La nobile Clara e il borghese Heinrich, spiriti inquieti in un mondo che non li comprende, decidono di stare insieme a dispetto di ogni regola, unendosi in un matrimonio segreto contro la volontà del padre di lei. Innamorati e felici, gli sposi vivono nascosti in un’angusta soffitta, nutrendosi di passione e sogni, assorti nella beatitudine di un dolce conversare, rinunciando al superfluo per godersi la vita nella sua poetica essenzialità. Ma l’inverno impietoso e la miseria spingono Heinrich a uno stravagante espediente che è anche un atto estremo e irrevocabile: bruciare la scala che li collega al mondo, scegliendo l’amore come unico rifugio, pur sapendo di condannarsi all’isolamento…
Scritta nel 1839 e considerata dallo stesso autore una delle sue opere più riuscite, Il superfluo della vita è una novella delicata e luminosa, piena di arguzia e candore, in cui l’incanto della fiaba avvolge il mistero della vita, sospesa tra presente e passato, tra doveri e diletti, tra sogno e realtà.
Ludwig Tieck (Berlino, 1773-1853) è stato un influente scrittore, traduttore, poeta e critico letterario tedesco, figura di spicco del Romanticismo. Nel 1799 diede vita insieme a Novalis, i fratelli Schlegel, Schelling e Fichte al circolo romantico di Jena, un punto di riferimento per la letteratura dell’epoca. Tra le sue opere più significative si annoverano i romanzi Storia del signor William Lovell (1796) e Le peregrinazioni di Franz Sternbald (1798), il racconto fiabesco Il biondo Eckbert (1797), le fiabe teatrali Il gatto con gli stivali (1797) e Il mondo alla rovescia (1798), le novelle Il fidanzamento (1823) e Il superfluo della vita (1839).
Paola Capriolo, nata a Milano nel 1962, è autrice di numerosi libri di narrativa, da La grande Eulalia (Feltrinelli 1988) a Irina Nikolaevna o l’arte del romanzo (Bompiani 2023). Le sue opere sono tradotte in molti Paesi. Ha scritto saggi su Benn, Rilke e Thomas Mann e tradotto per diversi editori testi di Goethe, Kleist, Keller, Stifter, Schnitzler, Thomas Mann e Kafka. Dal 2018 fa parte della giuria del Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria.
Incipit
In un inverno tra i più rigidi si era creato verso la fine di febbraio un bizzarro disordine, sul cui sorgere, svilupparsi e placarsi si diffusero nella capitale le voci più strane e contraddittorie. È naturale che, quando tutti vogliono parlare e raccontare senza conoscere l’oggetto del loro discorso, anche un fatto comune assuma le tinte della favola. L’avventura si era svolta in una delle vie più anguste della periferia, che è assai popolata. Ora si diceva che un traditore e ribelle era stato scoperto e arrestato dalla polizia, ora che un ateo, intenzionato in combutta con altri miscredenti a svellere il cristianesimo dalle radici, dopo un’ostinata resistenza si era arreso alle autorità e ora sarebbe rimasto sottochiave finché, nella solitudine, non avesse trovato princìpi e convinzioni migliori. In precedenza però, ancora nel suo appartamento, si era difeso con una vecchia doppietta, anzi, addirittura con un cannone, e prima che si arrendesse era scorso del sangue, sicché tanto il concistoro quanto il tribunale penale avrebbero chiesto di sicuro la sua condanna a morte. Un calzolaio politicamente impegnato pretendeva di sapere che l’arrestato era un emissario legato dai rapporti più stretti, come capo di numerose società segrete, a tutte le personalità rivoluzionarie d’Europa: aveva retto tutti i fili a Parigi, a Londra e in Spagna, così come nelle province orientali, ed era sul punto di far scoppiare nelle Indie più remote un’immane rivolta che poi, al pari del colera, si sarebbe propagata in Europa per far divampare in chiare fiamme ogni materiale incendiabile. Quanto risultava assodato era che in una piccola casa avevano avuto luogo dei disordini, era stata chiamata la polizia, il popolo aveva schiamazzato, erano stati notati uomini in vista che si immischiavano nella faccenda, e dopo qualche