Giancarlo Bosetti
Zygmunt Bauman analizza i demoni del presente
Così la paura avvelena la società liquida
la Repubblica, 5 aprile 2014
ZYGMUNT Bauman, sociologo polacco trapiantato a Leeds, Inghilterra, è,
prima che quel prolifico e amato scrittore che tutti conoscono, un
grande lettore, un vorace esploratore della cronaca e della letteratura
delle scienze sociali che descrive il nostro tempo, i cambiamenti che
attraversiamo e percepiamo e le tendenze di cui abbiamo una cognizione
ancora confusa. Se nei suoi saggi si è rivelato il più efficace e
originale inventore di linguaggio, quello della modernità “liquida”,
questo è avvenuto grazie alle doti raffinate della sua scrittura e del
suo eloquio, che riescono a conquistare il pubblico come solo i
grandi narratori.
Bauman rende omaggio in modo esplicito alla molteplicità delle sue
infinite fonti, ma nel riferirne le scoperte e nel collegarle tra loro
trova poi quasi sempre spunti per una sintesi che regala ai suoi lettori
immagini e parole che marcano l’idea in modo permanente. Così avviene
anche in questo testo (Il demone della paura), che rielabora suoi lavori
precedenti e vi aggiunge una sintetica rassegna antologica. Il tema
hobbesiano della paura attraversa tutta la storia della teoria politica
da Machiavelli ai giorni nostri, è sia il nocciolo fondativo del potere
assoluto del Leviatano sia la virtù del principe che ne sappia governare
gli effetti. In queste pagine troviamo quel genere di paura che
alimenta e/o avvelena tanta parte della politica contemporanea.
Per Bauman la madre e il padre di tutte le paure che percorrono il
nostro presente è il declino, la scomposizione e la scomparsa
dell’organizzazione economica, sociale, e anche politica, che andava
sotto il nome di “fordismo”, da intendersi come il sostrato industriale
che reggeva l’intero edificio. Questa base irradiava sicurezze e
solidità nel corpo sociale. La fabbrica fordista era la
«esemplificazione dello scenario di modernità solida in cui si stagliava
la maggior parte degli individui privi di altro capitale». Quello era
il luogo dei conflitti tra capitale e lavoro in una relazione, ostile,
ma di «lungo termine». E questa caratteristica consentiva agli
individui «di pensare e fare progetti per il futuro». Il conflitto era
insomma un investimento ragionevole e un sacrificio «che avrebbe dato i
suoi frutti», mentre la condizione attuale, la volatilità globale
dell’economia, fa apparire i tentativi di ripetere analoghi conflitti
con analoghi strumenti un gioco nostalgico molto povero di senso.
Nei suoi scritti Bauman mette sempre generosamente in evidenza il debito
nei confronti degli autori dai quali trae ispirazione: i più
frequentemente citati sono Pierre Bourdieu, Manuel Castells, Ulrich
Beck, Anthony Giddens e Robert Castel, il francese cui si deve tra
i primi, insieme a André Gorz, la scoperta che la “società del lavoro”
volgeva al termine. In questa rassegna di paure, Castel è presente con
qualche sua bella pagina in cui il tema è declinato in modo
consapevolmente europeo: il paradosso è che l’insicurezza è molto
diffusa nei Paesi sviluppati, che sono in realtà i meglio protetti
rispetto al mondo intero. E questo perché insicurezza non è solo «vivere
nella giungla», ma dipendere da protezioni forti «che diventano fragili
e dalla paura di perderle». Tutta la fenomenologia della paura si
riaffaccia così nei diversi segmenti della vita sociale degli ultimi
decenni: il terrorismo, la criminalità della vita urbana, le tendenze a
recintare la comunità di apparati di sicurezza, i rischi ambientali e
della salute, e poi l’afflusso di Altri e Diversi, bersaglio prediletto
dalle politiche della paura che hanno negli immigrati il più redditizio
capro espiatorio.
Anche il capitale politico è “liquido” e pronto a qualsiasi
investimento e coglie con prontezza le possibilità di profitti che la
paura offre in misura crescente. Grandi investimenti si profilano di
fronte allo scricchiolare della sovranità di quel Leviatano che aveva
costruito la sua forza e legittimazione proprio sulla paura (ma
restituendo protezione e sicurezza). Sorprendente e discutibile la
proposta dell’ungherese Frank Furedi che critica la sinistra per la
diffusione della paura del riscaldamento globale e che sembra in realtà
suggerirle proprio un investimento analogo a quello che la destra fa su
sicurezza e incolumità personale contro gli immigrati. Più ragionevole
la risposta di Bauman e Castel: la vittoria sulle insidie della paura è
da cercare sopra i confini nazionali, in una Europa sociale e, a livello
mondiale, nella creazione e nel rafforzamento di istituzioni
internazionali capaci di controllare i rischi. Lungo cammino, ma senza
alternative.
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