sabato 19 aprile 2014

Cent'anni di solitudine: la novità


Antonio Melis
L'eterna stagione di Gabo
il manifesto, 19 aprile 2014

Intorno alla seconda metà degli anni Ses­santa del secolo scorso uno tra i grandi temi del dibat­tito let­te­ra­rio inter­na­zio­nale ruo­tava intorno alla morte del romanzo. Ma nella remota Colom­bia, tagliata fuori dai cir­cuiti uffi­ciali, non era ancora arri­vata noti­zia delle ese­quie di que­sto grande genere let­te­ra­rio della società bor­ghese, sulla cui defi­ni­zione si erano cimen­tati illu­stri teo­rici, da Hegel, fino a Lukács e a Goldmann.
Fu così che uno scrit­tore ormai vicino ai quarant’anni si per­mise di pub­bli­care nel 1967 un romanzo tito­lato Cent’anni di soli­tu­dine, dopo altre prove nar­ra­tive note­voli, rima­ste cir­co­scritte a un pub­blico ridotto e che sareb­bero state recu­pe­rate solo suc­ces­si­va­mente, per l’effetto trai­nante del suc­cesso cla­mo­roso di quel testo. Romanzi come Foglie morte (La hoja­ra­sca), Nes­suno scrive al colon­nelloLa mala ora e rac­colte di rac­conti come I fune­rali della Mama Grande, veni­vano letti come momenti pre­pa­ra­tori di una grande sin­tesi, ma anche apprez­zati nel loro valore autonomo.
Ho ricor­dato quella con­giun­tura cul­tu­rale, pro­prio per­ché il «segreto» di Gar­cía Már­quez è stato, in fondo, abba­stanza sem­plice. Igno­rando le sofi­sti­cate elu­cu­bra­zioni delle teo­rie cri­ti­che à la page, lo scrit­tore colom­biano aveva risco­perto l’elementarità e l’universalità del gusto di rac­con­tare una storia.
Del resto, la strut­tura del suo romanzo poteva richia­mare le saghe, da quelle anti­che al modello con­tem­po­ra­neo offerto dai romanzi di Wil­liam Faul­k­ner. Ma poteva con la stessa legit­ti­mità, per un altro tipo di let­tori, evo­care – por­tan­dole a un livello let­te­ra­rio raf­fi­nato – le sug­ge­stioni della tele­no­vela, con il suo gusto per la pro­li­fe­ra­zione infi­nita dei per­so­naggi. Da que­sto sin­go­lare con­nu­bio di alto e basso era sca­tu­rito un auten­tico mira­colo: riu­nire in tutto il mondo, intorno alle sue pagine, il let­tore colto e quello ingenuo.
A par­tire da allora intere biblio­te­che sono state scritte su quel romanzo e in gene­rale sull’opera di Gar­cía Már­quez, soprav­vis­suta glo­rio­sa­mente a quel bom­bar­da­mento a tap­peto. Uno tra gli omaggi più caldi e pro­fondi tri­bu­tati al suo capo­la­voro sta in alcune righe che gli dedicò, a ridosso della pub­bli­ca­zione, un altro grande scrit­tore ispa­noa­me­ri­cano della gene­ra­zione ante­riore, José María Argue­das, nel suo ultimo romanzo, La volpe di sopra e la volpe di sotto, rima­sto incon­cluso per il colpo di pistola con il quale l’autore pose fine alla sua vita.
Nel primo dei «Diari» che si alter­nano con la nar­ra­zione c’è una sorta di resa dei conti, spesso aspra, con i suoi col­le­ghi lati­noa­me­ri­cani che sta­vano costruendo quello splen­dido epi­so­dio di libe­ra­zione cul­tu­rale, che sarebbe poi stato mala­mente chia­mato «boom». Ecco come Cent’anni di soli­tu­dine viene salu­tato: «Non par­le­rebbe così quel Gar­cía Már­quez che asso­mi­glia molto a donna Car­men Tari­pha, di Maran­ganí, presso Cuzco. Car­men rac­con­tava al prete, di cui era per­pe­tua, sto­rie inter­mi­na­bili di volpi, dan­nati, orsi, bisce, ramarri; imi­tava que­gli ani­mali con la voce e con il corpo. Li imi­tava così bene che la sala della cano­nica si tra­sfor­mava in caverne, in boschi, in pune e gole dove risuo­na­vano lo stri­sciare della serpe che fa muo­vere piano le erbe e gli stec­chi, il par­lare della volpe un po’ scher­zoso e un po’ cru­dele, quello dell’orso che è come se avesse della farina impa­stata in bocca, quella del topo che taglia con il suo filo anche l’ombra; e donna Car­men cam­mi­nava come una volpe e come un orso, e muo­veva le brac­cia come una serpe e come un puma, faceva anche il movi­mento della coda; e rug­giva pro­prio come i dan­nati che divo­rano gente senza mai saziarsi; così la sala della cano­nica era qual­cosa di simile alle pagine di Cent’anni…».
