giovedì 31 gennaio 2013

La Rivoluzione di Živago



Bussarono alla porta, ma era così assorto nei suoi pensieri che non udì nulla. Nella dacia vicino a Mosca, Borìs Pasternàk ormai viveva quasi isolato da più di vent’anni. Era nato a Mosca nel 1890 e aveva già pubblicato raccolte di poesie e alcuni romanzi, ma adesso stava lavorando alla sua opera più importante, Il dottor Živago. Il romanzo sarà pubblicato nel 1957, prima in Italia che in Russia, e gli darà una fama mondiale, ma gli procurerà anche una dura condanna da parte del regime sovietico. Sarà espulso dall’Unione degli scrittori, dovrà rinunciare al premio Nobel assegnatogli nel 1958 e, fino alla morte avvenuta nel 1960, continuerà a vivere sempre più isolato in questa dacia, dove il silenzio era pressoché assoluto.
Eppure, non sentì neanche quando bussarono per la seconda volta.
Il problema lo stava assillando da qualche tempo: non riusciva a trovare la conclusione ideale per Il dottor Živago, “la mia fatica principale, più importante, l’unica di cui non mi vergogno, di cui rispondo senza paura”, scriverà in seguito.  Era quasi alla fine e gli sembrava che fosse già definito tutto… o quasi.

Il protagonista è Jurij Živago, esponente di una ricca famiglia ormai in disgrazia. Dotato di una forte sensibilità poetica, cresce in un ambiente di intellettuali; studia medicina a Mosca, dove conosce Tonja, figlia di ricchi possidenti, e la sposa. Poi però nell'ospedale militare, dove svolge il suo lavoro di medico, incontra Lara, impegnata come infermiera. Sono entrambi sposati e hanno figli. Il marito di lei ha abbandonato la famiglia per seguire la rivoluzione e Jurij ama ancora la moglie, ma esplode la passione. Lui però viene aggregato a un contingente dell’armata rossa e catapultato nel pieno dell'orrore della guerra civile. Avrebbe preferito non impegnarsi politicamente, ma la vicenda si svolge dagli inizi del secolo alla fine della 2ª guerra mondiale; la Russia vive le sue tre rivoluzioni e tutti ne sono travolti: “Pensate che tempi sono questi! E io e voi li viviamo! Cose tanto incredibili accadono solo una volta nell’eternità”. Dice Jurij a Lara.
Finalmente ritorna dal fronte e riesce a ritrovare Lara, mentre la moglie Tonja e il resto della famiglia sono espulsi dalla Russia. La vita diventa sempre più dura: l'inverno è particolarmente freddo e dove Lara e Jurij si sono rifugiati ci sono i lupi. Ma gli uomini, ora sono più terribili dei lupi, dice Lara. Ora tutti sono in pericolo. Con un inganno Jurij riesce a far partire Lara, ma lui è ormai un uomo finito. Eppure, come molti intellettuali russi, all'inizio anche il dottor Živago aveva visto nella rivoluzione la libertà: “La vera libertà, non quella a parole, non quella della rivendicazioni, ma una libertà caduta dal cielo, superiore a ogni aspettativa”. Ora però la rivoluzione bolscevica è diventata dominio assoluto; impone persino cosa pensare e costringe a mentire a se stessi: "Allora sulla terra russa venne la menzogna. Il male peggiore, la radice del male futuro fu la perdita di fiducia nel valore della propria opinione”.
Jurij non è un rivoluzionario, ma neanche un controrivoluzionario. Non accetta però l’ipocrisia del regime: “E' una malattia di questi ultimi tempi. Credo che le cause siano di ordine morale. Alla gran maggioranza di noi si richiede un'ipocrisia costante, eretta a sistema. Ma non si può, senza conseguenze, ogni giorno mostrarsi diversi da ciò che ci si sente: sacrificarsi per ciò che non si ama, rallegrarsi di ciò che ci rende infelici”. Inizia così il suo graduale rifiuto  dell’azione: “È vergognoso che un uomo come te vada a fondo così. Devi risvegliarti dall’apatia e dalla pigrizia, orientarti in ciò che ti circonda, occuparti di qualcosa di pratico”, gli dicono gli amici, ma Jurij sembra non ascoltare più nessuno e ormai Lara è lontana.
Trascorre i suoi ultimi anni a Mosca e muore per un attacco cardiaco. Rientrata in città, Lara sta immobile davanti alla sua bara, senza pensare, senza piangere. E poi, un giorno esce di casa e non torna più, perché viene arrestata per strada e scompare: “chissà dove, numero senza nome di qualche irrintracciabile elenco, in uno degli innumerevoli campi di concentramento comuni, o femminili, del Nord”.
Così si chiude la storia di Jurij e di Lara e così si chiudeva il romanzo, ma Pasternàk non era soddisfatto. Gli sembrava una conclusione troppo pessimista, che cancellava qualsiasi speranza. Aveva deciso quindi di aggiungere un epilogo: per la loro figlia Tanja e per i loro amici ormai invecchiati si apriva dopo la seconda guerra un futuro migliore: “Benché il sereno e la libertà attesi non fossero venuti, insieme con la vittoria, come si pensava, questo non aveva importanza: la libertà era nell’aria, in quegli anni, e ne costituiva l’unico contenuto storico”.
Neanche l’epilogo però lo convinceva.

