Andrea Colombo
Wu Ming, storie di sconfitti all'ombra del Terrore
il manifesto Alias, 26 aprile 2014
Marianna non ha pelle d’alabastro, mani curate, capelli lucidi sotto
il berretto frigio. Ha le dita rovinate di chi passa la vita tra la
cucina e il lavoro a maglia. Però non sferruzza più solo nei tuguri
popolari del Faubourg Saint-Antoine, roccaforte giacobina, ma
anche di fronte alla Convenzione rivoluzionaria. Non parla il
francese di Chateaubriand, ma il gergo dialettale e ruvido dei
quartieri popolari e lo fa sentire forte e chiaro nel cuore del
potere, perché la Rivoluzione è questo: dare voce a chi non ne
aveva, affidare potere a chi ha sempre dovuto subirlo.
Tra i molti personaggi di L’armata dei sonnambuli (Stile
libero, Einaudi, pp. 796, euro 21.00) l’ultimo romanzo del collettivo
Wu Ming, che eguaglia e forse supera il capolavoro d’esordio Q,
firmato allora Luther Blisset, la vera protagonista è lei,
Marianna, il simbolo collettivo delle donne di Parigi e del popolo di
Parigi, il cuore sconfitto della Rivoluzione. Ha molti nomi e molti
volti: quelli di Marie Nozière, l’operaia dei sobborghi che forse era
antenata della famosissima parricida Violette Nozière, di Claire
Lacombe, l’attrice proto-femminista che tentò di forzare la mano
a Robespierre reclamando il compimento della Rivoluzione nei fatti
e non solo nella lettera della Costituzione, della sua amica
Paoline Léon, co-fondatrice della Società delle Repubblicane
Rivoluzionarie, quella che chiedeva di armare e arruolare le donne
della Rivoluzione.
Sono personaggi reali, pur se romanzati, le protagoniste
dimenticate della Grande Rivoluzione, il lato in ombra della
storia. Come sono veri quasi tutti gli altri protagonisti di
questa epica saga del Terrore e della Controrivoluzione: l’attore
italiano Leonida Modonesi, che, chissà, forse era davvero il
rivoluzionario in maschera diventato dopo Termidoro l’eroe del
popolo sconfitto dei sobborghi, Scaramouche; il medico Orphée
d’Amblanc, esperto in quello che si chiamava allora «mesmerismo», la
tecnica d’ipnosi che aveva avuto il suo momento di gran gloria in
Europa subito prima della Rivoluzione e che, nella versione dei Wu
Ming somiglia alla Forza di Star Wars. E con loro tutti gli
altri, troppi per nominarli tutti, i popolani e i dotti, le
rivoluzionarie e le cortigiane, i sanculotti e i «muschiatini»,
come vengono qui definiti i «moscardini», la truppa
controrivoluzionaria composta da giovani piccolo-borghesi
travestiti da aristocratici che erano anch’essi, senza volerlo
e senza saperlo, agenti della trasformazione, perché quando mai il
vero ancien régime avrebbe tollerato che una simile plebglia si camuffasse da squisiti ci-devant?
Di libro in libro, i Wu Ming hanno messo a punto una formula magica
che è facile imitare e difficilissimo eguagliare. Lavorano con
cura meticolosa sulla realtà storica, ma riescono a farla parlare
con altrettanta precisione del presente: questa vicenda di
rivoluzione e controrivoluzione, cosa ben diversa dalla mera
restaurazione, è una parabola che abbiamo vissuto anche noi,
nell’Italia degli ultimi decenni. Procedono lungo i binari di una
narrativa epico-popolare, che guarda a Dumas più che a Ken Follett,
ma allo stesso tempo lavorano sul linguaggio con passione
sperimentale degna della più sofisticata avanguardia. Di romanzo
in romanzo, i Wu Ming perseguono un progetto che è tanto
letterario quanto politico, spostare i riflettori sui
dimenticati della storia, le insorgenze cancellate e oscurate dai
vincitori perché se ne perdesse anche la memoria: i contadini
d’Europa infiammati e poi traditi dalla Riforma in Q, i partigiani disarmati e non domati del dopoguerra italiano in Asce di guerra, le tribù guerriere e destinate allo sterminio nell’America di Manituana,
le rivoluzionarie e i sanculotti di Parigi in quest’ultimo
romanzo. Sono storie di sconfitte che invece di scoraggiare
accendono speranze e restituiscono fiducia. Dicono che, comunque
sia finita, è valsa ogni volta la pena di lacerare, anche solo per un
momento, l’ordine eterno delle cose. Avvertono che, per quanto
invincibile sembri dopo ogni sconfitta il potere, ci sarà sempre,
di nuovo, chi sceglierà di camminare sulla testa dei re nel grande
spettacolo della Rivoluzione, dove le comparse diventano
protagonisti.
