Paolo Franchi
Il contratto di Renzi con gli italiani manda in tilt le categorie della sinistra
Corriere della Sera, 15 aprile 2014
«No, il dibattito no!»: dal lontano 1976 il grido disperato che si alza
dalla sala nel primo film di Nanni Moretti, Io sono un autarchico, è, a
sinistra, quasi un oggetto di culto. E proprio così — «no, il dibattito
no!» — verrebbe da urlare di fronte alla contesa che s’è aperta fra
Matteo Renzi e i suoi contestatori «di sinistra» nel Pd. Certo non
perché questi ultimi siano dei revenant, o peggio dei sabotatori, come
pure già si legge quotidianamente, o una sorta di quinta colonna, come
prima o poi si leggerà, solo perché contestano il segretario-presidente.
Ma, più semplicemente, perché Renzi la sua partita l’ha già vinta; e di
conseguenza gli oppositori, se davvero fanno conto, com’è legittimo che
sia, su una rivincita, dovrebbero prima di tutto stabilire come e
perché hanno perso la loro. Partendo da un dato di fatto
incontrovertibile. Il diciassette e poco più per cento ottenuto da
Gianni Cuperlo (che pure tutto è fuorché l’apparatcik tardo-comunista
rappresentato da tanti presunti commentatori) ha segnato la fine di quel
che restava non solo del Pci-Pds, ma della sinistra per così dire
«storica» italiana. Una sinistra che in Italia c’è ancora, eccome. Ma
che vive di ricordi e talvolta di risentimenti, perché non dispone di un
insediamento sociale e non esprime né una leadership né un programma
né, quel che è peggio, un’idea di Paese. E, priva com’è di un’anima,
galleggia annaspando in un presente gramo, senza un filo visibile che la
colleghi alla parte migliore del proprio passato, senza una visione
capace di prospettarle un futuro: per chi è stato al mondo convinto di
venire da lontano e di andare lontano, la peggiore delle condizioni.
Invece Renzi e i renziani del primo cerchio, ammesso che ci sia, non ce
l’hanno, un passato, delle radici antiche e profonde che non possono
essere scalzate senza che venga giù l’albero e scompaia anche il futuro.
Ma sono felicissimi di non averle, nella convinzione che questo non sia
un limite, ma un formidabile atout . Nati, cresciuti e pasciuti
nell’epoca forse della crisi delle ideologie, sicuramente della
postpolitica, vivono in tempo reale, e non solo quando cinguettano. La
loro dimensione della politica, o della postpolitica, è quella di un
eterno presente. La loro dimensione del comunicare è quella del
venditore, se non realizzo entro i tempi promessi quel che vi ho detto
vuol dire che sono un buffone e me ne vado, soddisfatti o rimborsati.
Niente di nuovo sotto il nostro sole, si dirà, ricorrendo anche a
precedenti che, a modo loro, fecero epoca: il copyright del modello è di
Silvio Berlusconi, che sottoscrisse da Bruno Vespa (correva l’anno
2001) il suo contratto con gli italiani. Come dire che il renzismo oggi
incipiente, domani forse dilagante, in fondo sarebbe una specie di
berlusconismo dal volto umano. Forse c’è qualcosa di vero in questo
parallelo, ma il nesso tra ieri, oggi e (chissà) domani è più sottile e
più profondo insieme.
Nel ventennio incardinato, nel bene e nel male, nell’amore e nell’odio,
sulla figura di Berlusconi (il ventennio di formazione di Renzi) non si è
stipulato un nuovo patto democratico, e non sono sorti veri partiti
nuovi. Ma è cambiata la morfologia politica, sociale e culturale del
Paese. E i cambiamenti introdotti nello spirito pubblico appena sotto la
scorza del conclamato scontro frontale tra due Italie irriducibilmente
ostili sono, con ogni probabilità, irreversibili, e comunque non
decifrabili sulla scorta dell’antinomia tra destra e sinistra. Questa
vecchia coppia, alla quale molti di noi (compreso, si capisce, chi
scrive) restano per tanti motivi irriducibilmente legati, già ci diceva
poco sui successi di Berlusconi, e ancora meno su quelli di Beppe
Grillo: su Renzi e il renzismo non ci dice letteralmente nulla. Si è
parlato e si parla sin troppo, spesso a sproposito, di populismo, in
Italia e in Europa. Se smettessimo di utilizzare questo termine come un
abracadabra, utile per esorcizzare tutto ciò che le nostre categorie
novecentesche non riescono né a cogliere né, tanto meno, a spiegare,
forse riusciremmo a capire meglio che, ci piaccia o no, proprio un
moderno populismo — trasversale, sfaccettato, poliedrico, tenuto
insieme, però, da una diffusa ripulsa non solo della politica
tradizionale e dei partiti ridotti a vuoti simulacri, ma pure di ogni
sorta di establishment e di élite — è il lascito principale del
berlusconismo declinante. Grillo lo cavalca per così dire dal basso,
come protesta, collera, contestazione generalizzata. Il Renzi presidente
del Consiglio che promette davanti a una platea di artigiani del mobile
una stagione non di riforma delle pubbliche amministrazioni, ma di
«lotta violenta alla burocrazia», ne fa proprie dall’alto le ragioni e,
prima ancora, la psicologia diffusa: senza scomodare Antonio Gramsci e
la sua concezione della «rivoluzione passiva», forse nel suo caso
potremmo parlare di populismo democratico, incrociando le dita per
allontanare il rischio (forte) che si tratti di un ossimoro.
E la sinistra? Se le cose stanno in questi termini, la contesa
elettorale europea che si approssima non è la sua. A parte quelli che
voteranno Tsipras, meglio stare fermi un giro, leccarsi le ferite,
interrogarsi, riflettere, predisporsi a intercettare, se ci saranno,
tempi migliori. Nella speranza di disporre nonostante tutto di sette
vite. Come i gatti.
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