Natalia Aspesi
L’altra metà del sesso
Da Freud a Sex and the City. Tra tabù e falsi miti la scoperta del piacere femminile è stata una conquista
Così è saltata la costruzione artificiale fatta sulla natura: madre, monogama, fedele, priva di fantasie erotiche
E la convinzione che la vecchiaia sia l'età dell’astinenza
la Repubblica, 2 aprile 2014
OGNI volta che un uomo si occupa di sessualità femminile, a partire dal
mitico Freud, si resta di sale: ma come, se lo raccontano ancora, ce lo
raccontano ancora, che le donne non sono come da secoli se lo dicono e
ce lo dicono? La loro signora non gli ha mai dato una sveglia? Non hanno
mai letto i testi fondamentali degli anni ‘70, scritti ovviamente da
donne in cui solo alle donne (gli uomini non li leggevano), si spiegava
che “non era per piacere a Dio”, ma trovando una persona volonterosa e
creativa, maschio solitamente, si poteva godere scompostamente “per
piacer mio”, come si vede oggi in ogni pubblicità di yogurt gustato da
femmine. Proprio nel paese del serioso giornalista Daniel Bergner che
crede di sapere cosa vogliono le donne, gli Stati Uniti, uscì nel 1971
(poco dopo in Italia da Feltrinelli) “Our bodies, ourself”, in cui un
collettivo femminile di Boston ce la raccontava tutta. Per le donne una
rivelazione, sia per chi non ne sapeva niente e sperimentava il suo
corpo nel sesso solo come un vuoto soporifero, sia per chi in certe
situazioni si vergognava se le veniva da gridare, terrorizzando
l’inconsapevole collaboratore. Il libro conteneva anche orrifici grafici
di quella cosa là, assolutamente sconosciuta sia alla proprietaria che a
chi se ne riteneva l’utente. Anche da noi i gruppi di autocoscienza si
obbligarono a mettere uno specchietto tra le gambe per vedere questa
cosa invisibile, che si era costrette tra brividi a trovare bellissima.
Quel saggio fu radicale, disse di smetterla di credere o far finta di
credere all’illusione maschile di possedere uno strumento penetrativo
salvifico e in grado di far felici le donne già al primo sguardo. Disse,
sorpresa! che il vero piacere femminile era nel clitoride, sempre che
si trovasse qualcuno con la pazienza di rintracciarlo: o di seguire gli
ordini della proprietaria che per conto suo l’aveva già favorevolmente
sperimentato.
Da quel momento i testi scritti da donne sull’argomento
furono una valanga, comprese le inchieste anni ’70 di Nancy Friday
sulle fantasie masochiste femminili, che si riallacciavano al magistrale
e a suo tempo proibito Histoire d’O( anni ‘50), della porchissima
studiosa di monachesimo Paulin Reage. Lo smascheramento di massa della
sessualità delle donne, silenziosamente, mandò all’aria,
almeno teoricamente, tutta la costruzione artificiale sulla loro natura:
madre (o puttana), monogama, fedele, priva di fantasie erotiche, nemica
della pornografia (anche se ormai scritta da donne e letta quasi solo
da donne).
Da anni ormai al cinema sono più le scene in cui è lui ad
abbassarsi goloso sotto la vita di lei, che intanto mugola, di quelle in
cui è lei a farlo su di lui (che spesso non mugola). Resta
indimenticabile un film inglese molto divertente accolto però con una
certa pruderie, Hysteria (2011) che racconta dell’invenzione fine
Ottocento dell’antenato del vibratore: adottato dai medici come cura
all’isteria, cioè a quella perniciosa malattia che era l’impossibile
godimento delle donne. La televisione ha portato in tutto il mondo
l’intelligente, spiritosa, coraggiosa serie Sex and the city, 94 puntate
dal ‘98 al 2004, ridate anche da noi decine di volte e sempre
illuminante: scritta da donne ha raccontato benissimo il bisogno d’amore
femminile attraverso l’accumulo di avventure sessuali e talvolta pure
sentimentali, sino all’immancabile finale, quello non cambia mai, del
“vissero felici e contenti”.
Ma in generale la maschilità è zuccona,
smemorata, fragile ed egoista: ancora sono in tanti, anche cervelloni, a
immaginare l’erotismo come un servizio addirittura sociale, pure a
spese dei contribuenti, che si prenda per esempio carico degli anziani
insaziabili, senza neppure obbligarli non si dice a pagare, ma almeno a
meritarselo con una certa capacità di seduzione o di risvegliare in
buone Signore della Lampada un senso di cura e abnegazione. Giovani
però, perché il maschio vecchio tende a sfuggire le coetanee: non è di
una donna che queste persone, hanno bisogno, ma di un contenitore che
accolga senza orrore lo sfacelo del loro corpo. E le anziane? Hanno
imparato da secoli a nascondere i loro non riconosciuti piaceri, a
soddisfarli oppure a farne a meno, quasi sempre con grande contentezza,
magari dopo decenni di noiosissimo sesso coniugale. Hanno maggior senso
di dignità del loro corpo, hanno avuto quello che hanno avuto e va bene
così. Però sono tante le coppie invecchiate insieme, e lo scrivono a
Questioni di cuore, che continuano ad amarsi, con la meravigliosa
tenerezza che nasce dall’abitudine, dal rispetto, dalla riconoscenza
reciproca per quella gioia inestricabile che ha insegnato a due corpi ad
armonizzarsi oltre la bellezza e la giovinezza.