Questa volta Boris sentì chiaramente i colpi alla porta. La lettera che gli consegnarono risolse ogni suo dubbio. Chi l’aveva scritto era appena tornato dall’inferno della Kolyma, fredda regione di paludi e di ghiacci della Siberia. Era lo scrittore Varlam Šalamov[1]. Arrivato alla Kolyma nel 1937, dopo essere già stato rinchiuso in un lager degli Urali per la sua opposizione a Stalin, vi era rimasto fino al 1953 e testimonierà nell’opera I racconti della Kolyma la sua tragica esperienza.
Aveva scritto a Pasternàk per ringraziarlo: “Conosco persone che sono sopravvissute grazie ai suoi versi… Ha mai pensato agli esseri umani che sono rimasti tali soltanto perché con sé avevano le sue parole, i suoi disegni e pensieri? I suoi versi venivano letti come preghiere. In quei versi c’erano una vita e una forza che, lo ripeto, hanno mantenuto umani degli esseri umani”.
Ecco la vera forza rivoluzionaria, pensò Pasternàk: la verità, la bellezza e la poesia possono salvare l’uomo dalla morte; per questo non si deve “dare la bellezza al nemico malvagio”. Aveva deciso: tutta l’opera sarebbe stata un’esaltazione della poesia e del mistero della vita e della religione e si sarebbe chiusa con la poesia, con la pubblicazione delle poesie scritte in un piccolo quaderno da Jurij, che però, mentre le scriveva, sentiva che “qualcosa di più grande di lui, al di sopra di lui, lo guidava: la situazione del pensiero e della poesia nel mondo”.

Francesco Scalambrino



[1] La corrispondenza tra Šalamov e Pasternàk è realtà, la circostanza specifica è una mia invenzione.   

