martedì 29 aprile 2014

Pensieri critici sulla santità

Marco Albertaro
Sulle recenti santificazioni

Molti si sono indignati per la santificazione di Giovanni Paolo II, tirando fuori i suoi rapporti con Pinochet, la vicenda Orlandi, lo IOR e mille altre "colpe" del papa polacco argomentando così l'inaccettabilità della scelta di papa Francesco. In realtà tutte queste critiche, mosse spesso con sentimenti anticlericali, patiscono un vizio di fondo: esse, implicitamente, legittimano l'autorità della Chiesa perché danno per scontata e per legittima la pratica della santificazione. Nessuno infatti ha detto una parola su Giovanni XXIII, evidentemente ritenuto legittimamente santificabile anche dai più anticlericali.
Credo che le istituzioni ecclesiastiche non debbano essere criticate soltanto quando si ritiene che sbaglino ma debbano essere criticate per il fatto stesso che esistono e per il potere materiale che esercitano. Non ci deve interessare chi la Chiesa fa santo ma il fatto che la Chiesa faccia i santi. Soltanto una critica totale al potere del papato e a tutte le sue diramazioni periferiche può contribuire a formulare una critica del potere in quanto tale. Riscoprire un autentico e radicale anticlericalismo, questo deve fare la sinistra.

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Il post pubblicato dall'amico Albeltaro sulla sua pagina Facebook ha suscitato vari commenti. Quello che segue è, a mio avviso, il più interessante. (giovanni carpinelli)

Lorenzo Ettorre

Perdonami. Pretendere che la Chiesa non debba neppure avere la libertà di fare santi è quantomeno illiberale, oltre che presuntuoso. Liberissimi di non credere e liberissimi di cercare la propria felicità in ciò che si ritiene più opportuno, ma sentirsi in diritto di dire agli altri cosa è giusto o non giusto che facciano, non è utile: a sè prima che agli altri. Anche perché milioni di fedeli che hanno seguito quell'evento non possono essere liquidati dicendo che sono banali e irrazionali sognatori: troppo facile mettersi a posto la coscienza così. Tra di essi ci sarà pure qualcuno che ragiona, non credete? Quanto ai due nuovi santi, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono accomunabili per un motivo molto semplice: non erano politici ma uomini che hanno testimoniato incessantemente che la vita non la compie la politica, che essa ha fallito perché per sua natura non sa estinguere la sete di giustizia e verità che pure contribuisce a far sorgere. La vita la compie una Presenza viva che cambia l'uomo dal di dentro, e con esso - essa sì - cambia la storia. Per questo non credo che la sinistra debba riscoprire un autentico e radicale anticlericalismo per risorgere - già Togliatti aveva capito che questo era inutile, oltre che dannoso - ma deve provare ad essere originale in se stessa e portare avanti i propri ideali senza combattere gli altri per "esistere". Ne è antropologicamente e storicamente capace? Questo credo sia il punto.

Michel Foucault in margine

Paolo Vernaglione
Un'opera che sfida lo spirito dominante del tempo
il manifesto, 29 aprile 2014

A trent’anni dalla scom­parsa di Michel Fou­cault, il suo pen­siero rimane vit­tima dello spi­rito dei tempi e la testi­mo­nianza della sua opera fatica a mani­fe­starsi: quando lo fa, nell’epoca dei saperi asser­viti al mer­cato, non può che essere nella moda­lità ete­ro­dossa e idio­sin­cra­tica in cui quel pen­siero e quell’opera sono stati pro­dotti. Misu­rare que­sto scarto è ciò che si pro­pon­gono i tre incon­tri semi­na­riali, il primo dei quali si è svolto lo scorso 28 aprile, e a cui segui­ranno le gior­nate del 5 e del 12 mag­gio, presso il Dipar­ti­mento di Filo­so­fia della «Sapienza» di Roma (via Carlo Fea 2, aula XI, ore 17,30).
Il titolo dell’iniziativa è Michel Fou­cault: il pre­sente come ere­dità (calen­da­rio sul sito «Mate­riali Fou­caul­tiani» e «Sofia​Ro​ney​.org»). Rela­tori e ospiti sono: Ste­fano Catucci, Daniele Loren­zini, Ora­zio Irrera, Mar­tina Taz­zioli e Laura Cre­mo­nesi, espo­nenti di una gene­ra­zione di ricer­ca­tori che dedica a Fou­cault la pro­pria volontà di sapere.
Ste­fano Catucci, pro­fes­sore di Este­tica all’Università di Ascoli Piceno, autore di un impor­tante Intro­du­zione a Fou­cault, inter­verrà il 5 mag­gio per illu­strare i rap­porti tra potere e sen­si­bi­lità nell’opera fau­caul­tiana, nella rico­stru­zione di un per­corso in cui prassi teo­rica e teo­ria della prassi risul­tano inscin­di­bili. Ciò che emerge, ormai lon­tano dalla tem­pe­rie cul­tu­rale dell’ «epoca Fou­cault», fatta di cri­tica alle isti­tu­zioni di disci­pli­na­mento (cli­nica, fami­glia, scuola, caserma, chiesa), è la forza di sog­get­ti­va­zione che quelle istanze di con­te­sta­zione e di ribel­lione hanno avuto. È quanto met­terà in luce Ora­zio Irrera, co-direttore di «Mate­riali Fou­caul­tiani», indi­cando nella cri­tica dell’ideologia il nucleo infuo­cato da cui si dipana il pen­siero dell’autore di Sto­ria della fol­lìa, Sicu­rezza, ter­ri­to­rio, popo­la­zione, Nascita della bio­po­li­tica. I corsi al Col­lège de France, insieme alla grande e magni­fica messe dei Dits et Ecrits (saggi, inter­vi­ste, inter­venti), non­ché la recente pub­bli­ca­zione in Fran­cia de La societè puni­tive (1972–73), a cura di Fra­nçois Ewald e del com­pianto Ales­san­dro Fon­tana e in Ita­lia del pre­zioso corso di Lova­nio (1981) Mal fare, dir vero, costi­tui­scono una cospi­cua «ere­dità», che fa segno verso il com­pito cri­tico (di cui par­lerà Laura Cre­mo­nesi) che potrebbe essere acqui­sito dalle attuali gene­ra­zioni di stu­denti e ricer­ca­tori. Si tratta di ela­bo­rare un’ontologia del pre­sente non costretta dai vin­coli della spe­cia­liz­za­zione. Ciò signi­fica inter­ro­gare l’opera di Fou­cault nei punti in cui è più vicina all’intervento diretto sulla realtà, nell’azione coer­ci­tiva e cri­mi­na­liz­zante sullo «stra­niero», nelle inter­ru­zioni di con­fine e nelle sog­get­ti­va­zioni agiu­ri­di­che (Mar­tina Taz­zioli), in cui si disloca la male­di­zione gover­na­men­tale dei poteri.
La que­stione deci­siva del nostro pre­sente, dis­solto in una nor­male pre­ca­rietà quo­ti­diana, è dun­que quella della sog­get­ti­vità, cioè anzi­tutto dei modi in cui ci si inca­rica delle prese di posi­zione eti­che e poli­ti­che nel governo di sé e degli altri, tema inda­gato da Daniele Loren­zini. Rico­no­scere il metodo archeo­lo­gico come forma neces­sa­ria della cri­tica; scor­gere nella micro­fi­sica degli usi del lin­guag­gio il potere di sedu­zione e di sov­ver­sione del mono­tono «discorso» del pre­sente; rile­vare in spazi libe­rati dalla cor­ru­zione di sé e del mondo, il dive­nire altro della sog­get­ti­vità, sem­brano costi­tuire il com­pito per un futuro già pre­sente, nell’ a-priori sto­rico in cui si intrec­ciano sto­ria e metastoria.

lunedì 28 aprile 2014

Wu Ming, L'armata dei sonnambuli

Andrea Colombo
Wu Ming, storie di sconfitti all'ombra del Terrore
il manifesto Alias, 26 aprile 2014

