Antonio Melis
L'eterna stagione di Gabo
il manifesto, 19 aprile 2014
Intorno alla seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso uno
tra i grandi temi del dibattito letterario internazionale
ruotava intorno alla morte del romanzo. Ma nella remota Colombia,
tagliata fuori dai circuiti ufficiali, non era ancora arrivata
notizia delle esequie di questo grande genere letterario della
società borghese, sulla cui definizione si erano cimentati illustri
teorici, da Hegel, fino a Lukács e a Goldmann.
Fu così che uno scrittore ormai vicino ai quarant’anni si permise di pubblicare nel 1967 un romanzo titolato Cent’anni di solitudine,
dopo altre prove narrative notevoli, rimaste circoscritte a un
pubblico ridotto e che sarebbero state recuperate solo
successivamente, per l’effetto trainante del successo clamoroso
di quel testo. Romanzi come Foglie morte (La hojarasca), Nessuno scrive al colonnello, La mala ora e raccolte di racconti come I funerali della Mama Grande, venivano letti come momenti preparatori di una grande sintesi, ma anche apprezzati nel loro valore autonomo.
Ho ricordato quella congiuntura culturale, proprio perché il
«segreto» di García Márquez è stato, in fondo, abbastanza semplice.
Ignorando le sofisticate elucubrazioni delle teorie critiche à la page, lo scrittore colombiano aveva riscoperto l’elementarità e l’universalità del gusto di raccontare una storia.
Del resto, la struttura del suo romanzo poteva richiamare le saghe,
da quelle antiche al modello contemporaneo offerto dai romanzi di
William Faulkner. Ma poteva con la stessa legittimità, per un altro
tipo di lettori, evocare – portandole a un livello letterario
raffinato – le suggestioni della telenovela, con il suo gusto per
la proliferazione infinita dei personaggi. Da questo singolare
connubio di alto e basso era scaturito un autentico miracolo:
riunire in tutto il mondo, intorno alle sue pagine, il lettore colto
e quello ingenuo.
A partire da allora intere biblioteche sono state scritte su quel
romanzo e in generale sull’opera di García Márquez, sopravvissuta
gloriosamente a quel bombardamento a tappeto. Uno tra gli omaggi
più caldi e profondi tributati al suo capolavoro sta in alcune
righe che gli dedicò, a ridosso della pubblicazione, un altro grande
scrittore ispanoamericano della generazione anteriore, José
María Arguedas, nel suo ultimo romanzo, La volpe di sopra e la volpe di sotto, rimasto inconcluso per il colpo di pistola con il quale l’autore pose fine alla sua vita.
Nel primo dei «Diari» che si alternano con la narrazione c’è una
sorta di resa dei conti, spesso aspra, con i suoi colleghi
latinoamericani che stavano costruendo quello splendido episodio
di liberazione culturale, che sarebbe poi stato malamente
chiamato «boom». Ecco come Cent’anni di solitudine viene
salutato: «Non parlerebbe così quel García Márquez che assomiglia
molto a donna Carmen Taripha, di Maranganí, presso Cuzco. Carmen
raccontava al prete, di cui era perpetua, storie interminabili
di volpi, dannati, orsi, bisce, ramarri; imitava quegli animali con
la voce e con il corpo. Li imitava così bene che la sala della
canonica si trasformava in caverne, in boschi, in pune e gole dove
risuonavano lo strisciare della serpe che fa muovere piano le erbe
e gli stecchi, il parlare della volpe un po’ scherzoso e un po’
crudele, quello dell’orso che è come se avesse della farina impastata
in bocca, quella del topo che taglia con il suo filo anche l’ombra;
e donna Carmen camminava come una volpe e come un orso, e muoveva le
braccia come una serpe e come un puma, faceva anche il movimento
della coda; e ruggiva proprio come i dannati che divorano gente
senza mai saziarsi; così la sala della canonica era qualcosa di simile
alle pagine di Cent’anni…».
In Italia il successo del romanzo, tradotto tempestivamente,
fu immediato, sebbene non mancassero fenomeni di incomprensione
da parte di intellettuali, anche illustri, ma legati
inesorabilmente agli schemi eurocentrici, che non capirono come
García Márquez facesse irrompere un mondo letterario
irriducibile a criteri di giudizio elaborati a partire da un
altro contesto.
