Giovanna Taverni
Camus e la luce di Paestum
Domani, 1 luglio 2025
Soprattutto d’estate, quando siamo avviliti dalla calura e meditiamo di fuggire, capita di inciampare su pagine di taccuini di viaggio che ci dirottano altrove. A volte le pagine nascondono storie poco note. Tra i taccuini e i diari di appunti che Albert Camus ha scritto per quasi tutta la vita, c’è la storia di un suo mirabolante viaggio a Paestum.
Nell’inverno del 1954 lo scrittore franco-algerino arriva in Italia per una serie di conferenze: Camus si sposta tra le città di Torino, Genova, Roma, ma ha in serbo un progetto più intimo per il suo viaggio italiano: andare a Paestum con Nicola Chiaromonte per vedere i templi greci.
I due amici si accordano già in estate attraverso uno scambio di lettere: vogliono avventurarsi nell’antica città per vivere insieme il sogno greco, nessuno dei due era ancora mai stato in Grecia: Camus aveva organizzato un viaggio nel 1939, poi era scoppiata la guerra e ci aveva rinunciato.
Paestum diventa allora una sorta di segreta aspirazione per due spiriti fraterni e lontani. Chiaromonte ci è già stato, ma è il desiderio di tornare con l’amico e condividere l’esperienza ad entusiasmarlo.
Camus insegue la luce, quella delle mattinate della sua infanzia in Algeria, una luce che a Parigi non trova. Ogni città ne ha una propria e con essa la sua fatalità. Quando a inizio dicembre arriva in treno a Roma, Camus sembra commosso dalla luce romana «rotonda, brillante, morbida», e dai canti degli uccelli tra i ruderi. Il pensiero meridiano e la nostalgia mediterranea orientano però lo scrittore a spingersi ancora più a Sud, verso luci più arancioni, alla ricerca della primavera di Tipasa, dell’estate di Algeri, del «gran libertinaggio della natura e del mare».
Nei suoi appunti di viaggio, diario esistenziale e girovago dello scrittore, Camus annota giorno per giorno le tappe che lo condurranno a Paestum. A volte il suo stile è telegrafico: «Giornata grigia. Febbre. Resto in camera. La sera vedo Moravia».
Ancora a Roma gli viene la febbre, una febbre tenace: quasi dispera di poter continuare il viaggio. L’indomani però parte lo stesso, scende a Napoli insieme a Nicola Chiaromonte e Francesco Grandjacquet, l’attore protagonista di Roma città aperta. I tre compagni girano per le strade di Napoli, osservano processioni, balconi e madonne, e la febbre non passa, ma non è la peste e allora Camus lascia scorrere le ore e aspetta che passi. Ma non passa.
Il mattino dell’8 dicembre Camus si sveglia rassegnato: la febbre è così resistente che si convince di non poter più raggiungere Paestum; dovrà tornare a Parigi senza aver visto i templi, esiliato dalla Grecia e dalla sua fantasticheria. «C’è qualcosa tra me e i templi greci. All’ultimo momento interviene sempre qualcosa che mi impedisce di raggiungerli». In un certo senso Camus si arrende al caso. Poi l’assurdo. Il giorno dopo miracolosamente la febbre scompare.
Camus, Chiaromonte e Grandjacquet saltano in macchina e partono in direzione meridionale: passano per Sorrento, ammirano il giardino di Cocumella, pranzano ad Amalfi, si scambiano i posti alla guida, sfrecciano sulle strade, attraversano zone industriali e finalmente arrivano a Paestum all’ora del tramonto. Ed ecco che il sogno deve affrontare la realtà: sarà Paestum all’altezza?
«Qui il cuore ammutolisce», scrive Camus e pare confermare che a Paestum qualcosa ha trovato. Qualche riga dopo scrive così: «L’ora, il volo nero dei corvi, i rari canti d’uccelli, lo spazio tra il mare e le colline, e queste meraviglie calde e precise, si fissano nella mente, e tutto questo, nella mia stanchezza e nella mia emozione, mi porta a due dita dal piangere».
Per gran parte della sua esistenza Albert Camus è andato in cerca di una riconciliazione con la libertà dell’infanzia. Sotto la luce arancio che cade al tramonto sui templi di Paestum, con le narici soffocate dalla merda dei bufali, in quella distesa di ruderi in mezzo alla pianura, con le mura greche da scavalcare come i bambini, poco più in là il mare, Camus ritrova una parte d’infanzia.
Gira e ammira tutto quanto, i corvi in volo sopra il tempio di Poseidone, le «colonne di spugna rosa», i canneti sulla strada verso la spiaggia, il mare nudo, la natura. La notte s’addormenta cullato dal bianco della sua camera da letto. Ha freddo ma è felice. «Difficile staccarmi da questi luoghi, i primi dopo Tipasa dove io abbia conosciuto un abbandono di tutta la mia persona», scrive prima di ripartire.
Si racconta che il pittore Mark Rothko, passeggiando tra gli scavi di Paestum, si disse sorpreso di avere scoperto di aver dipinto templi greci tutta la vita senza saperlo. Bisogna avere una certa fantasia per immaginare le rovine dei templi guardando le sue tele – nero su grigio, viola verde e rosso, blu diviso da blu, untitled blue, untitled red – ma Rothko stava parlando di qualcosa che teneva nelle interiora, una sensazione più primordiale e astratta, la stessa che deve aver spinto Camus a mettersi a cercare la Grecia, e così pure Nicola Chiaromonte, intellettuale, resistente, fuggiasco, venuto dalla Magna Grecia.
Lui e Chiaromonte: due odissei
Come due odissei sballati in cerca di un’Itaca, i due amici stringono un legame antico e giovanissimo attraverso un viaggio che si ripeterà per sempre nei quaderni e attraverso le parole, perché ciò che è scritto resta (e non è sempre detto che sia un bene).
Ripartendo da Paestum, Camus, Chiaromonte e Grandjacquet risalgono la costa campana e fanno una sosta a Pompei: dalla Grecia a Roma e senza ritorno. «Interessato, ma mai commosso», annota Camus, che arrivato a questo punto del viaggio confessa a un margine di quaderno di avere sempre preferito la lirica greca alla poesia latina, l’ingenuità alla forza. Dopodiché è ora di tornare a casa. Albert Camus risale in macchina con Francesco Grandjacquet verso Roma. La febbre è passata del tutto.
Qualche giorno dopo, da Parigi, Camus scrive ancora a Chiaromonte. Nelle sue lettere lo chiama Nicolas, alla francese. «Ho ancora Paestum nel cuore», gli scrive, «la notte sulla spiaggia e le bufale immobili nel buio. Ci sono luoghi come questi, che danno nutrimento a lungo».
Nicola Chiaromonte non lascia passare tanti giorni che gli risponde: «Anche a me, Paestum – e la sua compagnia – hanno fatto bene. Innanzitutto, sentirci più amici che mai, con le nostre conversazioni e con tutto ciò che vedevamo insieme. In secondo luogo – e questo concerne soprattutto Paestum – essere a contatto con quella realtà solitaria, fiera e senza tempo che la Grecia ci indica con tanta fermezza».
È anche in questi stralci di lettere scritte a posteriori, da due paesi, dopo la sbornia del viaggio italiano e i giri e gli scavalcamenti, che si trova il senso di questa ossessa ricerca dello spirito greco che ha legato i due amici sotto una luce arancio nel bel mezzo dell’inverno millenovecento cinquantaquattro.
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