Marianna non ha pelle d’alabastro, mani curate, capelli lucidi sotto il ber­retto fri­gio. Ha le dita rovi­nate di chi passa la vita tra la cucina e il lavoro a maglia. Però non sfer­ruzza più solo nei tuguri popo­lari del Fau­bourg Saint-Antoine, roc­ca­forte gia­co­bina, ma anche di fronte alla Con­ven­zione rivo­lu­zio­na­ria. Non parla il fran­cese di Cha­teau­briand, ma il gergo dia­let­tale e ruvido dei quar­tieri popo­lari e lo fa sen­tire forte e chiaro nel cuore del potere, per­ché la Rivo­lu­zione è que­sto: dare voce a chi non ne aveva, affi­dare potere a chi ha sem­pre dovuto subirlo.
Tra i molti per­so­naggi di L’armata dei son­nam­buli (Stile libero, Einaudi, pp. 796, euro 21.00) l’ultimo romanzo del col­let­tivo Wu Ming, che egua­glia e forse supera il capo­la­voro d’esordio Q, fir­mato allora Luther Blis­set, la vera pro­ta­go­ni­sta è lei, Marianna, il sim­bolo col­let­tivo delle donne di Parigi e del popolo di Parigi, il cuore scon­fitto della Rivo­lu­zione. Ha molti nomi e molti volti: quelli di Marie Nozière, l’operaia dei sob­bor­ghi che forse era ante­nata della famo­sis­sima par­ri­cida Vio­lette Nozière, di Claire Lacombe, l’attrice proto-femminista che tentò di for­zare la mano a Robe­spierre recla­mando il com­pi­mento della Rivo­lu­zione nei fatti e non solo nella let­tera della Costi­tu­zione, della sua amica Pao­line Léon, co-fondatrice della Società delle Repub­bli­cane Rivo­lu­zio­na­rie, quella che chie­deva di armare e arruo­lare le donne della Rivoluzione.
Sono per­so­naggi reali, pur se roman­zati, le pro­ta­go­ni­ste dimen­ti­cate della Grande Rivo­lu­zione, il lato in ombra della sto­ria. Come sono veri quasi tutti gli altri pro­ta­go­ni­sti di que­sta epica saga del Ter­rore e della Con­tro­ri­vo­lu­zione: l’attore ita­liano Leo­nida Modo­nesi, che, chissà, forse era dav­vero il rivo­lu­zio­na­rio in maschera diven­tato dopo Ter­mi­doro l’eroe del popolo scon­fitto dei sob­bor­ghi, Sca­ra­mou­che; il medico Orphée d’Amblanc, esperto in quello che si chia­mava allora «mesme­ri­smo», la tec­nica d’ipnosi che aveva avuto il suo momento di gran glo­ria in Europa subito prima della Rivo­lu­zione e che, nella ver­sione dei Wu Ming somi­glia alla Forza di Star Wars. E con loro tutti gli altri, troppi per nomi­narli tutti, i popo­lani e i dotti, le rivo­lu­zio­na­rie e le cor­ti­giane, i san­cu­lotti e i «muschia­tini», come ven­gono qui defi­niti i «moscar­dini», la truppa con­tro­ri­vo­lu­zio­na­ria com­po­sta da gio­vani piccolo-borghesi tra­ve­stiti da ari­sto­cra­tici che erano anch’essi, senza volerlo e senza saperlo, agenti della tra­sfor­ma­zione, per­ché quando mai il vero ancien régime avrebbe tol­le­rato che una simile ple­b­glia si camuf­fasse da squi­siti ci-devant?
Di libro in libro, i Wu Ming hanno messo a punto una for­mula magica che è facile imi­tare e dif­fi­ci­lis­simo egua­gliare. Lavo­rano con cura meti­co­losa sulla realtà sto­rica, ma rie­scono a farla par­lare con altret­tanta pre­ci­sione del pre­sente: que­sta vicenda di rivo­lu­zione e con­tro­ri­vo­lu­zione, cosa ben diversa dalla mera restau­ra­zione, è una para­bola che abbiamo vis­suto anche noi, nell’Italia degli ultimi decenni. Pro­ce­dono lungo i binari di una nar­ra­tiva epico-popolare, che guarda a Dumas più che a Ken Fol­lett, ma allo stesso tempo lavo­rano sul lin­guag­gio con pas­sione spe­ri­men­tale degna della più sofi­sti­cata avan­guar­dia. Di romanzo in romanzo, i Wu Ming per­se­guono un pro­getto che è tanto let­te­ra­rio quanto poli­tico, spo­stare i riflet­tori sui dimen­ti­cati della sto­ria, le insor­genze can­cel­late e oscu­rate dai vin­ci­tori per­ché se ne per­desse anche la memo­ria: i con­ta­dini d’Europa infiam­mati e poi tra­diti dalla Riforma in Q, i par­ti­giani disar­mati e non domati del dopo­guerra ita­liano in Asce di guerra, le tribù guer­riere e desti­nate allo ster­mi­nio nell’America di Mani­tuana, le rivo­lu­zio­na­rie e i san­cu­lotti di Parigi in quest’ultimo romanzo. Sono sto­rie di scon­fitte che invece di sco­rag­giare accen­dono spe­ranze e resti­tui­scono fidu­cia. Dicono che, comun­que sia finita, è valsa ogni volta la pena di lace­rare, anche solo per un momento, l’ordine eterno delle cose. Avver­tono che, per quanto invin­ci­bile sem­bri dopo ogni scon­fitta il potere, ci sarà sem­pre, di nuovo, chi sce­glierà di cam­mi­nare sulla testa dei re nel grande spet­ta­colo della Rivo­lu­zione, dove le com­parse diven­tano protagonisti.

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Giovanni Dozzini 
Wu Ming, la rivoluzione francese come non l’ha mai raccontata nessuno
"L'armata dei sonnambuli", l'ultimo romanzo del collettivo bolognese, si fa divorare (ed è già alla seconda ristampa) 
Europa, 23 aprile 2014

Forse era dai tempi di Q, da quando si chiamavano ancora Luther Blissett e non avevano cominciato a essere il fenomeno di culto che sarebbero diventati, che i Wu Ming non riuscivano a mettere a punto un congegno a orologeria complesso ed efficace come L’armata dei sonnambuli (Einaudi). Il nuovo romanzo del collettivo bolognese è in libreria da una manciata di giorni e, fanno sapere dalle pagine di Giap, il loro quartier generale sul web, le trentacinquemila copie della prima tiratura sono già sparite. L’attesa per questa nuova creatura d’altronde era tanta, e si portava dietro da parecchio tempo. Ebbene, il libro è molto bello. Quasi ottocento pagine che si fanno divorare, personaggi che appassionano, piccole storie screziate di realtà che sembrano reggere sulle proprie gracili spalle le sorti di mezza umanità, e la Rivoluzione Francese come non ve l’ha mai raccontata nessuno.
Ora, è bene prendere subito atto che la maggior parte di noialtri con la Rivoluzione Francese ha un problema. Ed è probabilmente il problema che riguarda tutta la storia che abbiamo studiato e imparato un po’ troppo semplicemente a scuola. Perché nella Rivoluzione Francese di semplice non c’è stato proprio niente. Soprattutto nel suo lungo strascico, quello che inizia subito dopo la Bastiglia e finisce con l’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte. I Wu Ming, qua, provano a spiegarci cosa è successo nel mezzo di quel decennio fatto di illusioni, sangue e disordine. Il balletto delle tante fazioni rivoluzionarie, la guerra fratricida a sinistra e l’attesa sorniona di quelli che oggi chiameremmo i poteri forti, che in fondo hanno sempre saputo come si fa a lasciar che la biglia giro dopo giro finisca per tornare a fermarsi regolarmente sulla loro casella.
In questo romanzo si narra lo sgretolarsi dello spirito rivoluzionario, e ciò che si rende molto bene è soprattutto la qualità dell’aria respirata dai parigini e dai francesi negli anni tra il 1793 e il 1795. È una resa che si nutre di pagine e di tempo, e di molte vicende all’apparenza insignificanti che poco a poco guadagnano spessore e prendono ad attrarsi come magneti dalla forza inarrestabile. E allora eccolo, infine, l’altro grande protagonista dell’Armata dei sonnambuli, la sua linfa, il fluido, direbbe quella gente, che lo attraversa da cima a piedi. Eccolo: è il magnetismo, la disciplina nata col dottore e filosofo tedesco Franz Anton Mesmer, progenitore dell’ipnosi e a suo tempo bandito e bollato dalla scienza ufficiale come poco più di una pratica da stregoni. I Wu Ming immaginano che il suo esercizio fosse efficace e mirabolante, e che pochi uomini di grande arguzia e abilità se ne sapessero servire a fini disparati, finanche sovversivi. E prendendo spunto da avvenimenti, donne e uomini sicuramente o presumibilmente reali, ne fanno il motore di tutto.
Un tutto che comincia con la testa di Luigi XVI che rotola giù dal patibolo: i personaggi che daranno vita al dipanarsi del romanzo sono già tutti lì, a osservare, tramare, arrivare troppo tardi o scappare appena in tempo. Nei due anni successivi staremo dietro a un coraggioso e spaccone attore italiano fuggito a Parigi sulle tracce di Goldoni, a un’agguerrita sarta del focoso faubourg di Sant’Antonio, a un medico esperto di magnetismo inviato dall’autorità a indagare su certi misteriosi fatti in terra d’Alvernia, a un uomo ancor più misterioso ricoveratosi di proposito nel manicomio di Bicêtre dove si fa largo nelle menti e nelle gesta degli altri alienati. E a molta altra gente, rivoluzionari e controrivoluzionari sempre sul crinale, sbirri e nobildonne, bambini malati e predestinati, e poi naturalmente Scaramouche, l’eroe mascherato che fa giustizia di speculatori e squadracce reazionarie.
L’impalcatura narrativa è articolata e solida (se proprio volessimo trovare qualcosa da ridire forse la scena finale sarebbe potuta essere un po’ più lenta), il pathos costante, l’interesse e la curiosità di chi legge non calano mai. E questo è già molto, ma non può essere tutto. Il paradigmatico precipitare degli eventi, delle speranze e delle conquiste eccita e deprime gli animi di chi ancora oggi vuole azzardarsi a credere nella disposizione dell’uomo a tendere al progresso, a costruirsi futuri migliori. La forza dell’Armata dei sonnambuli, composto da una pluralità di lingue e di voci dal timbro pressoché impeccabile, lingue che spesso si spingono al limite con risultati davvero eloquenti e godibili, sta proprio nella sua capacità di raccontare fatti avvincenti e, dietro o sotto di­ loro, sommovimenti ideali e culturali. È il marchio di fabbrica dei Wu Ming, d’altronde, ma stavolta la posta era altissima, perché grossomodo veniamo tutti da lì, dalla Parigi di quegli anni, da quelle vittorie e soprattutto da quelle sconfitte, e allora ancor più alto è il loro merito di essere riusciti in quest’ambizioso proposito.

martedì 22 aprile 2014

Daniel Barenboim su Mozart

 Enrico Girardi
 Il mio Mozart
«Amadeus è un autore che tradisce Sembra semplice, ma è una sfida»
Barenboim: al piano molti virtuosi non ne hanno trasmesso l’essenza