L’appropriazione indebita avvenne anche attraverso l’impiego quasi
ossessivo di categorie come quella del «realismo magico»,
destinata ad avere un grande successo e quindi ad agire
negativamente non solo sui lettori, ma addirittura sugli stessi
scrittori ispanoamericani più giovani, molti dei quali
cominciarono a cavalcare astutamente l’onda del successo, offrendo
spesso prodotti stereotipati che venivano incontro all’eterno
bisogno di esotismo del mondo egemonico. La letteratura
ispanoamericana aveva già anni prima creato un possibile antidoto
per questi fraintendimenti, attraverso la categoria del «reale
meraviglioso» enunciata dal cubano Alejo Carpentier nel prologo al
suo straordinario romanzo Il regno di questo mondo,
ambientato ad Haiti negli anni della rivolta della popolazione
africana che aveva dato vita al primo stato indipendente dell’America
cosiddetta Latina. Dopo essere passato, come altri grandi
scrittori di quell’area, attraverso l’esperienza surrealista
parigina, Carpentier aveva capito che nell’abnormità dei fenomeni
latinoamericani, da quelli fisici a quelli sociali, c’era una fonte
propria di meraviglia che rendeva obsolete le ricette
intellettualistiche prodotte nel vecchio continente.
Capii tutta la portata di quella dichiarazione d’indipendenza (non di autarchia) quando, pochi anni dopo l’uscita di Cent’anni di solitudine,
nel mio primo viaggio in Colombia, potei consultare nelle
emeroteche i giornali degli anni Venti, dove si riferivano
i massacri della compagnia bananera che compaiono nel romanzo,
e che erano stati recepiti dalla critica e, più ovviamente, dal
pubblico, come pura invenzione letteraria, partorita dai nuovi
bestioni vichiani, tutti senso, stupore e fantasia. Non voglio
proporre, è ovvio, un banale principio di verosimiglianza, ma
indicare un esempio particolarmente significativo della
dialettica fra storia e creazione letteraria che sta alla base di
Cent’anni di solitudine e che spiega le sue molteplici possibilità di lettura, come succede con tutti i testi veramente grandi.
L’opera di García Márquez è proseguita fino alla vecchiaia, fra
romanzi, racconti, cronache e memorie, con risultati alterni. Come
in altri scrittori della sua generazione, che hanno sfruttato la
loro rendita di posizione, il mestiere sempre più raffinato
è prevalso molte volte sull’autentica invenzione. Vale anche, sebbene
a molti suonerà come una bestemmia, per la sua prova più
vertiginosa dal punto di vista dell’impegno stilistico, l’ingegnoso
e sopravvalutato L’autunno del patriarca, un testo più
adatto agli esercizi funambolici della critica e alle tesi
dottorali che al godimento del lettore. Ma basterebbe la grande
saga di Macondo, capace meritatamente di rinominare il paese di
nascita di García Márquez, a garantire allo scrittore un posto nella
letteratura destinata a durare nel tempo, oltre le mode
editoriali e quelle create dalla critica.
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Maurizio Stefanini
Cent'anni di similitudine
Il Foglio, 7 maggio 2011
Non solo l’Italia ha i suoi campanilismi tra “polentoni” e “terroni”. In
Colombia le sfottiture reciproche tra esuberanti “costeños” della
regione caraibica e sussiegosi “cachacos” della regione andina sono
abbastanza simili: salvo il particolare che là è il nord che sta a sud, e
viceversa. E una prima storia per spiegare alcuni curiosi retroscena su
un mito letterario del XX secolo parla appunto di un ventenne
“costeño”. Un giovanotto allampanato con i baffetti, una capigliatura
ribelle e una faccia da indio, che una famiglia complicata ha mandato a
studiare Diritto nella fredda e compunta Bogotá. Anni dopo, nel romanzo
che lo trasformerà appunto nel citato mito letterario, la descriverà
come “una città lugubre per le cui viuzze di pietra traballavano ancora,
in notti da incubo, le carrozze dei vicerè. Trentadue campane suonavano
a morto alle sei di sera”. Ma sul momento, per sfogare la propria
malinconia scrive poesie nostalgiche su un giornale studentesco. “Ed era
il mare del primo amore / in due occhi autunnali… / Un giorno volli
vedere il mare / – ma dell’infanzia – ed era troppo tardi”. Finché un
pomeriggio uno studente suo conterraneo non gli presta un racconto di
Franz Kafka, tradotto da Jorge Luis Borges. Il costeño triste torna alla
pensione, sale nella sua stanza, si sfila le scarpe, si stende sul
letto, e inizia a leggere. “Gregorio Samsa, svegliatosi una mattina da
sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto
immondo”. Folgorato, esclama: “Merda, mia nonna parlava esattamente
così!”.