tempo tutto era tornato tranquillo senza che si capisse il senso dell’accaduto. Nella casa stessa era impossibile non cogliere certi segni di devastazione. Ciascuno interpretò la cosa come gli dettavano l’umore o la fantasia. Dopo di che, carpentieri e falegnami ripararono i danni. In quella casa aveva abitato un uomo che nel vicinato nessuno conosceva. Era uno studioso? Un politico? Uno del posto? Un forestiero? Nessuno, per quanto accorto, sapeva dare notizie soddisfacenti in proposito. Certo è che questo sconosciuto conduceva una vita molto tranquilla e ritirata, non lo si vedeva mai a passeggio o in un luogo pubblico. Non era an- 19 cora vecchio, aveva modi compiti e la sua giovane moglie, che si era votata con lui a quella solitudine, poteva essere definita una bellezza. Si era intorno a Natale quando questo giovane uomo, nella sua stanzetta, seduto vicinissimo alla stufa, parlò così alla moglie: “Tu sai, carissima Clara, quanto io ami e ammiri il Siebenkäs del nostro Jean Paul; ma come se la caverebbe il suo umorista se si trovasse nella nostra situazione, per me resta un enigma. Non è vero, amor mio, che ora tutti i mezzi sembrano esauriti?”. “Certo, Heinrich” rispose lei sorridendo e insieme sospirando, “ma se tu, che per me sei l’essere più caro, rimani allegro e sereno, accanto a te non posso sentirmi infelice”. “Infelicità e felicità sono solo parole vuote” rispose Heinrich. “Quando tu mi seguisti dalla casa dei tuoi genitori, quando per amor mio abbandonasti ogni scrupolo con tanta generosità, allora il nostro destino fu deciso per tutta la vita. Amare e vivere era ormai il nostro motto: come saremmo vissuti, poteva esserci del tutto indifferente. Perciò ancora adesso vorrei domandare con cuore saldo: chi mai, nell’Europa intera, è così felice come io posso proclamarmi a pieno titolo e con tutta la forza del mio sentimento?”. “Manchiamo quasi di tutto” disse lei, “ma non di noi stessi, e quando strinsi il mio patto con te sapevo bene che non eri ricco; a te non era ignoto che 20 non avrei potuto portare nulla con me dalla mia casa paterna. La povertà è dunque divenuta una sola cosa con il nostro amore, e questa stanzetta, la nostra conversazione, il contemplarci a vicenda figgendo lo sguardo negli occhi amati, è la nostra vita”. “Giusto!” esclamò Heinrich, e dalla gioia balzò in piedi per abbracciare con impeto la bella. “Pensa quanto saremmo disturbati adesso, eternamente divisi, soli e distratti tra la folla della gente elegante, se tutto si fosse svolto in modo normale! Quali sguardi, là, quali discorsi, strette di mano, pensieri… Si potrebbero addestrare e ammaestrare animali o persino marionette perché facciano gli stessi complimenti e pronuncino gli stessi luoghi comuni. E dunque, mio tesoro, noi siamo qui come Adamo ed Eva nel nostro paradiso, dal quale a nessun angelo viene la superflua idea di scacciarci”. “L’unico problema” disse lei con voce un po’ flebile, “è che la legna sta finendo, e questo inverno è il più rigido tra quanti ne ho conosciuti finora”. Heinrich rise. “Vedi” disse, “rido per pura cattiveria, ma il mio non è ancora il riso della disperazione: esprime soltanto un leggero imbarazzo, dato che non so assolutamente come potrei procurarmi del denaro. Il modo però bisogna trovarlo, poiché è impensabile che noi si debba intirizzire con un amore così ardente, con un sangue così caldo! Assolutamente impossibile!”