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Giovanni Dozzini
Wu Ming, la rivoluzione francese come non l’ha mai raccontata nessuno
"L'armata dei sonnambuli", l'ultimo romanzo del collettivo bolognese, si fa divorare (ed è già alla seconda ristampa)
Europa, 23 aprile 2014
Forse era dai tempi di Q, da quando si chiamavano ancora
Luther Blissett e non avevano cominciato a essere il fenomeno di culto
che sarebbero diventati, che i Wu Ming non riuscivano a mettere a punto
un congegno a orologeria complesso ed efficace come L’armata dei sonnambuli (Einaudi). Il nuovo romanzo del collettivo bolognese è in libreria da una manciata di giorni e, fanno sapere dalle pagine di Giap,
il loro quartier generale sul web, le trentacinquemila copie della
prima tiratura sono già sparite. L’attesa per questa nuova creatura
d’altronde era tanta, e si portava dietro da parecchio tempo. Ebbene, il
libro è molto bello. Quasi ottocento pagine che si fanno divorare,
personaggi che appassionano, piccole storie screziate di realtà che
sembrano reggere sulle proprie gracili spalle le sorti di mezza umanità,
e la Rivoluzione Francese come non ve l’ha mai raccontata nessuno.
Ora, è bene prendere subito atto che la maggior parte di noialtri con
la Rivoluzione Francese ha un problema. Ed è probabilmente il problema
che riguarda tutta la storia che abbiamo studiato e imparato un po’
troppo semplicemente a scuola. Perché nella Rivoluzione Francese di
semplice non c’è stato proprio niente. Soprattutto nel suo lungo
strascico, quello che inizia subito dopo la Bastiglia e finisce con
l’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte. I Wu Ming, qua, provano a
spiegarci cosa è successo nel mezzo di quel decennio fatto di illusioni,
sangue e disordine. Il balletto delle tante fazioni rivoluzionarie, la
guerra fratricida a sinistra e l’attesa sorniona di quelli che oggi
chiameremmo i poteri forti, che in fondo hanno sempre saputo come si fa a
lasciar che la biglia giro dopo giro finisca per tornare a fermarsi
regolarmente sulla loro casella.
In questo romanzo si narra lo sgretolarsi dello spirito
rivoluzionario, e ciò che si rende molto bene è soprattutto la qualità
dell’aria respirata dai parigini e dai francesi negli anni tra il 1793 e
il 1795. È una resa che si nutre di pagine e di tempo, e di molte
vicende all’apparenza insignificanti che poco a poco guadagnano spessore
e prendono ad attrarsi come magneti dalla forza inarrestabile. E allora
eccolo, infine, l’altro grande protagonista dell’Armata dei sonnambuli,
la sua linfa, il fluido, direbbe quella gente, che lo attraversa da
cima a piedi. Eccolo: è il magnetismo, la disciplina nata col dottore e
filosofo tedesco Franz Anton Mesmer, progenitore dell’ipnosi e a suo
tempo bandito e bollato dalla scienza ufficiale come poco più di una
pratica da stregoni. I Wu Ming immaginano che il suo esercizio fosse
efficace e mirabolante, e che pochi uomini di grande arguzia e abilità
se ne sapessero servire a fini disparati, finanche sovversivi. E
prendendo spunto da avvenimenti, donne e uomini sicuramente o
presumibilmente reali, ne fanno il motore di tutto.
Un tutto che comincia con la testa di Luigi XVI che rotola giù dal
patibolo: i personaggi che daranno vita al dipanarsi del romanzo sono
già tutti lì, a osservare, tramare, arrivare troppo tardi o scappare
appena in tempo. Nei due anni successivi staremo dietro a un coraggioso e
spaccone attore italiano fuggito a Parigi sulle tracce di Goldoni, a
un’agguerrita sarta del focoso faubourg di Sant’Antonio, a un medico
esperto di magnetismo inviato dall’autorità a indagare su certi
misteriosi fatti in terra d’Alvernia, a un uomo ancor più misterioso
ricoveratosi di proposito nel manicomio di Bicêtre dove si fa largo
nelle menti e nelle gesta degli altri alienati. E a molta altra gente,
rivoluzionari e controrivoluzionari sempre sul crinale, sbirri e
nobildonne, bambini malati e predestinati, e poi naturalmente
Scaramouche, l’eroe mascherato che fa giustizia di speculatori e
squadracce reazionarie.
L’impalcatura narrativa è articolata e solida (se proprio volessimo
trovare qualcosa da ridire forse la scena finale sarebbe potuta essere
un po’ più lenta), il pathos costante, l’interesse e la
curiosità di chi legge non calano mai. E questo è già molto, ma non può
essere tutto. Il paradigmatico precipitare degli eventi, delle speranze e
delle conquiste eccita e deprime gli animi di chi ancora oggi vuole
azzardarsi a credere nella disposizione dell’uomo a tendere al
progresso, a costruirsi futuri migliori. La forza dell’Armata dei sonnambuli,
composto da una pluralità di lingue e di voci dal timbro pressoché
impeccabile, lingue che spesso si spingono al limite con risultati
davvero eloquenti e godibili, sta proprio nella sua capacità di
raccontare fatti avvincenti e, dietro o sotto di loro, sommovimenti
ideali e culturali. È il marchio di fabbrica dei Wu Ming, d’altronde, ma
stavolta la posta era altissima, perché grossomodo veniamo tutti da lì,
dalla Parigi di quegli anni, da quelle vittorie e soprattutto da quelle
sconfitte, e allora ancor più alto è il loro merito di essere riusciti
in quest’ambizioso proposito.
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