Quattro anni dopo, il giovanotto è tornato nella regione di origine, e
la gira come venditore ambulante di enciclopedie e manuali. Nel
frattempo ha lasciato perdere gli studi: per un complesso di ragioni che
va da problemi di finanze familiari, alla guerra civile che intanto è
scoppiata nel paese, alla propria sostanziale allergia per il Diritto.
Ma, soprattutto, la scoperta delle affinità linguistiche tra Kafka e
nonna Tranquilina lo ha deciso di darsi alla narrativa. “Scriverò il
nuovo ‘Don Chisciotte’”, ha addirittura promesso agli amici. La carriera
letteraria sembra però essersi arenata, dopo che il suo primo libro è
stato bocciato da una editoriale argentina di cui è direttore proprio il
cognato di Borges. E pure un lavoro da giornalista lo ha lasciato
perdere, perché lo pagano troppo poco. Lui, però, resta convinto che
sarà il nuovo Cervantes. E quel lavoro pur raffazzonato lo ha dunque
accettato con piacere perché, oltre a permettergli di sbarcare il
lunario, gli dà la possibilità di conoscere persone e luoghi. In uno dei
suoi tour lo accompagna un amico musicista che si chiama Rafael
Escalona, e che diventerà il massimo interprete di un genere musicale
chiamato “vallenato”: una specie di liscio, salvo che il suono
europeizzante dell’organetto vi è scandito con ritmi africani. Dopo una
settimana di viaggio i due stanno bevendo birra e rum ghiacciati in una
bettola, quando si avvicina loro un giovanotto dall’aria decisa vestito
da cowboy: cappello a tesa larga, gambali in cuoio sui pantaloni,
pistola alla cintura. Siamo nel 1952, ma in quelle zone si vive ancora
come nei western di Sergio Leone. E da western di Sergio Leone è infatti
la scena che segue, quando Escalona invitandolo a unirsi alla bevuta
dice al cowboy: “Permettimi di presentarti Gabriel García Márquez”. E
l’altro, stringendogli la mano: “Ha qualcosa a che vedere col colonnello
Nicolás Márquez?”. “Soy su nieto”: in spagnolo “nipote di nonno”, che a
differenza del generico italiano è chiaramente distinto dal “sobrino”,
“nipote di zio”. “Sono suo nipote”. “Allora è suo nonno che ha ammazzato
mio nonno!”.
Anche Escalona ha la pistola alla fondina, ma cerca subito di
sdrammatizzare. “Sì, sì, ma lui non ne sapeva niente. Sentite, perché
non facciamo una bella gara a chi tira meglio?”. Le pistole vengono così
scaricate, la tensione pure, i tre riprendono a bere, e anzi passeranno
assieme tre interi giorni. A girare la regione nel camioncino che il
cowboy usa per il suo lavoro di contrabbandiere. E a fare conoscenza con
la caterva di figli illegittimi che il colonnello Márquez, in realtà un
grado fai da te in un esercito fai da te durante la guerra civile detta
“dei mille giorni” che si combatté tra 1899 e 1902, ha seminato per la
zona durante il conflitto. E’ il nipote dell’assassinato che li presenta
al nipote dell’assassino. “Ah, anche questo è tuo zio!”.