Corriere della Sera, 22 aprile 2014


«Mozart è stato il primo virtuoso del pianoforte: virtuoso non nel senso superficiale e “circense” delle acrobazie, della velocità e dei volumi con cui si pensa oggi al virtuoso; ma nel senso per cui la parola virtuoso deriva da virtù. E tale virtù in questo caso è la sprezzatura, ossia la capacità di far sembrare semplice e immediato ciò che semplice e immediato non è, anzi è complesso o anche molto complesso. Perciò Mozart è un autore che “tradisce”. Molti virtuosi che eseguono perfettamente cose impossibili, su Mozart “cadono”. Non riescono a coglierne e a trasmetterne l’essenza». Daniel Barenboim è invitato a parlare del «suo» Mozart perché da oggi, e per 18 settimane, insieme con il Corriere uscirà una collana di dischi (ogni lunedì, a 6,99 euro oltre al prezzo del quotidiano) che comprende le sue incisioni, dapprima della serie dei Concerti per pianoforte e orchestra (in cui Barenboim suona il pianoforte dirigendo la English Chamber Orchestra), poi della serie di Sonate e infine della serie di Variazioni: un notevole impegno editoriale che segue il lusinghiero successo dell’analoga collana, con l’integrale dei Concerti e delle Sonate, dedicata a Beethoven.
Ma se l’aspettava Daniel Barenboim un tale successo? «Ci lamentiamo sempre della carenza di educazione musicale nelle scuole, ma è straordinario come, nonostante questa piaga, così tante persone continuino a frequentare le sale da concerti, i teatri d’opera e ad ascoltare i dischi. Ovvio che sia contento che “Il mio Beethoven” sia andato bene. Ma lo sono ancor di più a pensare come la musica sappia parlare a tutti: ai musicisti, agli appassionati, ma anche a chi non distingue un clarinetto da un fagotto».
Parlando di Beethoven si sottolineava il grado incredibile di evoluzione che si riscontra tra le prime Sonate e quelle dette «di mezzo» e tra queste ultime e le Sonate della piena maturità «è così anche in Mozart — interrompe il direttore-pianista israelo-argentino — ma in un modo diverso. L’evoluzione di Beethoven si coglie bene nelle Sonate che rappresentano una sorta di diario intimo e personale. Ed è una evoluzione non solo di forme e linguaggio ma dello stesso pensiero musicale. Il diario intimo di Mozart, se così si può dire, lo si legge nei suoi Concerti per pianoforte e orchestra, che sono 27 e coprono un arco temporale corrispondente all’intero arco della sua parabola creativa. Qui l’evoluzione non è tanto di forme e linguaggi, e nemmeno di pensiero. Consiste piuttosto nella profondità sempre più abissale delle sue intuizioni: una profondità che non intacca mai la semplicità dell’eloquio. Perciò Artur Schnabel diceva sempre che Mozart è troppo facile per i bambini e troppo difficile per gli adulti».
A proposito di Schnabel, è stato lui uno dei suoi pianisti di riferimento per l’interpretazione mozartiana? Oppure anche su questo terreno, come in quello beethoveniano, lo sono stati Edwin Fischer e Claudio Arrau? «Edwin Fischer sicuramente. Ogni nota che suonava era sempre legata a tutte le altre in un disegno lucido e profondo. Quel poco Mozart che Wanda Landowska ha suonato, è meraviglioso e se devo aggiungere un terzo nome penso a un inglese che è stato allievo sia di Fischer sia della Landowska, Clifford Curzon (Londra, 1907–1982 ndr ), musicista dimenticato, anche eccezionale pianista schubertiano, che voi critici dovreste conoscere bene invece lo ignorate…». «Quanto ad Arrau — prosegue — è sempre stato intelligente, acuto, per me un maestro in tutti i sensi. Ma Mozart lo ha suonato molto raramente».
Oggi i Concerti di Mozart si eseguono spesso, ma non si può dire lo stesso per le Sonate… «Vero, ma nell’Ottocento si facevano pochissimo anche i Concerti — interrompe di nuovo —; basti pensare che il sublime Concerto n.27 in si bemolle maggiore K.595 lo suonò Mozart nel 1791 a Vienna poco prima di morire poi non lo si è eseguito mai più finché non lo riproposero Schnabel e Toscanini nel 1927!». Incredibile, ma le Sonate si eseguono poco nei recital pianistici perché sono poco «spettacolari»? Perché costano molta fatica in termini interpretativi e «rendono poco» nei termini di quel virtuosismo di cui si parlava prima? «È difficile dirlo. Ma è certo che se si vuol fare una bella Sonata di Mozart bisogna provare il piacere di farla, bisogna provare il piacere della musica per la musica. Quando è così, si scoprono tesori in tutte le Sonate: le prime, che amo in modo particolare, non meno delle ultime».
Quasi tutti raccomandano di non eseguire/ascoltare le serie compositive in ordine cronologico. È d’accordo? «Dico solo che se avrò ancora la forza di affrontare il ciclo delle Sonate di Beethoven, lo farò in ordine cronologico».

sabato 19 aprile 2014

Cent'anni di solitudine: la novità


Antonio Melis
L'eterna stagione di Gabo
il manifesto, 19 aprile 2014

Intorno alla seconda metà degli anni Ses­santa del secolo scorso uno tra i grandi temi del dibat­tito let­te­ra­rio inter­na­zio­nale ruo­tava intorno alla morte del romanzo. Ma nella remota Colom­bia, tagliata fuori dai cir­cuiti uffi­ciali, non era ancora arri­vata noti­zia delle ese­quie di que­sto grande genere let­te­ra­rio della società bor­ghese, sulla cui defi­ni­zione si erano cimen­tati illu­stri teo­rici, da Hegel, fino a Lukács e a Goldmann.
Fu così che uno scrit­tore ormai vicino ai quarant’anni si per­mise di pub­bli­care nel 1967 un romanzo tito­lato Cent’anni di soli­tu­dine, dopo altre prove nar­ra­tive note­voli, rima­ste cir­co­scritte a un pub­blico ridotto e che sareb­bero state recu­pe­rate solo suc­ces­si­va­mente, per l’effetto trai­nante del suc­cesso cla­mo­roso di quel testo. Romanzi come Foglie morte (La hoja­ra­sca), Nes­suno scrive al colon­nelloLa mala ora e rac­colte di rac­conti come I fune­rali della Mama Grande, veni­vano letti come momenti pre­pa­ra­tori di una grande sin­tesi, ma anche apprez­zati nel loro valore autonomo.
Ho ricor­dato quella con­giun­tura cul­tu­rale, pro­prio per­ché il «segreto» di Gar­cía Már­quez è stato, in fondo, abba­stanza sem­plice. Igno­rando le sofi­sti­cate elu­cu­bra­zioni delle teo­rie cri­ti­che à la page, lo scrit­tore colom­biano aveva risco­perto l’elementarità e l’universalità del gusto di rac­con­tare una storia.
Del resto, la strut­tura del suo romanzo poteva richia­mare le saghe, da quelle anti­che al modello con­tem­po­ra­neo offerto dai romanzi di Wil­liam Faul­k­ner. Ma poteva con la stessa legit­ti­mità, per un altro tipo di let­tori, evo­care – por­tan­dole a un livello let­te­ra­rio raf­fi­nato – le sug­ge­stioni della tele­no­vela, con il suo gusto per la pro­li­fe­ra­zione infi­nita dei per­so­naggi. Da que­sto sin­go­lare con­nu­bio di alto e basso era sca­tu­rito un auten­tico mira­colo: riu­nire in tutto il mondo, intorno alle sue pagine, il let­tore colto e quello ingenuo.
A par­tire da allora intere biblio­te­che sono state scritte su quel romanzo e in gene­rale sull’opera di Gar­cía Már­quez, soprav­vis­suta glo­rio­sa­mente a quel bom­bar­da­mento a tap­peto. Uno tra gli omaggi più caldi e pro­fondi tri­bu­tati al suo capo­la­voro sta in alcune righe che gli dedicò, a ridosso della pub­bli­ca­zione, un altro grande scrit­tore ispa­noa­me­ri­cano della gene­ra­zione ante­riore, José María Argue­das, nel suo ultimo romanzo, La volpe di sopra e la volpe di sotto, rima­sto incon­cluso per il colpo di pistola con il quale l’autore pose fine alla sua vita.
Nel primo dei «Diari» che si alter­nano con la nar­ra­zione c’è una sorta di resa dei conti, spesso aspra, con i suoi col­le­ghi lati­noa­me­ri­cani che sta­vano costruendo quello splen­dido epi­so­dio di libe­ra­zione cul­tu­rale, che sarebbe poi stato mala­mente chia­mato «boom». Ecco come Cent’anni di soli­tu­dine viene salu­tato: «Non par­le­rebbe così quel Gar­cía Már­quez che asso­mi­glia molto a donna Car­men Tari­pha, di Maran­ganí, presso Cuzco. Car­men rac­con­tava al prete, di cui era per­pe­tua, sto­rie inter­mi­na­bili di volpi, dan­nati, orsi, bisce, ramarri; imi­tava que­gli ani­mali con la voce e con il corpo. Li imi­tava così bene che la sala della cano­nica si tra­sfor­mava in caverne, in boschi, in pune e gole dove risuo­na­vano lo stri­sciare della serpe che fa muo­vere piano le erbe e gli stec­chi, il par­lare della volpe un po’ scher­zoso e un po’ cru­dele, quello dell’orso che è come se avesse della farina impa­stata in bocca, quella del topo che taglia con il suo filo anche l’ombra; e donna Car­men cam­mi­nava come una volpe e come un orso, e muo­veva le brac­cia come una serpe e come un puma, faceva anche il movi­mento della coda; e rug­giva pro­prio come i dan­nati che divo­rano gente senza mai saziarsi; così la sala della cano­nica era qual­cosa di simile alle pagine di Cent’anni…».
In Ita­lia il suc­cesso del romanzo, tra­dotto tem­pe­sti­va­mente, fu imme­diato, seb­bene non man­cas­sero feno­meni di incom­pren­sione da parte di intel­let­tuali, anche illu­stri, ma legati ine­so­ra­bil­mente agli schemi euro­cen­trici, che non capi­rono come Gar­cía Már­quez facesse irrom­pere un mondo let­te­ra­rio irri­du­ci­bile a cri­teri di giu­di­zio ela­bo­rati a par­tire da un altro contesto.
L’appropriazione inde­bita avvenne anche attra­verso l’impiego quasi osses­sivo di cate­go­rie come quella del «rea­li­smo magico», desti­nata ad avere un grande suc­cesso e quindi ad agire nega­ti­va­mente non solo sui let­tori, ma addi­rit­tura sugli stessi scrit­tori ispa­noa­me­ri­cani più gio­vani, molti dei quali comin­cia­rono a caval­care astu­ta­mente l’onda del suc­cesso, offrendo spesso pro­dotti ste­reo­ti­pati che veni­vano incon­tro all’eterno biso­gno di eso­ti­smo del mondo ege­mo­nico. La let­te­ra­tura ispa­noa­me­ri­cana aveva già anni prima creato un pos­si­bile anti­doto per que­sti frain­ten­di­menti, attra­verso la cate­go­ria del «reale mera­vi­glioso» enun­ciata dal cubano Alejo Car­pen­tier nel pro­logo al suo straor­di­na­rio romanzo Il regno di que­sto mondo, ambien­tato ad Haiti negli anni della rivolta della popo­la­zione afri­cana che aveva dato vita al primo stato indi­pen­dente dell’America cosid­detta Latina. Dopo essere pas­sato, come altri grandi scrit­tori di quell’area, attra­verso l’esperienza sur­rea­li­sta pari­gina, Car­pen­tier aveva capito che nell’abnormità dei feno­meni lati­noa­me­ri­cani, da quelli fisici a quelli sociali, c’era una fonte pro­pria di mera­vi­glia che ren­deva obso­lete le ricette intel­let­tua­li­sti­che pro­dotte nel vec­chio continente.
Capii tutta la por­tata di quella dichia­ra­zione d’indipendenza (non di autar­chia) quando, pochi anni dopo l’uscita di Cent’anni di soli­tu­dine, nel mio primo viag­gio in Colom­bia, potei con­sul­tare nelle eme­ro­te­che i gior­nali degli anni Venti, dove si rife­ri­vano i mas­sa­cri della com­pa­gnia bana­nera che com­pa­iono nel romanzo, e che erano stati rece­piti dalla cri­tica e, più ovvia­mente, dal pub­blico, come pura inven­zione let­te­ra­ria, par­to­rita dai nuovi bestioni vichiani, tutti senso, stu­pore e fan­ta­sia. Non voglio pro­porre, è ovvio, un banale prin­ci­pio di vero­si­mi­glianza, ma indi­care un esem­pio par­ti­co­lar­mente signi­fi­ca­tivo della dia­let­tica fra sto­ria e crea­zione let­te­ra­ria che sta alla base di Cent’anni di soli­tu­dine e che spiega le sue mol­te­plici pos­si­bi­lità di let­tura, come suc­cede con tutti i testi vera­mente grandi.
L’opera di Gar­cía Már­quez è pro­se­guita fino alla vec­chiaia, fra romanzi, rac­conti, cro­na­che e memo­rie, con risul­tati alterni. Come in altri scrit­tori della sua gene­ra­zione, che hanno sfrut­tato la loro ren­dita di posi­zione, il mestiere sem­pre più raf­fi­nato è pre­valso molte volte sull’autentica inven­zione. Vale anche, seb­bene a molti suo­nerà come una bestem­mia, per la sua prova più ver­ti­gi­nosa dal punto di vista dell’impegno sti­li­stico, l’ingegnoso e soprav­va­lu­tato L’autunno del patriarca, un testo più adatto agli eser­cizi funam­bo­lici della cri­tica e alle tesi dot­to­rali che al godi­mento del let­tore. Ma baste­rebbe la grande saga di Macondo, capace meri­ta­ta­mente di rino­mi­nare il paese di nascita di Gar­cía Már­quez, a garan­tire allo scrit­tore un posto nella let­te­ra­tura desti­nata a durare nel tempo, oltre le mode edi­to­riali e quelle create dalla critica.