. Lei gli sorrise con affetto e replicò: “Se solo, come la Lenette di Jean Paul, io avessi portato con me qualche vestito da vendere, o se qui in giro, nel nostro piccolo ménage domestico, avessimo qualche bricco o mortaio d’ottone superfluo o qualche paiolo di rame, allora sarebbe facile trovare una soluzione”. “Eh già” disse lui in tono baldanzoso, “se fossimo milionari come quel Siebenkäs, non sarebbe una grande impresa procurarsi la legna e persino del cibo migliore”. Lei guardò verso la stufa dove il pane bolliva nell’acqua per fornire il più magro dei pranzi, che sarebbe poi stato concluso da un po’ di burro come dessert. “Mentre tu” disse Heinrich, “sovrintendi alla nostra cucina e impartisci al cuoco gli ordini necessari, io mi dedicherò un poco ai miei studi. Come mi rimetterei volentieri a scrivere, se non avessi già dato fondo a inchiostro, carta e pennini… Mi piacerebbe anche leggere qualcosa, qualsiasi cosa, se solo avessi ancora un libro”. “Devi pensare, mio caro” disse Clara lanciandogli un’occhiata maliziosa. “Voglio sperare che ai pensieri tu non abbia ancora dato fondo”. “Cara sposa” replicò lui, “il nostro ménage è così vasto e grandioso da richiedere tutta la tua attenzione: non ti distrarre, per non creare scompiglio nella nostra economia. E poiché adesso mi reco nella mia biblioteca, da questo momento in poi lasciami tranquillo: devo infatti ampliare le cognizioni e dare nutrimento allo spirito”. “È unico!” disse la moglie a se stessa ridendo allegramente. “E come è bello!”. “Leggerò dunque di nuovo il mio diario” annunciò Heinrich, “che scrissi un tempo, e mi interessa studiarlo a ritroso, cominciando dalla fine e preparandomi così a poco a poco per l’inizio, in modo da comprenderlo meglio. Ogni sapere autentico, ogni opera d’arte o pensiero profondo deve sempre richiudersi in un cerchio e unire nel modo più intimo principio e fine, come il serpente che si morde la coda – un simbolo dell’eternità, dicono altri; un simbolo dell’intelletto e di tutto ciò che è giusto, sostengo io”. Lesse l’ultima pagina, ma a mezza voce: “Narra una favola che un pericoloso delinquente, condannato alla morte per fame, divorasse a poco a poco se stesso: in fondo è semplicemente la favola della vita e di qualsiasi uomo. Lì alla fine rimanevano soltanto lo stomaco e i denti, a noi rimane l’anima, come viene chiamato l’incomprensibile. Anch’io però mi sono spogliato e consumato in modo simile quanto all’aspetto esteriore. Sarebbe quasi ridicolo che io possedessi ancora un frac con annessi e connessi, dal momento che non esco mai. Al compleanno di mia moglie le comparirò dinnanzi in gilet e maniche di camicia, poiché sarebbe sconveniente corteggiare una persona introdotta a corte con addosso un pastrano alquanto logoro”. “Qui si concludono la pagina e il libro” disse Heinrich. “Tutto il mondo capisce che i nostri frac sono un abbigliamento stupido e privo di gusto, tutti ne biasimano la bruttezza, ma nessuno prende la cosa tanto sul serio, come me, da sbarazzarsi completamente di quel ciarpame. Ormai non saprò neppure dai giornali se altri esseri pensanti seguiranno il mio coraggioso esempio regolandosi allo stesso modo”. Voltò pagina e lesse quella precedente: “Si può vivere anche senza tovaglioli. Se penso a come il nostro stile di vita si sia ridotto sempre più a surrogati, palliativi e rattoppi, concepisco un vero e proprio odio per il nostro secolo avaro e spilorcio e prendo la decisione, poiché ne ho la possibilità, di vivere alla maniera dei nostri molto più generosi progenitori. Questi miserabili tovaglioli, come persino gli inglesi di oggi rammentano ancora con disprezzo, evidentemente sono stati inventati all’unico scopo di risparmiare la tovaglia. Se è dunque un segno di liberalità non badare alla tovaglia, io mi spingo ancora oltre dichiarando superflua anche quella, insieme con i tovaglioli. L’una e gli altri saranno venduti e mangeremo sulla tavola ripulita all’uso dei patriarchi, all’uso… mah? Di quali popoli? Non ha importanza! Molta gente mangia persino senza tavola. E come ho detto, non sgombro la casa da tutto ciò per cinica parsimonia, secondo l’esempio di Diogene, ma al contrario, godendo della mia agiatezza, solo per non trasformarmi in uno scialacquatore, come l’epoca attuale, a forza di fare assurde economie”. “Hai ragione” disse la moglie sorridendo; “eppure allora vivevamo ancora scialacquando, grazie al ricavato di quella roba superflua. Spesso avevamo addirittura due portate”. Ora i due sposi siedono a consumare il più misero dei pasti. Chi li avesse visti avrebbe dovuto reputarli degni d’invidia, tanto erano allegri, addirittura euforici a quel semplice desco. Quando la zuppa di pane fu finita Clara, con aria maliziosa, andò a prendere dalla stufa un piatto coperto e mise davanti allo sposo stupefatto anche qualche patata. “Guarda!” esclamò lui. “Questo si chiama, quando uno ha studiato a sazietà i suoi numerosi libri, preparargli per giunta una lieta sorpresa! Anche questo buon frutto della terra ha contribuito alla grande rivoluzione dell’Europa. Viva l’eroe Walter Raleigh!”