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Guido Ceronetti aveva scritto:
UNA
parola infallibile ci dice l’essenziale. Sofocle, Edipo a Colono, dramma
della vecchiaia e del suo potere magico, che si paga a caro prezzo: «La
più grande sciagura per un uomo è una lunga vita».
Verità che il volgo
aborrisce, contestata rabbiosamente, ma cui bisogna arrendersi:
vecchiaia è brutto, vecchiaia protratta è ininterrotto soffrire fino
alle peggiori degradazioni di esseri più o meno innocenti. E oggi sono
moltitudine. E in Italia più numerosi che altrove. Eppure là, dove si
gioca a scacchi interminabilmente la partita perdente con la Morte,
qualcosa d’indecifrato, di coniugante cielo e terra, di rivelatore
d’essere, si nasconde. A un artista pensante (vedi Bosch, Rembrandt) in
modo preminente interessano i vecchi. Togli i vecchi da una città e ne
fai una città morta. La loro terribile sofferenza la protegge. Metterli
da parte, costringerli all’ozio, abbrutirli di TV e psicofarmaci è un
crimine inodoro che attira il male.
Ma queste sono divagazioni. Va
messo in luce questo stupefacente esempio di barbarie medica, politica,
sociale: la fabbrica dei giubilati, degli esclusi, dei frustrati del
sesso, e dell’amore a sfondo sessuale, a partire da un’età prossima alla
settantina, o ancor prima, fino alla spossatezza e alle disperazioni di
quelli che la geriatria contemporanea non abbandona neppure al di là
dei cento.
LA RINUNCIA forzata è, approssimativamente, di una
trentina d’anni, la durata media del tempo iuvenile. Per disabili e
carcerati, in paesi civili, qualcosa si è mosso e si sta muovendo; ma
per i vecchi-maschi, eterosessuali, coniugati o soli (quelli di cui
posso conoscere meglio e condividere le sciagure della longevità) si
muoverà mai qualcuno?
C’è un notevole vantaggio nella sessualità
senile: il cosiddetto istinto che acceca e spinge a procreare (cosa
dall’utilità discutibile), piglia altre strade: si depura e
spiritualizza, o si perverte e si maializza. Ma spiritualizzarsi non è
rinunciare, e la maialità è spiegabile coll’indebolimento del controllo
mentale. Giovenale dice che i vecchi hanno tutti le stesse facce (una
facies senum): massima sbagliatissima, le stesse facce ce l’hanno i
neonati, i vecchi più si fanno orridi più sono caratteristici i loro
volti tristi. La persistenza del desiderio è madre d’infinite
disperazioni, che per lo più non poche chiavi nei nostri sepolcri
psichici tengono sepolte. Hillman nel suo mirabile saggio sulla
vecchiaia raccomanda di mantenere viva l’immaginazione erotica:
benissimo, ma poi come esci da quel tormento?
Il ricorso alle
prostitute non è certo un rimedio. La prostituzione degrada l’uomo,
molto più della donna. Del resto le battone sono una specie in
estinzione. Ma dal momento che già esiste nell’Europa non cattolica il
servizio erotico volontario per i disabili, non dovrebbe essere fatto un
passo successivo estendendolo a tutti i vecchi d’immaginazione vivace e
di speranza morta? Le ierodule erano persone sacre che compivano un
servizio presso tutti gli antichi templi d’Occidente come d’Oriente: si
tratterebbe di far riemergere secondo una socializzazione d’anno
Duemila, quella sacralità femminile, del corpo offerto liturgicamente
per amore della Divinità, che certissimamente non è mai morta.
Non
tocca a me, scrittore, dire modalità e legiferare intorno a questo
costume che potrebbe diminuire, di poco o di molto, l’aggressiva
veemenza delle infelicità esistenziali. Disse una volta Buddha a un
monaco che, in città, aveva frequentato prostitute: — Era meglio per te
mettere il tuo arnese tra le fauci di una tigre, piuttosto che tra le
gambe di una donna! — E come maestro di salvezza non aveva torto: quelle
gambe procurano un’estasi nirvanica di attimi, ma ahimè ti giochi là
qualsiasi merito in vista di un Nirvana autentico che ti libererebbe
dalla catena delle rinascite, supremo male.
Però, caro Dottor
Buddha, non siamo che poveri esseri mortali, e se ai denti di una tigre
preferiamo le carezze compensatrici di una donna illegittimamente
giovane — per il diritto di sognare — faremo di colpo scattare
l’inesorabile, se la temiamo, punizione karmica? La sofferenza è umana,
ma non siamo uomini soltanto per soffrire. Il trenino che porta al Paese
delle Nevi di Yasunari Kawabata, qualunque sia la nostra età
anagrafica, non è da perdere.
Diritto d’untore
Mettiamo fine alla barbarie della vecchiaia senza sesso
Una proposta per diminuire l’aggressiva veemenza delle infelicità esistenziali
la Repubblica, 1 aprile 2014
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