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Maurizio Stefanini
Cent'anni di similitudine
Il Foglio, 7 maggio 2011

 Non solo l’Italia ha i suoi campanilismi tra “polentoni” e “terroni”. In Colombia le sfottiture reciproche tra esuberanti “costeños” della regione caraibica e sussiegosi “cachacos” della regione andina sono abbastanza simili: salvo il particolare che là è il nord che sta a sud, e viceversa. E una prima storia per spiegare alcuni curiosi retroscena su un mito letterario del XX secolo parla appunto di un ventenne “costeño”. Un giovanotto allampanato con i baffetti, una capigliatura ribelle e una faccia da indio, che una famiglia complicata ha mandato a studiare Diritto nella fredda e compunta Bogotá. Anni dopo, nel romanzo che lo trasformerà appunto nel citato mito letterario, la descriverà come “una città lugubre per le cui viuzze di pietra traballavano ancora, in notti da incubo, le carrozze dei vicerè. Trentadue campane suonavano a morto alle sei di sera”. Ma sul momento, per sfogare la propria malinconia scrive poesie nostalgiche su un giornale studentesco. “Ed era il mare del primo amore / in due occhi autunnali… / Un giorno volli vedere il mare / – ma dell’infanzia – ed era troppo tardi”. Finché un pomeriggio uno studente suo conterraneo non gli presta un racconto di Franz Kafka, tradotto da Jorge Luis Borges. Il costeño triste torna alla pensione, sale nella sua stanza, si sfila le scarpe, si stende sul letto, e inizia a leggere. “Gregorio Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo”. Folgorato, esclama: “Merda, mia nonna parlava esattamente così!”.

Quattro anni dopo, il giovanotto è tornato nella regione di origine, e la gira come venditore ambulante di enciclopedie e manuali. Nel frattempo ha lasciato perdere gli studi: per un complesso di ragioni che va da problemi di finanze familiari, alla guerra civile che intanto è scoppiata nel paese, alla propria sostanziale allergia per il Diritto. Ma, soprattutto, la scoperta delle affinità linguistiche tra Kafka e nonna Tranquilina lo ha deciso di darsi alla narrativa. “Scriverò il nuovo ‘Don Chisciotte’”, ha addirittura promesso agli amici. La carriera letteraria sembra però essersi arenata, dopo che il suo primo libro è stato bocciato da una editoriale argentina di cui è direttore proprio il cognato di Borges. E pure un lavoro da giornalista lo ha lasciato perdere, perché lo pagano troppo poco. Lui, però, resta convinto che sarà il nuovo Cervantes. E quel lavoro pur raffazzonato lo ha dunque accettato con piacere perché, oltre a permettergli di sbarcare il lunario, gli dà la possibilità di conoscere persone e luoghi. In uno dei suoi tour lo accompagna un amico musicista che si chiama Rafael Escalona, e che diventerà il massimo interprete di un genere musicale chiamato “vallenato”: una specie di liscio, salvo che il suono europeizzante dell’organetto vi è scandito con ritmi africani. Dopo una settimana di viaggio i due stanno bevendo birra e rum ghiacciati in una bettola, quando si avvicina loro un giovanotto dall’aria decisa vestito da cowboy: cappello a tesa larga, gambali in cuoio sui pantaloni, pistola alla cintura. Siamo nel 1952, ma in quelle zone si vive ancora come nei western di Sergio Leone. E da western di Sergio Leone è infatti la scena che segue, quando Escalona invitandolo a unirsi alla bevuta dice al cowboy: “Permettimi di presentarti Gabriel García Márquez”. E l’altro, stringendogli la mano: “Ha qualcosa a che vedere col colonnello Nicolás Márquez?”. “Soy su nieto”: in spagnolo “nipote di nonno”, che a differenza del generico italiano è chiaramente distinto dal “sobrino”, “nipote di zio”. “Sono suo nipote”. “Allora è suo nonno che ha ammazzato mio nonno!”.

Anche Escalona ha la pistola alla fondina, ma cerca subito di sdrammatizzare. “Sì, sì, ma lui non ne sapeva niente. Sentite, perché non facciamo una bella gara a chi tira meglio?”. Le pistole vengono così scaricate, la tensione pure, i tre riprendono a bere, e anzi passeranno assieme tre interi giorni. A girare la regione nel camioncino che il cowboy usa per il suo lavoro di contrabbandiere. E a fare conoscenza con la caterva di figli illegittimi che il colonnello Márquez, in realtà un grado fai da te in un esercito fai da te durante la guerra civile detta “dei mille giorni” che si combatté tra 1899 e 1902, ha seminato per la zona durante il conflitto. E’ il nipote dell’assassinato che li presenta al nipote dell’assassino. “Ah, anche questo è tuo zio!”.

Terza storia. Sono passati altri sette anni, e il 24 agosto del 1959 il nipote del colonnello Márquez fa battezzare il suo figlio primogenito, Rodrigo. Nel frattempo oltre a sposarsi è riuscito a tornare dalle enciclopedie alla letteratura, a pubblicare i suoi primi libri, a diventare un giornalista di una certa rinomanza, e anche a girare l’Europa in lungo e in largo. Il prete è un suo vecchio compagno di studi a quell’Università di Bogotá in cui poi non si è mai laureato. Ma anche il padrino è un suo ex compagno di studi, poi divenuto sodale di avventure giornalistiche e tour europei. E assieme a lui dopo l’arrivo al potere di Fidel Castro fonderà “Prensa Latina”: l’agenzia di stampa della rivoluzione cubana. La madrina è a sua volta la moglie di un altro compare di giornalismo e bisbocce. Finita la cerimonia, il prete scandisce: “E adesso tutti coloro che credono nella discesa dello Spirito Santo su questo bambino s’inginocchino”. Padre, madre, padrino e madrina, tutti atei dichiarati, rimangono in piedi.

Sette anni dopo quel prete, che si chiama Camilo Torres, morirà combattendo come guerrigliero. Il mito della Teologia della liberazione lo fa spesso anche passare come leggendario comandante: ma la realtà è che, dopo essersi unito a una banda come semplice combattente, cade in pratica al suo primo scontro a fuoco, per un micidiale errore da principiante. Dopo un’imboscata viene infatti fuori dalla boscaglia a raccogliere il fucile di un ufficiale caduto: senza accorgersi che si sono buttati a terra anche soldati rimasti incolumi, e che lo ridurranno a un colabrodo.

Il padrino ateo e comunista, Plinio Apuleyo Mendoza, è tuttora suo amico. Ma da allora ha rotto col regime cubano, è diventato diplomatico, è stato anche ambasciatore di Colombia in Italia, e assieme al figlio di Mario Vargas Llosa e all’esule cubano Carlos Alberto Montaner ha scritto un famosissimo pamphlet antipopulista intitolato “Manuale del perfetto idiota latino-americano”.

E poi c’è Gerald Martin. Latinoamericanista statunitense, docente emerito a Pittsburgh, Senior Research Professor a Londra, e narratore di queste vicende in “Vita di Gabriel García Márquez”, un malloppo appena pubblicato in italiano da Mondadori che malgrado le 668 pagine si legge tutto di un fiato; e la cui genesi di 17 anni è stata accompagnata anch’essa da frasi e episodi alla Sergio Leone. “Perché mai scrivere una biografia? Le biografie sono per i morti”, sarebbe stato il primo “incoraggiamento” di García Márquez. Poi si sarebbe passati allo stadio definito da Martin di “biografia non autorizzata, ma tollerata”. Infine, nel 2006 è lo stesso García Márquez a proclamarlo suo “biografo ufficiale”. Quattro anni dopo l’uscita di “Vivere per raccontarla”: autobiografia fino al 1955, di cui però proprio Martin dice che, sì, “la qualità della scrittura è quasi sempre straordinaria”, ma quanto ai contenuti, “bisogna ammettere che più che un racconto è la descrizione di un pio desiderio: ogni episodio doloroso è rigorosamente bandito”. Lo stesso Gabo gli aveva spiegato che ogni uomo ha “tre vite: una pubblica, una privata, una segreta”. E dice allora Martin di “Vivere per raccontarla”: “L’autore è stato molto attento a disseminarla di omaggi – a volte un paragrafo, a volte una sola riga – a tutti i suoi amici e a tutte le loro mogli o vedove. Non ci sono veri squarci d’intimità, né confessioni. Quelle pagine racchiudono la sua vita pubblica e l’altra, quella ‘falsa’, inventata ma non molto della sua vita ‘privata’ e pochissimo di quella ‘segreta’”.

