Massimo Recalcati
Recalcati: “Mamme Medea. L’amore divorante che si trasforma in desiderio di morte”
la Repubblica, 14 marzo 2014
Potremmo definirlo “complesso di Medea”
quello che porta le madri a uccidere i propri figli rovesciando d’un sol
colpo la catena della generazione: ti ho dato la vita e ora ti do la
morte. È a Corinto nel 431 a.C. che Euripide mette in scena la tragedia
di Medea. In essa si narra la vicenda di una donna che non può
sopportare il tradimento del suo uomo Giasone e che per vendetta uccide
spietatamente i suoi figli. La spinta verso il figlicidio è provocata
dalla ferita causata dal trauma dell’abbandono. Se di fronte all’amore
che univa nell’idillio iniziale Medea a Giasone il coro poteva
ricordarci che «è la più grande delle fortune quando una donna va
d’accordo con il proprio uomo», Medea dopo il tradimento, subito come
una ferita insanabile, ci mostra che «quando una donna si vede tradita
nell’amore, la sua ferocia non conosce limiti».
Nel suo caso è la follia della gelosia a
pervertire la funzione dell’accudimento e della protezione della vita
che caratterizza la funzione materna. Ma quale verità profonda si annida
nel gesto estremo di Medea? In esso dobbiamo vedere emergere tutta la
differenza che separa l’essere donna dall’essere madre. Alla luce della
psicoanalisi sappiamo quanto problematico sia per una donna diventare
madre senza perdersi come donna. Un tempo era quasi la regola: divenire
madre per una donna significava morire come donna, sacrificare tutta la
propria femminilità all’accudimento della vita dei propri figli. Con la
conseguenza che il legame materno coi figli diveniva a sua volta
patologico, fagocitante, cannibalico. Se, infatti, una donna diventa
tutta madre i suoi figli si troveranno inchiodati nella posizione
insostenibile di chi deve consolare e colmare la vita che a loro si è
dedicata. Il gesto di Medea mostra dunque quanto la non coincidenza tra
donna e madre possa rivelarsi tragica. È perché si è sentita rifiutata
come donna che si cancella come madre cancellando a sua volta anche la
vita dei suoi figli.
Molti casi di cronaca rispondono al
complesso di Medea. Una donna non si può accontentare di apparire agli
occhi dell’uomo che ama solo come una madre. Esige, giustamente, di
continuare a esistere e ad essere desiderata come donna. Sappiamo come
la nascita di un figlio possa destabilizzare anche le coppie più solide.
Un uomo può faticare a riconoscere la donna che amava e desiderava
sessualmente in quella che è divenuta la madre dei suoi figli e una
donna può non riconoscere più nel padre dei suoi figli l’uomo che l’ha
fatta innamorare.
Ma esistono anche altre ragioni che
possono animare il passaggio all’atto del figlicidio. Freud aveva messo
in evidenza l’equivalenza del bambino col fallo. Questa equivalenza
significava come attraverso la maternità una donna avesse la possibilità
di superare l’invidia del pene colmando la propria mancanza con il
potere di generare e accudire la vita. È il senso di pienezza e di gioia
che accompagna ogni maternità sufficientemente buona. Ma questa
rappresentazione del bambino fallo deve essere integrata con qualcosa di
più inquietante che si annida in ogni esperienza di maternità sin dal
momento del concepimento. Il pensiero inconscio (o conscio) di molte
donne relativo al non essere in grado di generare. L’ombra della
deformazione, della mostruosità, del figlio inadeguato o malato, cala
così sul desiderio di maternità. Come se tra il bambino immaginato nelle
sue vesti più ideali (falliche) e il bambino reale vi fosse un divario
impossibile da colmare.
Questo divario è ciò che spiega
l’angoscia, a volte spessa altre più sottile, che può accompagnare il
periodo della gravidanza ma anche quello della “ricerca” di un figlio.
Sarò davvero in grado di generare? Sarò davvero in grado di donare la
vita? Dietro queste domande sorge prepotente la figura della madre
primordiale e la necessità affinché si realizzi un accesso positivo alla
maternità che il cordone ombelicale con questa madre sia stato reciso,
ovvero che sia avvenuta una giusta trasmissione del desiderio tra madre e
figlia. Per diventare davvero madre una donna non può continuare ad
essere figlia. Il giudizio con il quale allora una madre può non
tollerare l’imperfezione del figlio – la sua non coincidenza con il
figlio immaginato, con quello che Silvia Vegetti Finzi* definisce il
«figlio della notte» – sino al punto di sopprimerne la vita, riflette
spesso il giudizio severo di cui è stata a sua volta vittima. La volontà
narcisistica di avere un figlio ideale, perfetto, coincidente con il
figlio immaginato, non può accettare il limite costituito dall’esistenza
reale del figlio. L’amore materno che è sempre amore per il figlio
nella sua particolarità anche più difettosa, lascia in questi casi il
posto ad una sua trasfigurazione perversa: la gioia della maternità non è
più quella di donare la vita ma solo quella di avere un figlio ideale.
Se il figlio si discosta da questo ideale deve essere rifiutato. Molte
depressioni post partum parlano di questo rifiuto che trova la sua
manifestazione più crudele nel passaggio all’atto dell’infanticidio.
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