello maggiore: fraterno nella condivisione di idee e di sentimenti, senza mai rinunciare alla responsabilità che comportava l’essere “maggiore”.
Passava per un “grande antipatico” in ragione della sua frequente durezza, per poi scoprire quanto fosse stimato e voluto bene da persone in apparenza lontanissime come Franca Faldini, la vedova di Totò, Alba Rohrwacher, Sergio Bruni, Vinicio Capossela, fino a Ernesto Galli della Loggia. Quest’ultimo firmò, insieme al direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini e altri, la richiesta che gli fosse riconosciuto il vitalizio Bacchelli, ma quando un dirigente della Prefettura lo interrogò su quale fosse il suo stato economico dichiarò che non aveva bisogno di nulla. Nonostante – pochi lo sapevano – vivesse in una condizione assai simile alla povertà. Cosa che non avrebbe mai riconosciuto in quanto egli era – lo giuro – felice di vivere nella massima sobrietà: “mi servono pochissime cose”, e cucinava da sé abbondanti minestroni e verdure bollite.
Mi accorgo di aver scritto appena poche cose di ciò che di Goffredo ho conosciuto, e tantissime altre vorrei aggiungere. Ma mi preme soprattutto evidenziare il suo ruolo di organizzatore culturale: la creazione di tante riviste quanto nessun altro in Italia (da Ombre Rosse a Quaderni Piacentini, passando per Linea d’Ombra, Lo Straniero e Gli Asini).
L’invenzione di libri e di collane editoriali e, soprattutto, una tessitura instancabile di relazioni e di iniziative comuni. Attraverso un infaticabile percorso per le tratte ferroviarie di tutta Italia, tendendo insieme il Nord e il Sud e scoprendo, qui e là, un giovane artista o un operatore sociale particolarmente colto.
C’è un ultimo tratto pedagogico che non va scordato: nelle sue incessanti rapporti con singoli e gruppi di tutta Italia, Fofi non rinunciava a una sua antica consuetudine, oggi trascurata da quasi tutti: il consigliare libri e autori (inclinazione condivisa con l’amica Grazia Cherchi): elenchi su elenchi di scrittori poco noti o rimossi. Credo che si debba a lui la vendita di almeno metà delle copie di "Casa d’altri" di Silvio D’Arzo. Ma i venticinquenni degli anni Settanta devono a lui se hanno potuto capire da subito la grandezza de "La Storia" di Elsa Morante. Il giornalismo politico di Romano Bilenchi e la metafisica carnale di Marco Ferreri.
Infine, c’è il Fofi critico letterario e critico cinematografico, di cui altri dovranno scrivere. Chi, come me, non ha alcuna competenza, può ricordare solo il proprio sbalordimento davanti a quel patrimonio immenso di nomi, date e biografie; titoli di coda, truccatori e tecnici del suono; Promo, locandine e parrucchieri. Per lui, in questo dopoguerra, il cinema era stato davvero il “libro del mondo”: più che una rappresentazione perfetta di esso, il suo inveramento, laddove realtà e fantasia si possono magnificamente incontrare. In queste ore si ricorderà la sua “rivalutazione” di Totò. E quella, meno nota, di Nino D’Angelo.
È la cartina di tornasole del valore del maestro di Gubbio: solo una grandissima cultura poteva consentire un esercizio critico così raffinato. E, soprattutto, una interpretazione della categoria di popolare che non cede nemmeno per un attimo alla demagogia. Il popolo, abitualmente sacralizzato o disprezzato, torna a essere corpo vivo e potenza espressiva. Ricominciare da capo – è il sottotesto – da dove gli umili piangono e ridono.
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