Martin non spiega in realtà esplicitamente il perché ciò sia avvenuto. Ma dalla lettura di questa “Vita di Gabriel García Márquez” un sospetto emerge prepotente: Gabo ha contrabbandato un romanzo come autobiografia, proprio perché fino a quel momento aveva sempre contrabbandato la propria autobiografia come romanzo. Torniamo appunto a Nicolás Márquez: il nonnino colonnello fai da te che aveva allevato il piccolo Gabo nei primi anni di vita. Lui gli aveva raccontato di aver dovuto lasciare il proprio villaggio per andare a fondare quel paesino di Aracataca dove il ragazzino era nato, proprio dopo aver ucciso il nonno del cowboy contrabbandiere. “Tu non sai quanto pesa un morto”, ripeteva al ragazzino. “Credo ancora che sia stato costretto a farlo”, ha sempre ripetuto Gabo a tutti coloro che gli hanno chiesto di quella storia. Ma Martin, con pignoleria e disponibilità di risorse tipicamente yankee, è andato a controllare. E risulta che, primo, nonno Márquez non fondò lui Aracataca, anche se ne divenne effettivamente un notabile influente. Secondo, quell’omicidio fu molto poco romantico e abbastanza sordido: benché sposato il colonnello era un dongiovanni impenitente; il morto era il fratello di una ragazzina sedotta che aveva giurato vendetta; e l’assassino gli aveva teso un agguato, sparandogli dopo essersi sincerato che non era armato. Tutto ciò sarebbe stato trasfigurato nel mito fondante di “Cent’anni di solitudine”: José Arcadio, il capostipite dei Buendía che uccide con un colpo di lancia Prudencio Aguilar, e poi va a fondare Macondo. Solo che nel romanzo, all’opposto che nella realtà, il morto non si era lamentato del gallismo dell’assassino, ma aveva invece irriso la sua virilità: per la storia della moglie Ursula che gli si rifiutava, temendo che l’incrocio tra consanguinei generasse un mostro. E prima di colpire aveva cavallerescamente avvertito: “Vai ad armarti”. Comunque, anche se Aracataca è Macondo, qualche anno fa con un referendum ha rifiutato di cambiare nome per chiamarsi come il luogo ispirato. D’altra parte, Nicolás Márquez è José Arcadio anche per la volta in cui accompagnò il nipote allo spaccio della compagnia bananiera di Aracataca, a vedere il pesce conservato nel ghiaccio: visione magica, in un luogo tropicale prima della diffusione dei frigoriferi. E il ricordo di José Arcadio che porta il figlio Aureliano a vedere il ghiaccio è appunto il punto di partenza di “Cent’anni di solitudine”. Naturalmente, nonna Tranquilina è il prototipo della vecchia matriarca Ursula. E come accade in “Cent’anni di solitudine”, sul serio Gabriel García Márquez andò a sbattere in un sacco con le sue ossa: portate via dal cimitero dopo un trasloco, per risistemarle vicino alla nuova casa.

Ma Nicolás Márquez al contempo è anche Aureliano. Il colonnello che “promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatré imboscate e a un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo. Respinse l’Ordine del merito che gli conferì il presidente della Repubblica. Giunse a essere comandante generale delle forze rivoluzionarie, con giurisdizione e comando da una frontiera all’altra, e fu l’uomo più temuto dal governo, ma non permise mai che lo fotografassero. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei suoi uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi vent’anni di guerre civili. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale”. Nella parte pubblica, Aureliano Buendía è nonno Márquez, più Rafael Uribe Uribe: il generale carismatico ma pasticcione che comandò tutti gli eserciti liberali durante la Guerra dei mille giorni, prozio del penultimo presidente colombiano, Álvaro Uribe Vélez. Ma nel privato, produzione di figli illegittimi a parte, la fabbricazione di pesciolini d’oro era appunto una delle attività con cui nonno Márquez sbarcò il lunario, in attesa di una pensione che non arrivò mai. Sì: perché il colonnello Márquez è anche il protagonista di “Nessuno scrive al colonnello”. Più le frustrazioni del nipote in attesa delle risposte delle case editrici cui mandava i suoi scritti o dei pagamenti dei giornali con cui collaborava; più il film “Umberto D.” di Vittorio De Sica.

Il colonnello morì che Gabo aveva sette anni, dopo un peggioramento di salute dovuto alla caduta da una scala dove si era arrampicato per riacchiappare il pappagallo di casa. E allo stesso modo muore Juvenal Urbino, lasciando così vedova la protagonista dell’“Amore ai tempi del colera”; libro dove peraltro è riprodotta anche la storia del corteggiamento del telegrafista papà Gabriel Eligio a mamma Luisa Santiaga. Ma Gabriel Eligio, con la sua mania di inventarsi lavori pasticciati, contribuisce anche a una ulteriore componente della personalità di José Arcadio in “Cent’anni di solitudine”. Naturalmente, è presa di peso dalla realtà anche la vicenda di “Cronaca di una morte annunciata”. La principale differenza è che la vittima non era un oriundo arabo di nome Santiago Nasar ma un oriundo italiano di nome Cayetano Gentile; e l’unico elemento surreale è che dopo l’uscita del romanzo a querelare lo scrittore furono i due assassini. Che effettivamente, con la storia che il loro era stato un delitto d’onore, erano stati assolti.

Si potrebbe andare avanti ancora per un pezzo: ma non avendo a disposizione le 668 pagine di Martin, gli esempi dati sono sufficienti. Resta il realismo magico. E’ quasi un luogo comune far risalire questa etichetta alla prefazione che nel 1949 il cubano Alejo Carpentier pose alla prima edizione del suo romanzo “Il regno di questo mondo”. “Per la verginità del paesaggio, per l’ontologia, per la presenza faustiana dell’indio e del negro, per la rivelazione che costituì la sua recente scoperta, per i fecondi meticciati che propiziò, l’America è ben lungi dall’aver terminato la sua scorta di mitologie. Che cosa è la storia dell’America tutta se non una cronaca del reale meraviglioso?”. L’idea, insomma, che il razionalismo europeo non possa cogliere la specificità dell’uomo e dell’ambiente del Nuovo mondo. E che dunque, al barocchismo lussureggiante della natura americana e al misticismo panteista che vi si alimenta si può arrivare solo attraverso il mito. Altri, però, hanno osservato che quel realismo magico teorizzato da Carpentier e popolarizzato da García Márquez era stato in realtà già sperimentato fin dal 1930 nelle “Leggende del Guatemala” da Miguel Ángel Asturias, che tra l’altro avrebbe poi ricevuto il suo Nobel per la Letteratura proprio in quello stesso 1967 di “Cent’anni di solitudine”. “Storie-sogni-poemi”, li definiva il sofisticato Paul Valéry nella prefazione all’edizione francese.

Peraltro Martin ci spiega che Gabo ha sempre odiato Asturias; che si è formato come scrittore ignorando del tutto la letteratura colombiana a lui antecedente; e che i suoi miti giovanili sono stati europei e nordamericani. Kafka: di cui abbiamo ricordato come fosse impressionato dalla somiglianza col linguaggio di sua nonna. Hemingway: il cui “Vecchio e il mare” ispira chiaramente come soggetto quel “Racconto di un naufrago” che lanciò la fama del García Márquez giornalista, e come spirito anche “Nessuno scrive al colonnello”. Faulkner: la cui contea di Yoknapatawpha e il cui colonnello Sartoris sono in realtà fonti di Macondo e del colonnello Buendía quasi alla pari di Aracataca e del colonnello Márquez. E anche Virginia Woolf. Ma, ahimè, lo stesso nome di Valéry finisce poi per rivelare quanto questa arte così “indigena” debba in realtà al surrealismo europeo, conosciuto da Asturias quando risiedeva a Parigi come diplomatico. E la realtà è in effetti che a quell’epoca la parola “realismo magico” esisteva già. L’aveva creata il critico tedesco Franz Roh, sia pure riferita alla pittura e non alla letteratura. E intendeva appunto una corrente di cui furono esponenti Ivan Albright, Paul Cadmus, George Tooker e anche l’italiano Antonio Donghi.

Insomma, il realismo magico in realtà l’ha inventato l’Europa. Ma ai lettori europei e nordamericani è sempre sembrato tanto più chic attribuirlo agli scrittori di quell’unica area del Terzo mondo che fosse abbastanza di cultura europea da suonare esotica senza essere incomprensibile. E Gabriel García Márquez ne è diventato il mito, semplicemente per aver raccontato storie di famiglia, che i suddetti lettori europei e nordamericani hanno scambiato per invenzione fiabesca.

Hotel Gramsci: l'intervento di Luciana Castellina


Luciana Castellina
Ben venga "Hotel Gramsci"
il manifesto, 19 aprile 2014

Ho letto l’appello* che alcuni com­pa­gni hanno rivolto al sin­daco di Torino per pro­te­stare con­tro l’iniziativa dell’Immobiliare Car­lina di inti­to­lare ad Anto­nio Gram­sci l’hotel che la società intende aprire nel vec­chio edi­fi­cio ristrut­tu­rato di sua pro­prietà dove, ai tempi dell’Ordine Nuovo, egli aveva, per breve periodo, abi­tato. E, nei giorni scorsi, sulle pagine del mani­fe­sto, un vio­lento arti­colo di Angelo d’Orsi in cui attacca l’Istituto Gram­sci Tori­nese per aver deciso di for­nire volumi di Gram­sci, in ita­liano e in lin­gue estere, che andranno col­lo­cati in una sala di let­tura del nuovo albergo.
Con­fesso di non capire il senso della polemica.
Certo, anche io, al primo momento, quando ho saputo la cosa, mi sono sen­tita col­pita. Subito dopo ho però pen­sato che se c’erano tanti alber­ghi inti­to­lati a Maz­zini, Mas­simo d’Azeglio, Cavour, Gari­baldi, non si capi­sce per­ché non dovrebbe esser­cene uno inti­to­lato a Gram­sci. Per­ché Gram­sci è comu­ni­sta e gli altri no? Ma non è forse che è pro­prio per­ché Gram­sci è comu­ni­sta che fino ad oggi non c’è stato nes­sun albergo a lui inti­to­lato? Non è forse bene che anche Gram­sci sia ricor­dato come un pro­ta­go­ni­sta della sto­ria d’Italia, sia pure per via del nome di un albergo?
Vi dirò che l’idea che un turi­sta stra­niero in visita a Torino arrivi in quel luogo e domandi chi mai era que­sto Gram­sci e ci sia qual­cuno che gli risponda che si tratta del più grande lea­der comu­ni­sta a me fa pia­cere. Parere ana­logo a quello, mi pare, espresso del resto dal nipote, Anto­nio Gram­sci jr, in una recente inter­vi­sta. Il guaio sarebbe che l’albergo è di lusso? Andiamo! Andrebbe invece meglio se si trat­tasse di una brutta gargotta?
Che poi ci vor­rebbe ben altro per ricor­dare la figura e l’opera di Gram­sci, che né le isti­tu­zioni pub­bli­che e nem­meno quelle poli­ti­che di sini­stra fanno quanto è neces­sa­rio, que­sto è un altro discorso. E forse la sto­ria dell’albergo potrebbe essere una buona occa­sione per una cam­pa­gna seria intesa a insi­stere per­ché Anto­nio Gram­sci venga ricor­dato in Ita­lia come si dovrebbe. Que­sto sarebbe utile, assai più di que­sta un po’ ridi­cola crociata.