martedì 29 gennaio 2013

Abbazie romaniche in Toscana e Provenza

L'abbazia di Sant'Antimo sorge nella solitaria Valle Starcia, che si trova pochi km a sud di Montalcino (SI). La chiesa abbaziale è uno dei monumenti in stile romanico più importanti della Toscana. L'edificio è ispirato ai modelli benedettini francesi e lombardi e si staglia grandioso in una campagna integra di rara bellezza. Anche se non ci sono prove certe, la leggenda vuole che a fondare l'abbazia fu l'imperatore Carlo Magno, nel 781, di ritorno da Roma. Con sicurezza si sa che Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno in un documento dell'epoca fa atto di donazione all'abbazia di beni e privilegi per cui il luogo di culto esisteva sicuramente in epoca carolingia.
Il nome dell'abbazia viene fatto risalire a Sant'Antimo di Arezzo, che fu martirizzato in queste campagne nel 352. Qui venne edificato un piccolo oratorio, nei pressi di una villa romana, la cui esistenza è provata da numerosi reperti in marmo e pietra riusati per costruire il monastero come il bassorilievo con la cornucopia sul lato nord del campanile o alcune colonne nella cripta.
Altre ipotesi fanno risalire il nome del complesso al Sacerdote Antimo, che visse e fu martirizzato nei pressi di Napoli. Un'altra leggenda narra che Papa Adriano I avrebbe consegnato le reliqui del santo a Carlo Magno che le donò all'abbazia nell'atto di fondazione.
Dalle origine leggendarie si siviluppa una potente abbazia benedettina arricchita dalle donazioni dei carolingi, di Berengario II e di Adalberto. L'abate di Sant'Antimo si fregia del titolo di Conte Palatino, ovvero consigliere del Sacro Romano Impero. Documenti papali e imperiali attestano la potenza dell'abbazia che nel medioevo arriva ad avere sotto la sua giurisdizione 38 chiese, numerosi castelli, poderi, mulini e monasteri dal grossetano al pistoiese passando per Siena e Firenze. Il possedimento principale della comunità era il vicino castello di Montalcino ove aveva residenza il Priore. Nel 1118 il Conte Bernardo degli Ardengheschi attraverso una serie di accordi, cede i suoi averi all'abbazia; l'importante atto di donazione è inciso sui gradini dell’altare maggiore. In quel periodo, sotto la guida dell’abate Guidone, la chiesa viene ampliata per assumere l'aspetto che ancora oggi vediamo. L'ispirazione del progetto fu tratta dalla grande abbazia benedettina di Cluny in Francia. Per realizzarla l'abate richiese proprio l’intervento di architetti transalpini.
Tutte le funzioni vengono cantate in gregoriano e in originale lingua latina.

Sénanque

Sylvacane
Thoronet












La fortezza vuota del narcisismo


Quando i confini tra noi e gli altri si irrigidiscono ci troviamo a difendere una fortezza. Vuota

 
In psicoanalisi conosciamo l’importanza del rapporto dell’essere umano con lo specchio. Come Lacan ci ha insegnato si tratta di una tappa cruciale dello sviluppo psichico: il bambino che ancora non conosce la sua immagine, che non ha mai visto il suo volto, incontra, grazie allo specchio, la sua identità riflessa apprendendo a costruirsi e a riconoscersi come un Io. È la virtù dialettica dello specchio a rendere possibile il riconoscimento della propria immagine attraverso l’immagine di un altro. 