In Ita­lia il suc­cesso del romanzo, tra­dotto tem­pe­sti­va­mente, fu imme­diato, seb­bene non man­cas­sero feno­meni di incom­pren­sione da parte di intel­let­tuali, anche illu­stri, ma legati ine­so­ra­bil­mente agli schemi euro­cen­trici, che non capi­rono come Gar­cía Már­quez facesse irrom­pere un mondo let­te­ra­rio irri­du­ci­bile a cri­teri di giu­di­zio ela­bo­rati a par­tire da un altro contesto.
L’appropriazione inde­bita avvenne anche attra­verso l’impiego quasi osses­sivo di cate­go­rie come quella del «rea­li­smo magico», desti­nata ad avere un grande suc­cesso e quindi ad agire nega­ti­va­mente non solo sui let­tori, ma addi­rit­tura sugli stessi scrit­tori ispa­noa­me­ri­cani più gio­vani, molti dei quali comin­cia­rono a caval­care astu­ta­mente l’onda del suc­cesso, offrendo spesso pro­dotti ste­reo­ti­pati che veni­vano incon­tro all’eterno biso­gno di eso­ti­smo del mondo ege­mo­nico. La let­te­ra­tura ispa­noa­me­ri­cana aveva già anni prima creato un pos­si­bile anti­doto per que­sti frain­ten­di­menti, attra­verso la cate­go­ria del «reale mera­vi­glioso» enun­ciata dal cubano Alejo Car­pen­tier nel pro­logo al suo straor­di­na­rio romanzo Il regno di que­sto mondo, ambien­tato ad Haiti negli anni della rivolta della popo­la­zione afri­cana che aveva dato vita al primo stato indi­pen­dente dell’America cosid­detta Latina. Dopo essere pas­sato, come altri grandi scrit­tori di quell’area, attra­verso l’esperienza sur­rea­li­sta pari­gina, Car­pen­tier aveva capito che nell’abnormità dei feno­meni lati­noa­me­ri­cani, da quelli fisici a quelli sociali, c’era una fonte pro­pria di mera­vi­glia che ren­deva obso­lete le ricette intel­let­tua­li­sti­che pro­dotte nel vec­chio continente.
Capii tutta la por­tata di quella dichia­ra­zione d’indipendenza (non di autar­chia) quando, pochi anni dopo l’uscita di Cent’anni di soli­tu­dine, nel mio primo viag­gio in Colom­bia, potei con­sul­tare nelle eme­ro­te­che i gior­nali degli anni Venti, dove si rife­ri­vano i mas­sa­cri della com­pa­gnia bana­nera che com­pa­iono nel romanzo, e che erano stati rece­piti dalla cri­tica e, più ovvia­mente, dal pub­blico, come pura inven­zione let­te­ra­ria, par­to­rita dai nuovi bestioni vichiani, tutti senso, stu­pore e fan­ta­sia. Non voglio pro­porre, è ovvio, un banale prin­ci­pio di vero­si­mi­glianza, ma indi­care un esem­pio par­ti­co­lar­mente signi­fi­ca­tivo della dia­let­tica fra sto­ria e crea­zione let­te­ra­ria che sta alla base di Cent’anni di soli­tu­dine e che spiega le sue mol­te­plici pos­si­bi­lità di let­tura, come suc­cede con tutti i testi vera­mente grandi.
L’opera di Gar­cía Már­quez è pro­se­guita fino alla vec­chiaia, fra romanzi, rac­conti, cro­na­che e memo­rie, con risul­tati alterni. Come in altri scrit­tori della sua gene­ra­zione, che hanno sfrut­tato la loro ren­dita di posi­zione, il mestiere sem­pre più raf­fi­nato è pre­valso molte volte sull’autentica inven­zione. Vale anche, seb­bene a molti suo­nerà come una bestem­mia, per la sua prova più ver­ti­gi­nosa dal punto di vista dell’impegno sti­li­stico, l’ingegnoso e soprav­va­lu­tato L’autunno del patriarca, un testo più adatto agli eser­cizi funam­bo­lici della cri­tica e alle tesi dot­to­rali che al godi­mento del let­tore. Ma baste­rebbe la grande saga di Macondo, capace meri­ta­ta­mente di rino­mi­nare il paese di nascita di Gar­cía Már­quez, a garan­tire allo scrit­tore un posto nella let­te­ra­tura desti­nata a durare nel tempo, oltre le mode edi­to­riali e quelle create dalla critica.