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In questa brutta vicenda fatta di accuse rivolte a chi vorrebbe sbarazzarsi di un nume tutelare, la finezza e l'eleganza dello stile starebbero nel rispettare Gramsci per quello che era senza perdersi dietro il culto di una reliquia. Ed è quanto sostiene Luciana Castellina, mi pare. Poi sul destino futuro di Gramsci nella sua Torino ci sarebbe ancora molto da dire. L'hotel di lusso in tutto questo c'entra assai poco. Si tratta di andare oltre il nome che adorna una facciata, e anche oltre le stanze riservate al museo o alle manifestazioni culturali all'interno di un albergo. Qui la sinistra potrebbe dar prova di slancio progettuale, anziché consumarsi in uno scontro fratricida sull'uso sacrilego di un nome la cui risonanza mondiale per fortuna non è legata alle sorti di un edificio storico - il Regio Albergo di virtù - situato in piazza Carlina a Torino. C'è una statua di Cavour sulla stessa piazza. L'hotel poteva anche chiamarsi Cavour. Si chiamerà - forse - Gramsci. Tanto meglio, per chi apprezza Gramsci.

Giovanni Carpinelli

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* GadLernerblog, 10 aprile 2014
Al Sindaco di Torino Piero Fassino

Un articolo di Repubblica del 6 aprile annuncia che nel palazzo di Piazza Carlina, dove Gramsci visse due anni nel periodo in cui fondò il Partito Comunista, si stanno terminando i lavori di un albergo di lusso, vista Mole Antonelliana. E’ sempre motivo di dolore quando un luogo che custodisce un pezzo del nostro passato diventa il contenitore di qualche altra cosa banale, anziché spazio dove coltivare la memoria collettiva. Ma questa volta il dolore è atroce, perché la banalizzazione investe direttamente uno dei nostri padri, un uomo che ha scritto pagine che ci parlano ancora oggi, un martire che ha pagato con la vita la libertà delle sue idee. In un tempo dove accettiamo che la parola “valorizzazione” da “dare valore” diventi ” ricavare guadagno”, non sappiamo quanti ancora sapranno indignarsi per la possibilità che “Antonio Gramsci” diventi il nome di un Hotel a cinque stelle, ormai troviamo normale qualunque cosa. E ci sembra assai misero il ragionamento di chi regala il suo volto e il suo nome – l’immagine che ci resta di chi non c’è più – per averne in cambio uno spazio dove “organizzare delle piccole riunioni” e “una biblioteca con tutte le opere del filosofo”, di chi considera “una possibilità importante quella data dall’hotel” “che mira a salvaguardare la memoria di Gramsci”.

Ci auguriamo che non la pensino così a Reggio Emilia, dove qualcuno potrebbe proporre di costruire un centro commerciale intitolandolo ai Fratelli Cervi, o ad Amsterdam, dove potrebbero inaugurare una casa di moda dedicandola ad Anna Frank.

E comunque né gli eredi né tantomeno il professore Sergio Scamuzzi,direttore dell’Istituto Piemontese Antonio Gramsci, hanno il diritto di stabilire se intitolare un albergo con piscina a Antonio Gramsci sia un’occasione da non perdere. Gramsci non è loro. Gramsci è di una moltitudine di persone, a partire da quelli che hanno dato la vita per permettere a noi di vivere liberi. Anche se forse non ce lo meritiamo.

Sindaco di Torino, città di lotte operaie e di Resistenza, difendi il nome di uno dei più grandi dei nostri padri.

Edoardo Salzano, Nicola Tranfaglia, Piero Bevilacqua, Vittorio Emiliani, Vezio De Lucia, Paolo Maddalena, Maria Pia Guermandi, Chiara Sebastiani, Giorgio Nebbia, Flavia Martinelli, Paolo Cecchi, Lodovico Meneghetti, Marcello Paolozza, Anna Maria Bianchi Missaglia, Sandro Roggio, Maria Paola Morittu, Stefano Fatarella, Paola Bonora, Franco Mazzetto, Raffaele Radicioni, Giorgio Nebbia [bis], Maria Cristina Gibelli, Giorgio Todde, Piergiorgio Lucco Borlera, Ida Carpano, Guido Viale, Marco Revelli, Ilaria Boniburini, Giuliana Beltrame, Tonino Perna, Tomaso Montanari, Oscar Mancini, Salvatore Settis, Pancho Pardi, Luciano Vecchi, Fabrizio Bottini, Francesco Indovina, Luigi Piccioni, Paolo Ciofi, Domenico Rafele, Gianna Molisani, Erica D’Anna, Paolo Cova, Alberto Ziparo, Paolo Baldeschi

venerdì 18 aprile 2014

K.S. Karol bolscevico inusuale

Jean Daniel *

Cara Ros­sana,
la mia esi­ta­zione a pro­nun­ciare le parole che seguono è venuta meno quando ho visto il con­forto, pur mode­sto, che sono ancora in grado di recarti. In un primo momento avevo rifiu­tato, per­ché l’epoca ci rende fra­gili, e anche per­ché se ne stanno andando tutti, riem­pien­doci di ricordi che sono altret­tante ferite.
C’è anche il fatto che Karol ci ha abban­do­nati dopo tan­tis­simo tempo. Non ci ha lasciati, ma non pos­siamo più rivol­gerci a lui come prima e, sai bene che se siamo qui, non è per lui che è troppo lon­tano, ma per noi che siamo pieni della sua vita.
Sì, il tempo gioca un ruolo. Quasi tutti i giorni mi capita di chie­dermi che cosa avrebbe fatto Serge Lafau­rie al mio posto. Per Karol occor­rono degli eventi, non parlo di te Ros­sana, ma in que­sto momento per eventi come quelli che acca­dono in Ucraina, con il pos­si­bile ritorno a diverse pic­cole guerre fredde, non posso fare a meno di dire che Karol ci manca, e di rileg­gere, come ho fatto, alcuni suoi arti­coli tut­tora impres­sio­nanti, colti e decisi come sono. Ma tor­niamo al nostro incontro.

Primo giorno della guerra d’Algeria

Ho appena pub­bli­cato un libro ambien­tato in quel paese. Karol lo legge e lo segnala subito ai respon­sa­bili dell’Express con il quale col­la­bora. Gra­zie a que­sto, arrivo anche io all’Express e si forma un trio che fa par­lare di sé: Serge Lafau­rie, K.S. Karol e io. Per venti anni saremo inse­pa­ra­bili. Chi è lui? Ha perso l’uso dell’occhio sini­stro ma è bra­vis­simo nel farlo dimen­ti­care. Parla almeno sei lin­gue. Ha un accento affa­sci­nante e una capa­cità senza eguali di rein­ven­tare la lin­gua fran­cese. Ha fatto la resi­stenza in Polo­nia, è stato impri­gio­nato in Unione sovie­tica, è tor­nato in Polo­nia. Ma come ha attra­ver­sato tutte que­ste prove? Che cosa gli hanno lasciato? Per ade­guarsi all’ambiente, egli si dice «pro­gres­si­sta anti-totalitario». All’epoca i pro­gres­si­sti erano comu­ni­steg­gianti ma anti­bol­sce­vi­chi. Karol dete­sta gli sta­li­ni­sti ma ancor più gli anti­co­mu­ni­sti. Il suo mae­stro è Isaac Deu­tscher, che vive a Lon­dra, come suo padre.

Il comu­ni­smo, il mar­xi­smo e le rivoluzioni

È un pozzo di scienza in mate­ria di comu­ni­smo e di rivo­lu­zioni a Est. Ha amici ovun­que in Europa e soprat­tutto in Ita­lia, dove i comu­ni­sti lo accol­gono bene, pro­prio per­ché è anti­sta­li­ni­sta.
Il Par­tito comu­ni­sta ita­liano è par­ti­co­lar­mente aperto (è il par­tito di Togliatti e di Enrico Ber­lin­guer), ma c’è soprat­tutto una pic­cola for­ma­zione, gio­vane, bril­lante e radi­cale che si chiama il mani­fe­sto. Alla guida del gruppo una donna note­vole, una mar­xi­sta lumi­nosa e intran­si­gente: Ros­sana Ros­sanda, che egli spo­serà. E c’è Luciana Castel­lina – il suo dia­rio è stato da poco pub­bli­cato in fran­cese. Quanto al nostro Karol, scrive due grossi libri, il primo su Cuba, l’altro sulla Cina; in due libri suc­ces­sivi, egli sfuma e cor­regge le tesi del secondo. A che punto è Karol in quell’epoca? Si può dire che egli vive per e attra­verso il comu­ni­smo, il mar­xi­smo e le rivo­lu­zioni. Aperto alla discus­sione, diventa set­ta­rio quando sospetta di atlan­ti­smo un poli­tico o un col­lega.
Ha un senso incre­di­bile dei rap­porti umani. Un giorno rie­sce a far incon­trare Men­dès France, il labu­ri­sta bri­tan­nico Aneu­rin Bevan e il socia­li­sta ita­liano Pie­tro Nenni, con i quali pensa che si possa intac­care il pre­sti­gio dell’Unione sovie­tica senza avvi­ci­narsi però agli Stati Uniti.
Poli­ti­ca­mente non era­vamo d’accordo. Ma siamo stati fedeli a que­sto col­let­ti­vi­sta impe­ni­tente che poteva vivere uni­ca­mente in una demo­cra­zia occi­den­tale. Il mani­fe­sto riu­niva gio­vani rivo­lu­zio­nari ma le sue ani­ma­trici, Ros­sana Ros­sanda e Luciana Castel­lina, pro­ve­ni­vano da grandi fami­glie. A mar­gine, si pote­vano ascol­tare le ana­lisi di Lucio Magri, sin­da­ca­li­sta e filo­sofo, aspetto da attore ame­ri­cano, una delle guide del nostro André Gorz.