Terza storia. Sono passati altri sette anni, e il 24 agosto del 1959 il
nipote del colonnello Márquez fa battezzare il suo figlio primogenito,
Rodrigo. Nel frattempo oltre a sposarsi è riuscito a tornare dalle
enciclopedie alla letteratura, a pubblicare i suoi primi libri, a
diventare un giornalista di una certa rinomanza, e anche a girare
l’Europa in lungo e in largo. Il prete è un suo vecchio compagno di
studi a quell’Università di Bogotá in cui poi non si è mai laureato. Ma
anche il padrino è un suo ex compagno di studi, poi divenuto sodale di
avventure giornalistiche e tour europei. E assieme a lui dopo l’arrivo
al potere di Fidel Castro fonderà “Prensa Latina”: l’agenzia di stampa
della rivoluzione cubana. La madrina è a sua volta la moglie di un altro
compare di giornalismo e bisbocce. Finita la cerimonia, il prete
scandisce: “E adesso tutti coloro che credono nella discesa dello
Spirito Santo su questo bambino s’inginocchino”. Padre, madre, padrino e
madrina, tutti atei dichiarati, rimangono in piedi.
Sette anni dopo quel prete, che si chiama Camilo Torres, morirà
combattendo come guerrigliero. Il mito della Teologia della liberazione
lo fa spesso anche passare come leggendario comandante: ma la realtà è
che, dopo essersi unito a una banda come semplice combattente, cade in
pratica al suo primo scontro a fuoco, per un micidiale errore da
principiante. Dopo un’imboscata viene infatti fuori dalla boscaglia a
raccogliere il fucile di un ufficiale caduto: senza accorgersi che si
sono buttati a terra anche soldati rimasti incolumi, e che lo ridurranno
a un colabrodo.
Il padrino ateo e comunista, Plinio Apuleyo Mendoza, è tuttora suo
amico. Ma da allora ha rotto col regime cubano, è diventato diplomatico,
è stato anche ambasciatore di Colombia in Italia, e assieme al figlio
di Mario Vargas Llosa e all’esule cubano Carlos Alberto Montaner ha
scritto un famosissimo pamphlet antipopulista intitolato “Manuale del
perfetto idiota latino-americano”.
E poi c’è Gerald Martin. Latinoamericanista statunitense, docente
emerito a Pittsburgh, Senior Research Professor a Londra, e narratore di
queste vicende in “Vita di Gabriel García Márquez”, un malloppo appena
pubblicato in italiano da Mondadori che malgrado le 668 pagine si legge
tutto di un fiato; e la cui genesi di 17 anni è stata accompagnata
anch’essa da frasi e episodi alla Sergio Leone. “Perché mai scrivere una
biografia? Le biografie sono per i morti”, sarebbe stato il primo
“incoraggiamento” di García Márquez. Poi si sarebbe passati allo stadio
definito da Martin di “biografia non autorizzata, ma tollerata”. Infine,
nel 2006 è lo stesso García Márquez a proclamarlo suo “biografo
ufficiale”. Quattro anni dopo l’uscita di “Vivere per raccontarla”:
autobiografia fino al 1955, di cui però proprio Martin dice che, sì, “la
qualità della scrittura è quasi sempre straordinaria”, ma quanto ai
contenuti, “bisogna ammettere che più che un racconto è la descrizione
di un pio desiderio: ogni episodio doloroso è rigorosamente bandito”. Lo
stesso Gabo gli aveva spiegato che ogni uomo ha “tre vite: una
pubblica, una privata, una segreta”. E dice allora Martin di “Vivere per
raccontarla”: “L’autore è stato molto attento a disseminarla di omaggi –
a volte un paragrafo, a volte una sola riga – a tutti i suoi amici e a
tutte le loro mogli o vedove. Non ci sono veri squarci d’intimità, né
confessioni. Quelle pagine racchiudono la sua vita pubblica e l’altra,
quella ‘falsa’, inventata ma non molto della sua vita ‘privata’ e
pochissimo di quella ‘segreta’”.
Martin non spiega in realtà esplicitamente il perché ciò sia avvenuto.
Ma dalla lettura di questa “Vita di Gabriel García Márquez” un sospetto
emerge prepotente: Gabo ha contrabbandato un romanzo come autobiografia,
proprio perché fino a quel momento aveva sempre contrabbandato la
propria autobiografia come romanzo. Torniamo appunto a Nicolás Márquez:
il nonnino colonnello fai da te che aveva allevato il piccolo Gabo nei
primi anni di vita. Lui gli aveva raccontato di aver dovuto lasciare il
proprio villaggio per andare a fondare quel paesino di Aracataca dove il
ragazzino era nato, proprio dopo aver ucciso il nonno del cowboy
contrabbandiere. “Tu non sai quanto pesa un morto”, ripeteva al
ragazzino. “Credo ancora che sia stato costretto a farlo”, ha sempre
ripetuto Gabo a tutti coloro che gli hanno chiesto di quella storia. Ma
Martin, con pignoleria e disponibilità di risorse tipicamente yankee, è
andato a controllare. E risulta che, primo, nonno Márquez non fondò lui
Aracataca, anche se ne divenne effettivamente un notabile influente.