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Maurizio Stefanini
Cent'anni di similitudine
Il Foglio, 7 maggio 2011

 Non solo l’Italia ha i suoi campanilismi tra “polentoni” e “terroni”. In Colombia le sfottiture reciproche tra esuberanti “costeños” della regione caraibica e sussiegosi “cachacos” della regione andina sono abbastanza simili: salvo il particolare che là è il nord che sta a sud, e viceversa. E una prima storia per spiegare alcuni curiosi retroscena su un mito letterario del XX secolo parla appunto di un ventenne “costeño”. Un giovanotto allampanato con i baffetti, una capigliatura ribelle e una faccia da indio, che una famiglia complicata ha mandato a studiare Diritto nella fredda e compunta Bogotá. Anni dopo, nel romanzo che lo trasformerà appunto nel citato mito letterario, la descriverà come “una città lugubre per le cui viuzze di pietra traballavano ancora, in notti da incubo, le carrozze dei vicerè. Trentadue campane suonavano a morto alle sei di sera”. Ma sul momento, per sfogare la propria malinconia scrive poesie nostalgiche su un giornale studentesco. “Ed era il mare del primo amore / in due occhi autunnali… / Un giorno volli vedere il mare / – ma dell’infanzia – ed era troppo tardi”. Finché un pomeriggio uno studente suo conterraneo non gli presta un racconto di Franz Kafka, tradotto da Jorge Luis Borges. Il costeño triste torna alla pensione, sale nella sua stanza, si sfila le scarpe, si stende sul letto, e inizia a leggere. “Gregorio Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo”. Folgorato, esclama: “Merda, mia nonna parlava esattamente così!”.

Quattro anni dopo, il giovanotto è tornato nella regione di origine, e la gira come venditore ambulante di enciclopedie e manuali. Nel frattempo ha lasciato perdere gli studi: per un complesso di ragioni che va da problemi di finanze familiari, alla guerra civile che intanto è scoppiata nel paese, alla propria sostanziale allergia per il Diritto. Ma, soprattutto, la scoperta delle affinità linguistiche tra Kafka e nonna Tranquilina lo ha deciso di darsi alla narrativa. “Scriverò il nuovo ‘Don Chisciotte’”, ha addirittura promesso agli amici. La carriera letteraria sembra però essersi arenata, dopo che il suo primo libro è stato bocciato da una editoriale argentina di cui è direttore proprio il cognato di Borges. E pure un lavoro da giornalista lo ha lasciato perdere, perché lo pagano troppo poco. Lui, però, resta convinto che sarà il nuovo Cervantes. E quel lavoro pur raffazzonato lo ha dunque accettato con piacere perché, oltre a permettergli di sbarcare il lunario, gli dà la possibilità di conoscere persone e luoghi. In uno dei suoi tour lo accompagna un amico musicista che si chiama Rafael Escalona, e che diventerà il massimo interprete di un genere musicale chiamato “vallenato”: una specie di liscio, salvo che il suono europeizzante dell’organetto vi è scandito con ritmi africani. Dopo una settimana di viaggio i due stanno bevendo birra e rum ghiacciati in una bettola, quando si avvicina loro un giovanotto dall’aria decisa vestito da cowboy: cappello a tesa larga, gambali in cuoio sui pantaloni, pistola alla cintura. Siamo nel 1952, ma in quelle zone si vive ancora come nei western di Sergio Leone. E da western di Sergio Leone è infatti la scena che segue, quando Escalona invitandolo a unirsi alla bevuta dice al cowboy: “Permettimi di presentarti Gabriel García Márquez”. E l’altro, stringendogli la mano: “Ha qualcosa a che vedere col colonnello Nicolás Márquez?”. “Soy su nieto”: in spagnolo “nipote di nonno”, che a differenza del generico italiano è chiaramente distinto dal “sobrino”, “nipote di zio”. “Sono suo nipote”. “Allora è suo nonno che ha ammazzato mio nonno!”.