In fondo, pen­sava come Sartre

Quando ini­zia a uscire Le Nou­vel Obser­va­teur, riservo natu­ral­mente un posto per K.S. Karol, che ogni set­ti­mana distilla la sua impa­reg­gia­bile cono­scenza sul mondo comu­ni­sta. Le sue tesi sono oggetto di discus­sione, quando si tratta di Castro e soprat­tutto di Mao, il tiranno rosso che mal­grado tutto egli ammira. Il comu­ni­smo era l’unico mondo che lo inte­res­sasse dav­vero. Karol era amico di Fidel Castro ma finì per rim­pro­ve­rar­gli seve­ra­mente l’astio verso gli omo­ses­suali. Per Mao, era un’altra sto­ria, piena di scin­tille, e dovevo con­ti­nua­mente fun­gere da arbi­tro. Il nostro amico è un uomo che può incon­trare Chou En Lai. Ma è con­te­stato e l’offensiva viene dai Roy: Jules e Claude. I quali tor­nano dalla Cina con accuse ter­ri­bili – e giu­sti­fi­cate – con­tro il regime maoi­sta. Sca­te­nano una tem­pe­sta che gesti­sco male. Non è una rot­tura ma una lace­ra­zione.
Fino alla fine, Karol è stato più attento a quelli che inco­rag­gia­vano i rivo­lu­zio­nari che a quelli che ne teme­vano le derive. In fondo, pen­sava come Sar­tre: «Sì, Camus, anch’io odio il gulag, ma ancor più odio chi lo usa come pre­te­sto per schiac­ciare il pro­le­ta­riato». Camus aveva ragione. Ma io, volevo bene a Karol…

* Nato in Algeria da famiglia ebraica francese, è il fondatore del settimanale Le Nouvel Observateur (di cui fino a giugno 2008 fu anche direttore responsabile); Daniel è un umanista orientato politicamente a sinistra. Nel libro La prison juive: Humeurs et méditations d'un témoin sostiene che gli ebrei, considerandosi il popolo eletto, si sono imprigionati. Le sue opere sono percorse dall'interrogativo sul ruolo della religione nella morale moderna. Ha fatto parte del think tank della Fondazione Saint-Simon. In Italia è stata pubblicata l'opera Resistere all'aria del tempo (Con Camus) [Mesogea, (2009)]
** Il testo che pro­po­niamo è stato letto alla ceri­mo­nia di saluto a K. S. Karol al Père Lachaise mer­co­ledì 16 aprile 2014.

martedì 15 aprile 2014

La partita vinta di Renzi

Paolo Franchi
Il contratto di Renzi con gli italiani manda in tilt le categorie della sinistra
Corriere della Sera, 15 aprile 2014

«No, il dibattito no!»: dal lontano 1976 il grido disperato che si alza dalla sala nel primo film di Nanni Moretti, Io sono un autarchico, è, a sinistra, quasi un oggetto di culto. E proprio così — «no, il dibattito no!» — verrebbe da urlare di fronte alla contesa che s’è aperta fra Matteo Renzi e i suoi contestatori «di sinistra» nel Pd. Certo non perché questi ultimi siano dei revenant, o peggio dei sabotatori, come pure già si legge quotidianamente, o una sorta di quinta colonna, come prima o poi si leggerà, solo perché contestano il segretario-presidente. Ma, più semplicemente, perché Renzi la sua partita l’ha già vinta; e di conseguenza gli oppositori, se davvero fanno conto, com’è legittimo che sia, su una rivincita, dovrebbero prima di tutto stabilire come e perché hanno perso la loro. Partendo da un dato di fatto incontrovertibile. Il diciassette e poco più per cento ottenuto da Gianni Cuperlo (che pure tutto è fuorché l’apparatcik tardo-comunista rappresentato da tanti presunti commentatori) ha segnato la fine di quel che restava non solo del Pci-Pds, ma della sinistra per così dire «storica» italiana. Una sinistra che in Italia c’è ancora, eccome. Ma che vive di ricordi e talvolta di risentimenti, perché non dispone di un insediamento sociale e non esprime né una leadership né un programma né, quel che è peggio, un’idea di Paese. E, priva com’è di un’anima, galleggia annaspando in un presente gramo, senza un filo visibile che la colleghi alla parte migliore del proprio passato, senza una visione capace di prospettarle un futuro: per chi è stato al mondo convinto di venire da lontano e di andare lontano, la peggiore delle condizioni.
Invece Renzi e i renziani del primo cerchio, ammesso che ci sia, non ce l’hanno, un passato, delle radici antiche e profonde che non possono essere scalzate senza che venga giù l’albero e scompaia anche il futuro. Ma sono felicissimi di non averle, nella convinzione che questo non sia un limite, ma un formidabile atout . Nati, cresciuti e pasciuti nell’epoca forse della crisi delle ideologie, sicuramente della postpolitica, vivono in tempo reale, e non solo quando cinguettano. La loro dimensione della politica, o della postpolitica, è quella di un eterno presente. La loro dimensione del comunicare è quella del venditore, se non realizzo entro i tempi promessi quel che vi ho detto vuol dire che sono un buffone e me ne vado, soddisfatti o rimborsati. Niente di nuovo sotto il nostro sole, si dirà, ricorrendo anche a precedenti che, a modo loro, fecero epoca: il copyright del modello è di Silvio Berlusconi, che sottoscrisse da Bruno Vespa (correva l’anno 2001) il suo contratto con gli italiani. Come dire che il renzismo oggi incipiente, domani forse dilagante, in fondo sarebbe una specie di berlusconismo dal volto umano. Forse c’è qualcosa di vero in questo parallelo, ma il nesso tra ieri, oggi e (chissà) domani è più sottile e più profondo insieme.
Nel ventennio incardinato, nel bene e nel male, nell’amore e nell’odio, sulla figura di Berlusconi (il ventennio di formazione di Renzi) non si è stipulato un nuovo patto democratico, e non sono sorti veri partiti nuovi. Ma è cambiata la morfologia politica, sociale e culturale del Paese. E i cambiamenti introdotti nello spirito pubblico appena sotto la scorza del conclamato scontro frontale tra due Italie irriducibilmente ostili sono, con ogni probabilità, irreversibili, e comunque non decifrabili sulla scorta dell’antinomia tra destra e sinistra. Questa vecchia coppia, alla quale molti di noi (compreso, si capisce, chi scrive) restano per tanti motivi irriducibilmente legati, già ci diceva poco sui successi di Berlusconi, e ancora meno su quelli di Beppe Grillo: su Renzi e il renzismo non ci dice letteralmente nulla. Si è parlato e si parla sin troppo, spesso a sproposito, di populismo, in Italia e in Europa. Se smettessimo di utilizzare questo termine come un abracadabra, utile per esorcizzare tutto ciò che le nostre categorie novecentesche non riescono né a cogliere né, tanto meno, a spiegare, forse riusciremmo a capire meglio che, ci piaccia o no, proprio un moderno populismo — trasversale, sfaccettato, poliedrico, tenuto insieme, però, da una diffusa ripulsa non solo della politica tradizionale e dei partiti ridotti a vuoti simulacri, ma pure di ogni sorta di establishment e di élite — è il lascito principale del berlusconismo declinante. Grillo lo cavalca per così dire dal basso, come protesta, collera, contestazione generalizzata. Il Renzi presidente del Consiglio che promette davanti a una platea di artigiani del mobile una stagione non di riforma delle pubbliche amministrazioni, ma di «lotta violenta alla burocrazia», ne fa proprie dall’alto le ragioni e, prima ancora, la psicologia diffusa: senza scomodare Antonio Gramsci e la sua concezione della «rivoluzione passiva», forse nel suo caso potremmo parlare di populismo democratico, incrociando le dita per allontanare il rischio (forte) che si tratti di un ossimoro.
E la sinistra? Se le cose stanno in questi termini, la contesa elettorale europea che si approssima non è la sua. A parte quelli che voteranno Tsipras, meglio stare fermi un giro, leccarsi le ferite, interrogarsi, riflettere, predisporsi a intercettare, se ci saranno, tempi migliori. Nella speranza di disporre nonostante tutto di sette vite. Come i gatti.

domenica 13 aprile 2014

Mezzogiorno senza turisti

 Beppe Severgnini 
Why No One Goes to Naples
New York Times, 11 April 2014


NAPLES, Italy — Spring is here. In southern Italy, the sun is shining, the sky is blue and the weather is balmy. Orange blossom fragrances mingle with wafts of jasmine. The food is good, the wine is inexpensive, the locals are friendly and beauty is all around. But where are the tourists?
The Amalfi Coast, south of Naples, is still a magnet for wealthy Russians and romantic Americans. Yet Naples itself is a tourist wasteland, and the rest of southern Italy is largely vacationer-free.
Only 13 percent of tourists who come to Italy go to the Mezzogiorno, as the south is known. The rest head for the center and north of Italy, or other Mediterranean countries altogether. German airports sent 223 flights to Spain’s Balearic Islands in one week last summer, and only 17 to southern Italy.
Defensive Italians, particularly from the prosperous north, will tell you that no one goes to the south because there’s nothing worth seeing (they’re wrong). But the lack of tourists in places like Sicily or Calabria is indicative of a larger, nationwide failure by the country to take advantage of its most precious resources — in this case, the region’s natural and cultural beauty.
Poor marketing is one problem. The Italian Tourist Board spends an astounding 98 percent of its budget on salaries, with basically nothing left for its actual job of tourism promotion. The Italian government tried to boost interest in the southern region with its $50 million Italia.it website, but it still debuted with glitches and inaccuracies.
Or consider how little regional tourism authorities in Italy coordinate with one another. Years ago in Shanghai, I came across three separate delegations representing the same part of Sicily. They also spend wildly: Until recently the Campania regional authority had a palatial New York residence on Fifth Avenue.
Infrastructure is another issue. Italy has wasted time and money fantasizing about a bridge to Sicily. It was the pet project Silvio Berlusconi would wheel out during every election campaign. Yet high-speed rail services stop at Salerno, just beyond Naples, 300 miles to the north. There are trains in the Mezzogiorno that travel at an average speed of 8.7 miles an hour.
Last year I took a rail journey from the far northeastern city of Trieste to Trapani, on the southwestern tip of Sicily. Once I was past Rome, I found another world.
Metaponto, in the Basilicata region east of Naples, has a five-track, marble-clad rail station, paid for by $25 million in European Union funds. But the last train out is an 8:21 a.m. express to Rome. If you want to go anywhere else, you have to take a bus. Farther south, the small locomotive coughing its way along the Ionian coast has to stop as ice-cream-toting teenagers cross the track on their way to the beach.
Nor are the roads any better. Upgrades on the Salerno-Reggio Calabria highway have been going on for 29 years amid a tangle of inflated costs, corruption and Mafia threats. There are stretches where construction work has had to be protected by the army.
This isn’t a regional failure; it’s a national one. Tourism ought to be to southern Italy what oil is to Norway: a blessing and a source of wealth.
And the south could certainly use it. Annual gross domestic product in the south is just over $21,000 per capita, compared with $43,000 in the center and north. Nearly two out of three young southerners have no job. Across Europe 64 percent of women work; in Campania, only 28 percent do.
What does this sorry tale say about Italy as a whole? Across the country, tourism is going from being a given to being a missed opportunity. In the 1970s, Italy was the world’s No. 1 tourist destination. Today, it has slid to fifth place behind France, America, China and Spain. As late as the early 2000s, 6 percent of the world’s tourists came here. Now only 4 percent do.
It also highlights Italy’s poor state of coordination across sectors of society. Despite still being a major destination for vacationers, Italy doesn’t even have a minister for tourism, as other European countries do. Infighting is the norm. Hotel owners argue with vacation rental agencies. Public enterprises and the private sector wage war. Neighboring regions don’t speak to one another. Do you know why flights and trains to Calabria fail to hook up with the ferries that cross the Strait of Messina? Because Calabria doesn’t want to see tourists siphoned off to Sicily.
Finally, the story of southern Italy’s tourism-fail illustrates the country’s inability to grasp how scattershot public funding means waste, not investment. Since World War II, the government has poured $550 billion into the Mezzogiorno, to no avail. By almost every measure, it is actually worse off relative to the rest of the country than it was 60 years ago.
Let’s keep our fingers crossed that the new prime minister, Matteo Renzi, can follow through on his promised reforms. The same things that would make Italy good for Italians — efficient transport, lower taxes, fairer prices, respect for the environment — would also transform southern Italy, and the rest of the country, into a paradise for vacationers.