Secondo, quell’omicidio fu molto poco romantico e abbastanza sordido:
benché sposato il colonnello era un dongiovanni impenitente; il morto
era il fratello di una ragazzina sedotta che aveva giurato vendetta; e
l’assassino gli aveva teso un agguato, sparandogli dopo essersi
sincerato che non era armato. Tutto ciò sarebbe stato trasfigurato nel
mito fondante di “Cent’anni di solitudine”: José Arcadio, il capostipite
dei Buendía che uccide con un colpo di lancia Prudencio Aguilar, e poi
va a fondare Macondo. Solo che nel romanzo, all’opposto che nella
realtà, il morto non si era lamentato del gallismo dell’assassino, ma
aveva invece irriso la sua virilità: per la storia della moglie Ursula
che gli si rifiutava, temendo che l’incrocio tra consanguinei generasse
un mostro. E prima di colpire aveva cavallerescamente avvertito: “Vai ad
armarti”. Comunque, anche se Aracataca è Macondo, qualche anno fa con
un referendum ha rifiutato di cambiare nome per chiamarsi come il luogo
ispirato. D’altra parte, Nicolás Márquez è José Arcadio anche per la
volta in cui accompagnò il nipote allo spaccio della compagnia bananiera
di Aracataca, a vedere il pesce conservato nel ghiaccio: visione
magica, in un luogo tropicale prima della diffusione dei frigoriferi. E
il ricordo di José Arcadio che porta il figlio Aureliano a vedere il
ghiaccio è appunto il punto di partenza di “Cent’anni di solitudine”.
Naturalmente, nonna Tranquilina è il prototipo della vecchia matriarca
Ursula. E come accade in “Cent’anni di solitudine”, sul serio Gabriel
García Márquez andò a sbattere in un sacco con le sue ossa: portate via
dal cimitero dopo un trasloco, per risistemarle vicino alla nuova casa.
Ma Nicolás Márquez al contempo è anche Aureliano. Il colonnello che
“promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe
diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono
sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore
compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a
settantatré imboscate e a un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una
dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo.
Respinse l’Ordine del merito che gli conferì il presidente della
Repubblica. Giunse a essere comandante generale delle forze
rivoluzionarie, con giurisdizione e comando da una frontiera all’altra, e
fu l’uomo più temuto dal governo, ma non permise mai che lo
fotografassero. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e
visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo
laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei
suoi uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato
la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi vent’anni di
guerre civili. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile
gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale”. Nella parte
pubblica, Aureliano Buendía è nonno Márquez, più Rafael Uribe Uribe: il
generale carismatico ma pasticcione che comandò tutti gli eserciti
liberali durante la Guerra dei mille giorni, prozio del penultimo
presidente colombiano, Álvaro Uribe Vélez. Ma nel privato, produzione di
figli illegittimi a parte, la fabbricazione di pesciolini d’oro era
appunto una delle attività con cui nonno Márquez sbarcò il lunario, in
attesa di una pensione che non arrivò mai. Sì: perché il colonnello
Márquez è anche il protagonista di “Nessuno scrive al colonnello”. Più
le frustrazioni del nipote in attesa delle risposte delle case editrici
cui mandava i suoi scritti o dei pagamenti dei giornali con cui
collaborava; più il film “Umberto D.” di Vittorio De Sica.