Anche Escalona ha la pistola alla fondina, ma cerca subito di sdrammatizzare. “Sì, sì, ma lui non ne sapeva niente. Sentite, perché non facciamo una bella gara a chi tira meglio?”. Le pistole vengono così scaricate, la tensione pure, i tre riprendono a bere, e anzi passeranno assieme tre interi giorni. A girare la regione nel camioncino che il cowboy usa per il suo lavoro di contrabbandiere. E a fare conoscenza con la caterva di figli illegittimi che il colonnello Márquez, in realtà un grado fai da te in un esercito fai da te durante la guerra civile detta “dei mille giorni” che si combatté tra 1899 e 1902, ha seminato per la zona durante il conflitto. E’ il nipote dell’assassinato che li presenta al nipote dell’assassino. “Ah, anche questo è tuo zio!”.

Terza storia. Sono passati altri sette anni, e il 24 agosto del 1959 il nipote del colonnello Márquez fa battezzare il suo figlio primogenito, Rodrigo. Nel frattempo oltre a sposarsi è riuscito a tornare dalle enciclopedie alla letteratura, a pubblicare i suoi primi libri, a diventare un giornalista di una certa rinomanza, e anche a girare l’Europa in lungo e in largo. Il prete è un suo vecchio compagno di studi a quell’Università di Bogotá in cui poi non si è mai laureato. Ma anche il padrino è un suo ex compagno di studi, poi divenuto sodale di avventure giornalistiche e tour europei. E assieme a lui dopo l’arrivo al potere di Fidel Castro fonderà “Prensa Latina”: l’agenzia di stampa della rivoluzione cubana. La madrina è a sua volta la moglie di un altro compare di giornalismo e bisbocce. Finita la cerimonia, il prete scandisce: “E adesso tutti coloro che credono nella discesa dello Spirito Santo su questo bambino s’inginocchino”. Padre, madre, padrino e madrina, tutti atei dichiarati, rimangono in piedi.

Sette anni dopo quel prete, che si chiama Camilo Torres, morirà combattendo come guerrigliero. Il mito della Teologia della liberazione lo fa spesso anche passare come leggendario comandante: ma la realtà è che, dopo essersi unito a una banda come semplice combattente, cade in pratica al suo primo scontro a fuoco, per un micidiale errore da principiante. Dopo un’imboscata viene infatti fuori dalla boscaglia a raccogliere il fucile di un ufficiale caduto: senza accorgersi che si sono buttati a terra anche soldati rimasti incolumi, e che lo ridurranno a un colabrodo.

Il padrino ateo e comunista, Plinio Apuleyo Mendoza, è tuttora suo amico. Ma da allora ha rotto col regime cubano, è diventato diplomatico, è stato anche ambasciatore di Colombia in Italia, e assieme al figlio di Mario Vargas Llosa e all’esule cubano Carlos Alberto Montaner ha scritto un famosissimo pamphlet antipopulista intitolato “Manuale del perfetto idiota latino-americano”.

E poi c’è Gerald Martin. Latinoamericanista statunitense, docente emerito a Pittsburgh, Senior Research Professor a Londra, e narratore di queste vicende in “Vita di Gabriel García Márquez”, un malloppo appena pubblicato in italiano da Mondadori che malgrado le 668 pagine si legge tutto di un fiato; e la cui genesi di 17 anni è stata accompagnata anch’essa da frasi e episodi alla Sergio Leone. “Perché mai scrivere una biografia? Le biografie sono per i morti”, sarebbe stato il primo “incoraggiamento” di García Márquez. Poi si sarebbe passati allo stadio definito da Martin di “biografia non autorizzata, ma tollerata”. Infine, nel 2006 è lo stesso García Márquez a proclamarlo suo “biografo ufficiale”. Quattro anni dopo l’uscita di “Vivere per raccontarla”: autobiografia fino al 1955, di cui però proprio Martin dice che, sì, “la qualità della scrittura è quasi sempre straordinaria”, ma quanto ai contenuti, “bisogna ammettere che più che un racconto è la descrizione di un pio desiderio: ogni episodio doloroso è rigorosamente bandito”. Lo stesso Gabo gli aveva spiegato che ogni uomo ha “tre vite: una pubblica, una privata, una segreta”. E dice allora Martin di “Vivere per raccontarla”: “L’autore è stato molto attento a disseminarla di omaggi – a volte un paragrafo, a volte una sola riga – a tutti i suoi amici e a tutte le loro mogli o vedove. Non ci sono veri squarci d’intimità, né confessioni. Quelle pagine racchiudono la sua vita pubblica e l’altra, quella ‘falsa’, inventata ma non molto della sua vita ‘privata’ e pochissimo di quella ‘segreta’”.