giovedì 10 aprile 2014

Dieci domande su Lilli Gruber conduttrice

Aldo Grasso
La tv di Lilli Gruber in dieci domande
Corriere della Sera, 10 aprile 2014

Le dieci domande che dobbiamo porci mentre guardiamo «8 e mezzo» di Lilli Gruber (si fa per scherzare, ognuno è libero di rispondere come vuole, magari su «TeleVisioni» il forum di corriere.it).
1) Lilli ha un’ideologia? Certamente, come tutti. Diciamo che il suo è un sinistrismo ben temperato dall’Auditel.
2) Come sceglie gli argomenti? Legge i giornali, ascolta la redazione. Il più delle volte, a caso. Molto dipende dagli ospiti che si trovano, forse anche dagli agenti delle starlet tv.
3) E come gestisce gli ospiti? A seconda delle sue preferenze, politiche e personali. Con alcuni è più «duretta», con altri più morbida, scopertamente.
4) A proposito di domande, perché alcune sono lunghe, verbose e altre stringate? La durata della domanda è la cartina di tornasole dei conduttori. Quando la domanda è lunga significa che vogliono imporre il proprio punto di vista, quando è concisa significa che assecondano l’interlocutore.
5) Perché Lilli interrompe spesso i suoi ospiti, specie quelli che sono in collegamento? Risposta di tipo tecnico. L’interruzione serve per mantenere alto il ritmo della trasmissione e un buon conduttore è anche un metronomo. Risposta di tipo politico. Si interrompono le persone che la pensano diversamente da noi. Non dalle domande ma dalle interruzioni si svela l’ideologia del programma.
6) Perché a metà programma c’è «Il punto di Paolo Pagliaro»? Perché è un suo amico, perché Lilli vuol far vedere che ha studiato e si è preparata.
7) Perché ci sono sempre alcuni interlocutori fissi? In pubblico, tutti abbiamo bisogno di una spalla.
8) Perché invita anche blogger sconosciuti? Per far dire loro le cose più sgradevoli.
9) Perché Lilli fa le boccucce? È una civetteria.
10) Perché presenta anche libri? È una dolce paraguru, come tanti altri conduttori.

martedì 8 aprile 2014

Ruanda, le colpe della Francia

Anais Ginori
Rwanda
“Parigi complice del genocidio

la Repubblica, 9 aprile 2014

PARIGI. Non uno ma tanti segreti. Un mistero lungo vent’anni che continua a perseguitare l’immagine della Francia, proprio in un momento in cui Parigi cerca di tornare protagonista in Africa. «In questi Paesi un genocidio non è troppo importante». Non si sa se François Mitterrand abbia davvero pronunciato questa frase, riportata dal giornalista e scrittore americano Philip Gourevitch, quando iniziò nell’aprile 1994 il genocidio dei Tutsi in Ruanda. Di sicuro, però, gli archivi di Stato custodiscono molte delle risposte alle troppe domande che ancora ci sono sul ruolo dell’esercito francese e sull’amicizia dell’Eliseo con l’allora regime hutu.
Il presidente del Ruanda, Paul Kagame, si è di nuovo scagliato, senza nominarla, contro la Francia. «Nessun Paese è così potente da poter cambiare i fatti» ha detto nel giorno del ventennale dell’eccidio, per poi aggiungere in francese: «Dopo tutto, i fatti sono cocciuti». L’ambasciatore a Kigali, Michel Flesch, è stato definito “persona non grata” alle celebrazioni, provocando un nuovo incidente diplomatico. «Accuse indegne e ingiuste» ha commentato ieri il nuovo premier Manuel Valls, parlando all’Assemblée Nationale.
Una dichiarazione che liquida i tanti punti ancora da chiarire sull’ultimo genocidio del Novecento: 800mila vittime in poco più di cento giorni. Quando è stato avvertito il governo di Parigi dei massacri che si stavano preparando? Quando ha finalmente interrotto il rifornimento di armi al regime Hutu? Ci sono state complicità o solo omissioni da parte del comando francese della missione Onu “Turquoise”? E infine: quale è stato il ruolo dei servizi segreti e chi ha organizzato l’abbattimento del Falcon su cui viaggiava il presidente Juvénal Habyarimana il 6 aprile 1994, episodio che ha poi dato inizio alla guerra civile?
Su quest’ultima domanda ci sarà forse una risposta della magistratura francese che, dopo un lungo lavoro di ricostruzione, dovrebbe emettere una sentenza prima dell’estate. Un primo passo verso la verità. Non certo sufficiente. «È tempo di aprire gli archivi di Stato per fare entrare il genocidio del Ruanda nella Storia »scrive Le Mondein primapagina. Molti ricordano che Parigi appoggiò già dai primi anni Novanta il regime di Habyarimana, foraggiando e addestrando il suo esercito contro il Fronte patriottico. Arrivato al potere, Kagame ha sempre parlato di connivenza e complicità, accusando in particolare la Francia, che nel ‘94 sotto l’egida dell’Onu aveva 2.500 soldati, e il Belgio, ex potenza coloniale che aveva mal digerito l’indipendenza ottenuta dal piccolo Paese africano nel 1961.
Alcuni cablogrammi dimostrano che il ministero degli Esteri e l’Eliseo sapevano della pulizia etnica in corso. Dopo l’inizio dei massacri, Mitterrand è stato l’unico leader occidentale a ricevere il governo provvisorio Hutu che stava conducendo i massacri. Ci sono prove della vendita di armi da parte di alcuni mercanti collegati a Parigi. E quando comincia l’operazione “Turquoise”, a partire dal giugno ‘94, molte testimonianze ricordano che i militari francesi non hanno impedito lo sterminio dei Tutsi, in nome di una presunta “neutralità”. Anzi, secondo quanto rivela Guillaume Ancel, la missione «non era umanitaria ma militare». «Dovevamo aiutare il regime Hutu a riconquistare il paese» racconta Ancel che aveva 28 anni quando arrivò in Ruanda per partecipare all’operazione Turquoise e ora pubblica un libro su questa oscura pagina di storia.
Il presidente ruandese rilancia le accuse mentre è a sua volta sospettato di aver ordinato l’uccisione di oppositori politici in esilio e di fomentare la pulizia etnica in Congo. Kagame cita un rapporto del 2008, presentato dal ministero della Giustizia ruandese, che documenta il ruolo, tra gli altri, di Mitterrand, dell’ex premier Edouard Balladur, del ministro degli Esteri Alain Juppé e del direttore del suo gabinetto Dominique de Villepin. Ancora una volta, la classe politica francese fa muro contro le gravi insinuazioni. Nel 1998 una commissione parlamentare aveva riconosciuto solo «errori di valutazione ». Con il tempo, il silenzio ufficiale diventa insostenibile. E nonostante le strumentalizzazioni politiche di Kagame, le domande che attendono risposta sono sempre più pressanti.


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Colette Braeckman

Le Rwanda est devenu une histoire française
Le Soir, 6 avril 2014


Indigné par les accusations formulées par M. Kagame, Paris a décommandé la représentation française à la commémoration du génocide, estimant que les propos tenus portaient atteinte à l’honneur de la France. Les griefs en effet sont parmi les plus graves qui soient :préparation d’un génocide et participation à son exécution !
Ces reproches reposent non seulement sur la connaissance des faits par les Rwandais eux-mêmes (les troupes du FPR savaient parfaitement que les canons de 102 mm qui semaient la mort dans leurs rangs étaient actionnés par des artilleurs français) mais sur les révélations qui se multiplient en France même et suscitent une importante production éditoriale. En outre, vingt ans après la tragédie, la « Grande Muette » commence à rompre la règle du silence ; interrogé par France Culture, un officier aujourd’hui retraité explique cette semaine qu’en 1994, dans le cadre de l’opération Turquoise présentée comme « humanitaire », il avait pour mission d’empêcher le FPR de s’emparer de Kigali, de barrer la route aux rebelles en les bombardant et de conduire l’armée hutue en déroute vers le Kivu, dotée de tout son arsenal militaire, afin de préparer une revanche. Sur pression du Premier Ministre Edouard Balladur, qui menaçait de démissionner et s’opposait à l’Elysée, l’opération Turquoise fut finalement ramenée à sa dimension humanitaire. Mais à Bisesero, dans la « zone humanitaire sûre » qu’ils avaient créée et qui abritait les tueurs, les Français, -qui n’étaient pas là pour cela- négligèrent durant plusieurs jours de se porter au secours de milliers de Tutsis assiégés et qui espéraient leur aide.
L’armée française, malgré les comités de soutien, les professions de foi et la littérature de commande, ne s’est jamais guérie du Rwanda : elle est malade de ce qu’elle a vu et fait, malade de ceux qu’elle a soutenus, malade aussi des ordres reçus et exécutés, sans oublier certaines « bavures » comme des cas de viol rapportés par des témoins locaux.
S’agît il pour autant de la « préparation » d’un génocide et de la « participation » à son exécution ? Il appartiendra à d’éventuels tribunaux ou commissions d’enquête d’en décider mais ce qui est certain, c’est que la cellule africaine de l’Elysée, en soutenant jusqu’au bout les extrémistes hutus, a pris le risque de les voir mettre en œuvre une solution finale et malgré les paravents humanitaires, elle s’est montrée indifférente au calvaire des Tutsis.
Une certaine France a donné au « Hutu power » les moyens de son action, elle a soutenu jusqu’au bout ses dirigeants et aujourd’hui encore elle s’obstine dans le déni. Il faudra plus qu’un procès d’assisses et quelques gestes de bonne volonté pour dépasser cette histoire là : comme l’affaire Dreyfus, comme le procès Papon, le Rwanda est aussi devenu un enjeu français.