venerdì 4 luglio 2025

Genet, un grande scrittore


Simone de Beauvoir
La force de l'âge, 1960
traduzione di Bruno Fonzi

Da diversi mesi sentivamo parlare di un poeta sconosciuto che Cocteau aveva scoperto in prigione e che considerava come il più grande scrittore dell'epoca; per lo meno, così l'aveva qualificato in una lettera indirizzata, nel luglio 1943, al presidente della XIX sezione penale davanti alla quale doveva presentarsi a giudizio Jean Genet, già condannato nove volte per furto. Barbezat intendeva pubblicare nell'"Arbalète" un frammento delle sue opere in prosa e qualche sua poesia; sua moglie, Olga la bruna, andava ogni tanto a trovarlo in prigione; da lei avevo appreso la sua esistenza e qualche particolare della sua vita. Era stato raccolto appena nato dalla pubblica assistenza e affidato a una famiglia di contadini; la maggior parte della sua infanzia era trascorsa nelle case di correzione; aveva compiuto una quantità di furti e scassi di qua e di là, ed era pederasta. In prigione, aveva letto; aveva composto versi e poi scritto un libro. Olga Barbezat diceva di lui cose meravigliose. Io mi lasciavo abbagliare meno che in gioventù; il delinquente di genio mi sembrava un personaggio un po' convenzionale; conoscendo la passione di Cocteau per lo straordinario e per la scoperta, sospettavo che esagerasse le cose. Pure, quando apparve nell'"Arbalète" l'inizio l'inizio di Notre-Dame-des-Fleurs, ne fummo presi; Genet aveva subito visibilmente l'influenza di Proust, di Cocteau, di Jouhandeau, ma aveva una voce sua, inimitabile. Era ben raro, adesso, che una lettura potesse rinfrescare la nostra fede nella letteratura: quelle pagine ci fecero riscoprire il potere delle parole. Cocteau aveva visto giusto: era sorto un grande scrittore. 
Avevamo saputo che era uscito di prigione. Un pomeriggio di maggio, mi trovavo al Flore con Sartre e Camus, si avvicinò al nostro tavolo: "Siete voi Sartre?", domandò bruscamente. I capelli rasati, lo sguardo di sfida, trovammo che aveva l'aria di un duro. Si sedette, ma si trattenne solo un momento. Tornò, e cominciammo a vederci assai spesso. Un duro, lo era sul serio; trattava senza riguardi questa società dalla quale era stato escluso fin dai suoi primi vagiti. Ma i suoi occhi sapevano sorridere, e sulla bocca gli si attardava lo stupore dell'infanzia; era facile parlare con lui: ascoltava, rispondeva. Mai lo si sarebbe preso per un autodidatta; nei suoi gusti, nei suoi giudizi, v'era l'audacia, la parzialità, la disinvoltura di coloro per i quali la cultura è sottintesa, e un notevole discernimento. ... Alla base della sua intesa con Sartre vi fu questa libertà che nulla poteva intimidire, e la loro comune avversione per ciò che poteva impacciarla: la nobiltà d'animo, le morali eterne, la giustizia universale, i paroloni, i grandi principi, le istituzioni e gli idealismi. ...
Quando facemmo la sua conoscenza stavamo progettando una nuova fiesta; io l'avrei volentieri invitato, ma Sartre mi obiettò che non ci si sarebbe divertito; effettivamente, perdersi per qualche ora nell'alcool e nel frastuono era cosa che si addiceva a dei piccoli borghesi solidamente sistemati in questo mondo; Genet non aveva alcuna inclinazione per queste dissipazioni: lui si era perduto prima, e ci teneva a sentirsi sotto i piedi la terraferma.

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