Martin non spiega in realtà esplicitamente il perché ciò sia avvenuto. Ma dalla lettura di questa “Vita di Gabriel García Márquez” un sospetto emerge prepotente: Gabo ha contrabbandato un romanzo come autobiografia, proprio perché fino a quel momento aveva sempre contrabbandato la propria autobiografia come romanzo. Torniamo appunto a Nicolás Márquez: il nonnino colonnello fai da te che aveva allevato il piccolo Gabo nei primi anni di vita. Lui gli aveva raccontato di aver dovuto lasciare il proprio villaggio per andare a fondare quel paesino di Aracataca dove il ragazzino era nato, proprio dopo aver ucciso il nonno del cowboy contrabbandiere. “Tu non sai quanto pesa un morto”, ripeteva al ragazzino. “Credo ancora che sia stato costretto a farlo”, ha sempre ripetuto Gabo a tutti coloro che gli hanno chiesto di quella storia. Ma Martin, con pignoleria e disponibilità di risorse tipicamente yankee, è andato a controllare. E risulta che, primo, nonno Márquez non fondò lui Aracataca, anche se ne divenne effettivamente un notabile influente. Secondo, quell’omicidio fu molto poco romantico e abbastanza sordido: benché sposato il colonnello era un dongiovanni impenitente; il morto era il fratello di una ragazzina sedotta che aveva giurato vendetta; e l’assassino gli aveva teso un agguato, sparandogli dopo essersi sincerato che non era armato. Tutto ciò sarebbe stato trasfigurato nel mito fondante di “Cent’anni di solitudine”: José Arcadio, il capostipite dei Buendía che uccide con un colpo di lancia Prudencio Aguilar, e poi va a fondare Macondo. Solo che nel romanzo, all’opposto che nella realtà, il morto non si era lamentato del gallismo dell’assassino, ma aveva invece irriso la sua virilità: per la storia della moglie Ursula che gli si rifiutava, temendo che l’incrocio tra consanguinei generasse un mostro. E prima di colpire aveva cavallerescamente avvertito: “Vai ad armarti”. Comunque, anche se Aracataca è Macondo, qualche anno fa con un referendum ha rifiutato di cambiare nome per chiamarsi come il luogo ispirato. D’altra parte, Nicolás Márquez è José Arcadio anche per la volta in cui accompagnò il nipote allo spaccio della compagnia bananiera di Aracataca, a vedere il pesce conservato nel ghiaccio: visione magica, in un luogo tropicale prima della diffusione dei frigoriferi. E il ricordo di José Arcadio che porta il figlio Aureliano a vedere il ghiaccio è appunto il punto di partenza di “Cent’anni di solitudine”. Naturalmente, nonna Tranquilina è il prototipo della vecchia matriarca Ursula. E come accade in “Cent’anni di solitudine”, sul serio Gabriel García Márquez andò a sbattere in un sacco con le sue ossa: portate via dal cimitero dopo un trasloco, per risistemarle vicino alla nuova casa.

Ma Nicolás Márquez al contempo è anche Aureliano. Il colonnello che “promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatré imboscate e a un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo. Respinse l’Ordine del merito che gli conferì il presidente della Repubblica. Giunse a essere comandante generale delle forze rivoluzionarie, con giurisdizione e comando da una frontiera all’altra, e fu l’uomo più temuto dal governo, ma non permise mai che lo fotografassero. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei suoi uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi vent’anni di guerre civili. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale”. Nella parte pubblica, Aureliano Buendía è nonno Márquez, più Rafael Uribe Uribe: il generale carismatico ma pasticcione che comandò tutti gli eserciti liberali durante la Guerra dei mille giorni, prozio del penultimo presidente colombiano, Álvaro Uribe Vélez. Ma nel privato, produzione di figli illegittimi a parte, la fabbricazione di pesciolini d’oro era appunto una delle attività con cui nonno Márquez sbarcò il lunario, in attesa di una pensione che non arrivò mai. Sì: perché il colonnello Márquez è anche il protagonista di “Nessuno scrive al colonnello”. Più le frustrazioni del nipote in attesa delle risposte delle case editrici cui mandava i suoi scritti o dei pagamenti dei giornali con cui collaborava; più il film “Umberto D.” di Vittorio De Sica.