. – Brindarono con i bicchieri dell’acqua, e Heinrich si assicurò che l’entusiasmo non avesse prodotto neppure un’incrinatura nel vetro. “Per questa estrema raffinatezza” disse poi, “per questo servirci dei nostri bicchieri di tutti i giorni, i più ricchi principi dell’antichità ci avrebbero invidiati. Dev’essere noioso bere da un boccale d’oro, specie un’acqua così bella, limpida e sana. Nei nostri bicchieri invece il fluido rinfrescante ondeggia così gaio e trasparente, così tutt’uno con il bicchiere, che si è tentati di credere di stare assaporando l’etere stesso ridotto in forma liquida. – Il nostro pranzo è terminato: abbracciamoci”. “Tanto per cambiare” disse lei, “potremmo anche spingere la nostra sedia davanti alla finestra”. “Be’, spazio ne abbiamo” disse il marito, “un vero ippodromo, se penso alle gabbie che Luigi XI fece costruire per i suoi sospettati. È incredibile quale fortuna rappresenti già il fatto di poter sollevare a piacimento un braccio o un piede. È pur vero, se penso alle aspirazioni che sorgono in certi momenti nel nostro spirito, siamo comunque in catene: la psiche è la pania che ci tiene incollati e dalla quale non possiamo liberarci volando via una volta che, il Cielo sa come, ci siamo balzati dentro, e noi e la pania siamo a tal punto una cosa sola che a volte consideriamo quella prigione il nostro io migliore”. “Non essere così serio” disse Clara prendendogli la bella mano con le sue dita morbide e affusolate, “guarda piuttosto con che bizzarri fiori di ghiaccio il gelo ha ornato le nostre finestre. Mia zia sosteneva sempre che grazie a questi vetri coperti da uno spesso strato di ghiaccio la stanza diventa più calda che se le lastre fossero sgombre”. “Non è impossibile” rispose Heinrich; “ma non rinuncerei al riscaldamento basandomi su questa convinzione. Alla fine il ghiaccio sulle finestre potrebbe diventare così spesso da restringerci la stanza, e ci crescerebbe intorno, sino a sfiorarci la pelle, quel famoso palazzo di ghiaccio di Pietroburgo. Noi però preferiamo vivere da borghesi, e non come i principi”. “Ma questi fiori” esclamò Clara, “come sono meravigliosi e vari nei loro disegni! Si crederebbe di averli già visti tutti nella realtà, per quanto poco si sia in grado di dar loro un nome. E vedi, spesso l’uno copre l’altro, e la grandiosa vegetazione sembra crescere ancora, mentre ne parliamo”. “Chissà” domandò Heinrich, “se i botanici hanno già osservato questa flora, se l’hanno disegnata e riportata nei loro libri dotti? Chissà se questi fiori e queste foglie si ripresentano secondo certe regole o si trasformano sempre di nuovo a capriccio? Il tuo alito, il tuo dolce respiro ha evocato questi spiriti floreali, revenants di una stagione estinta, e mentre tu ti immergi in dolci e piacevoli pensieri e fantasticherie, qui un genio umoristico, con funebre grafia, trascrive le tue intuizioni e i tuoi sentimenti in spettri e larve di fiori componendo un effimero libro di famiglia, dove io posso leggere quanto mi sei fedele e devota, quanto pensi a me, sebbene io ti sieda accanto”. “Molto galante, egregio signore!” replicò Clara con grande cordialità. “Lei potrebbe dunque definire questi fiori di ghiaccio istruttivi e ingegnosi, come gli schizzi fin troppo colti ed eleganti che possediamo a illustrazione delle opere di Shakespeare”.

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