Il colonnello morì che Gabo aveva sette anni, dopo un peggioramento di
salute dovuto alla caduta da una scala dove si era arrampicato per
riacchiappare il pappagallo di casa. E allo stesso modo muore Juvenal
Urbino, lasciando così vedova la protagonista dell’“Amore ai tempi del
colera”; libro dove peraltro è riprodotta anche la storia del
corteggiamento del telegrafista papà Gabriel Eligio a mamma Luisa
Santiaga. Ma Gabriel Eligio, con la sua mania di inventarsi lavori
pasticciati, contribuisce anche a una ulteriore componente della
personalità di José Arcadio in “Cent’anni di solitudine”. Naturalmente, è
presa di peso dalla realtà anche la vicenda di “Cronaca di una morte
annunciata”. La principale differenza è che la vittima non era un
oriundo arabo di nome Santiago Nasar ma un oriundo italiano di nome
Cayetano Gentile; e l’unico elemento surreale è che dopo l’uscita del
romanzo a querelare lo scrittore furono i due assassini. Che
effettivamente, con la storia che il loro era stato un delitto d’onore,
erano stati assolti.
Si potrebbe andare avanti ancora per un pezzo: ma non avendo a
disposizione le 668 pagine di Martin, gli esempi dati sono sufficienti.
Resta il realismo magico. E’ quasi un luogo comune far risalire questa
etichetta alla prefazione che nel 1949 il cubano Alejo Carpentier pose
alla prima edizione del suo romanzo “Il regno di questo mondo”. “Per la
verginità del paesaggio, per l’ontologia, per la presenza faustiana
dell’indio e del negro, per la rivelazione che costituì la sua recente
scoperta, per i fecondi meticciati che propiziò, l’America è ben lungi
dall’aver terminato la sua scorta di mitologie. Che cosa è la storia
dell’America tutta se non una cronaca del reale meraviglioso?”. L’idea,
insomma, che il razionalismo europeo non possa cogliere la specificità
dell’uomo e dell’ambiente del Nuovo mondo. E che dunque, al barocchismo
lussureggiante della natura americana e al misticismo panteista che vi
si alimenta si può arrivare solo attraverso il mito. Altri, però, hanno
osservato che quel realismo magico teorizzato da Carpentier e
popolarizzato da García Márquez era stato in realtà già sperimentato fin
dal 1930 nelle “Leggende del Guatemala” da Miguel Ángel Asturias, che
tra l’altro avrebbe poi ricevuto il suo Nobel per la Letteratura proprio
in quello stesso 1967 di “Cent’anni di solitudine”.
“Storie-sogni-poemi”, li definiva il sofisticato Paul Valéry nella
prefazione all’edizione francese.
Peraltro Martin ci spiega che Gabo ha sempre odiato Asturias; che si è
formato come scrittore ignorando del tutto la letteratura colombiana a
lui antecedente; e che i suoi miti giovanili sono stati europei e
nordamericani. Kafka: di cui abbiamo ricordato come fosse impressionato
dalla somiglianza col linguaggio di sua nonna. Hemingway: il cui
“Vecchio e il mare” ispira chiaramente come soggetto quel “Racconto di
un naufrago” che lanciò la fama del García Márquez giornalista, e come
spirito anche “Nessuno scrive al colonnello”. Faulkner: la cui contea di
Yoknapatawpha e il cui colonnello Sartoris sono in realtà fonti di
Macondo e del colonnello Buendía quasi alla pari di Aracataca e del
colonnello Márquez. E anche Virginia Woolf. Ma, ahimè, lo stesso nome di
Valéry finisce poi per rivelare quanto questa arte così “indigena”
debba in realtà al surrealismo europeo, conosciuto da Asturias quando
risiedeva a Parigi come diplomatico. E la realtà è in effetti che a
quell’epoca la parola “realismo magico” esisteva già. L’aveva creata il
critico tedesco Franz Roh, sia pure riferita alla pittura e non alla
letteratura. E intendeva appunto una corrente di cui furono esponenti
Ivan Albright, Paul Cadmus, George Tooker e anche l’italiano Antonio
Donghi.
Insomma, il realismo magico in realtà l’ha inventato l’Europa. Ma ai
lettori europei e nordamericani è sempre sembrato tanto più chic
attribuirlo agli scrittori di quell’unica area del Terzo mondo che fosse
abbastanza di cultura europea da suonare esotica senza essere
incomprensibile. E Gabriel García Márquez ne è diventato il mito,
semplicemente per aver raccontato storie di famiglia, che i suddetti
lettori europei e nordamericani hanno scambiato per invenzione fiabesca.
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