Il colonnello morì che Gabo aveva sette anni, dopo un peggioramento di salute dovuto alla caduta da una scala dove si era arrampicato per riacchiappare il pappagallo di casa. E allo stesso modo muore Juvenal Urbino, lasciando così vedova la protagonista dell’“Amore ai tempi del colera”; libro dove peraltro è riprodotta anche la storia del corteggiamento del telegrafista papà Gabriel Eligio a mamma Luisa Santiaga. Ma Gabriel Eligio, con la sua mania di inventarsi lavori pasticciati, contribuisce anche a una ulteriore componente della personalità di José Arcadio in “Cent’anni di solitudine”. Naturalmente, è presa di peso dalla realtà anche la vicenda di “Cronaca di una morte annunciata”. La principale differenza è che la vittima non era un oriundo arabo di nome Santiago Nasar ma un oriundo italiano di nome Cayetano Gentile; e l’unico elemento surreale è che dopo l’uscita del romanzo a querelare lo scrittore furono i due assassini. Che effettivamente, con la storia che il loro era stato un delitto d’onore, erano stati assolti.

Si potrebbe andare avanti ancora per un pezzo: ma non avendo a disposizione le 668 pagine di Martin, gli esempi dati sono sufficienti. Resta il realismo magico. E’ quasi un luogo comune far risalire questa etichetta alla prefazione che nel 1949 il cubano Alejo Carpentier pose alla prima edizione del suo romanzo “Il regno di questo mondo”. “Per la verginità del paesaggio, per l’ontologia, per la presenza faustiana dell’indio e del negro, per la rivelazione che costituì la sua recente scoperta, per i fecondi meticciati che propiziò, l’America è ben lungi dall’aver terminato la sua scorta di mitologie. Che cosa è la storia dell’America tutta se non una cronaca del reale meraviglioso?”. L’idea, insomma, che il razionalismo europeo non possa cogliere la specificità dell’uomo e dell’ambiente del Nuovo mondo. E che dunque, al barocchismo lussureggiante della natura americana e al misticismo panteista che vi si alimenta si può arrivare solo attraverso il mito. Altri, però, hanno osservato che quel realismo magico teorizzato da Carpentier e popolarizzato da García Márquez era stato in realtà già sperimentato fin dal 1930 nelle “Leggende del Guatemala” da Miguel Ángel Asturias, che tra l’altro avrebbe poi ricevuto il suo Nobel per la Letteratura proprio in quello stesso 1967 di “Cent’anni di solitudine”. “Storie-sogni-poemi”, li definiva il sofisticato Paul Valéry nella prefazione all’edizione francese.

Peraltro Martin ci spiega che Gabo ha sempre odiato Asturias; che si è formato come scrittore ignorando del tutto la letteratura colombiana a lui antecedente; e che i suoi miti giovanili sono stati europei e nordamericani. Kafka: di cui abbiamo ricordato come fosse impressionato dalla somiglianza col linguaggio di sua nonna. Hemingway: il cui “Vecchio e il mare” ispira chiaramente come soggetto quel “Racconto di un naufrago” che lanciò la fama del García Márquez giornalista, e come spirito anche “Nessuno scrive al colonnello”. Faulkner: la cui contea di Yoknapatawpha e il cui colonnello Sartoris sono in realtà fonti di Macondo e del colonnello Buendía quasi alla pari di Aracataca e del colonnello Márquez. E anche Virginia Woolf. Ma, ahimè, lo stesso nome di Valéry finisce poi per rivelare quanto questa arte così “indigena” debba in realtà al surrealismo europeo, conosciuto da Asturias quando risiedeva a Parigi come diplomatico. E la realtà è in effetti che a quell’epoca la parola “realismo magico” esisteva già. L’aveva creata il critico tedesco Franz Roh, sia pure riferita alla pittura e non alla letteratura. E intendeva appunto una corrente di cui furono esponenti Ivan Albright, Paul Cadmus, George Tooker e anche l’italiano Antonio Donghi.

Insomma, il realismo magico in realtà l’ha inventato l’Europa. Ma ai lettori europei e nordamericani è sempre sembrato tanto più chic attribuirlo agli scrittori di quell’unica area del Terzo mondo che fosse abbastanza di cultura europea da suonare esotica senza essere incomprensibile. E Gabriel García Márquez ne è diventato il mito, semplicemente per aver raccontato storie di famiglia, che i suddetti lettori europei e nordamericani hanno scambiato per invenzione fiabesca.

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