La pratica del tiro con l’arco nello Zen illustra in un altro modo questa stessa logica: l’autocoscienza si costituisce solo quando la freccia scagliata dal mio arco raggiunge il suo bersaglio. Ma lo specchio non è solo il luogo dove possiamo realizzare il riconoscimento positivo della nostra immagine. È anche un luogo che facilmente mobilita fascinazioni intensamente morbose. Da una eccessiva fissazione incantatoria allo specchio sorge, infatti, la figura mitologica di Narciso che per rincorrere la rappresentazione ideale di se stesso, riflessa nelle acque, perde la sua vita. La passione narcisistica è una passione smisurata per la propria immagine che genera solo distruzione. Non a caso Lacan metteva in stretto rapporto la passione narcisistica per la propria immagine con la tendenza aggressiva. Non sopportiamo di non essere quell’immagine ideale di noi stessi che lo specchio proietta davanti a noi. Aggrediamo chi ci pare abbia realizzato quel miraggio per noi impossibile da realizzare. Diventiamo, così, persecutori dei nostri ideali esteriorizzati.
Quando la passione narcisistica si accentua eccessivamente, il mondo che è apertura illimitata alla differenza rischia di restringersi, di ridursi sterilmente alla superficie asettica dello specchio. Il mondo perde la sua bellezza per irrigidirsi in una identità chiusa su se stessa. Da tappa fondamentale per la costituzione dell’autocoscienza, lo specchio si trasforma così in una prigione. Non è questa una cifra del nostro tempo? Non viviamo forse in un mondo che sembra assomigliare sempre più ad uno specchio? È qualcosa che vediamo tanto nella vita individuale quanto in quella collettiva. [...]
Ho spesso ricordato che quando utilizziamo la metafora della “società liquida” dobbiamo anche far notare una tendenza altrettanto forte: quella del raggruppamento solido, autoreferenziale, dei simili, dell’identico. L’assenza di confini, di binari simbolici saldamente costituiti, di criteri normativi condivisi, che caratterizza l’aspetto “liquido” del nostro tempo, tende a generare, come una sorta di reazione sintomatica, la spinta all’esclusione del diverso, dello straniero, della differenza. Tende a radicalizzare una nozione di identità chiusa su se stessa, ad esasperare la spinta ad una “identificazione a massa” che abolisce la differenza. La violenza del femminicidio, del razzismo, del fondamentalismo religioso ed etnico, hanno la loro matrice comune proprio nell’adorazione narcisistica della propria immagine ideale e onnipotente che esclude tutto ciò che risulta ad essa eccentrico.
La psicoanalisi ci insegna che l’arroccamento sulla nostra identità, resa falsamente solida, è sempre indice di malattia. Questo accade nei gruppi sociali, nelle istituzioni come nella vita individuale. Quando il confine – che ha il compito cruciale di delimitare la nostra identità (senza il quale vi sarebbe il caos totale, il disordine della schizofrenia) – si irrigidisce, si inspessisce, si ingessa, la vita si ammala, perde la ricchezza dello scambio. Il mondo si riduce a uno specchio uniforme, a una superficie piatta che si limita a riflettere la presunta immagine ideale di noi stessi. Quando il confine cessa di essere, come direbbe Bion, “poroso”, può solo diventare una fortezza. E, come spesso e tristemente accade, le fortezze alla difesa delle quali gli umani si prodigano, sono, in realtà, desolatamente vuote.






Massimo Recalcati
Narciso in trappola nello specchio della tecnologia
la Repubblica, 27 gennaio 2013

lunedì 28 gennaio 2013

Tivoli, Berthe Morisot copia Corot



Berthe Morisot, 1863

E. Manet, Ritratto di Berthe Morisot, 1877

Berthe Morisot, Autoritratto, 1885




 La pittura di Berthe Morisot sembra graziosa, chiara, divertente: eppure, come scriveva Mallarmé, era un melange unico di "furia e nonchalance".(Sara Sesti)





domenica 27 gennaio 2013

Gulag cinese, la falsa notizia della chiusura

L’annuncio del governo cinese di una possibile fine del sistema della rieducazione attraverso il lavoro suscita numerosi interrogativi. Secondo le affermazioni attribuite al capo del Comitato affari politici e giuridici del Partito comunista cinese, Meng Jianzhu, riportate dall’agenzia di Stato cinese Xinhua, nel corso del 2013 potrebbe essere riformato l’oscuro universo dei campi di lavoro forzato in Cina. Il sistema della rieducazione attraverso il lavoro, denominato “laodong jiaoyang”, è stato introdotto nel 1957 dal governo cinese per reprimere ogni forma di dissidenza politica o religiosa nel paese. Nei campi di rieducazione finiscono i colpevoli di crimini "contro lo Stato" e di "terrorismo", quindi anche dissidenti e agenti di Paesi e gruppi ostili o al bando, da Taiwan ai separatisti dello Xinjiang, fino ai Falun Gong.

(Detenuti nel campo di Chongqing durante una sessione di rieducazione, 30 maggio 2005, China Photos/Getty Images)
Cifre ufficiali, riferite dalla stessa agenzia, parlano attualmente di 160.000 detenuti nei 350 campi di detenzione tuttora aperti, ma attivisti e organizzazioni per la difesa dei diritti umani riportano cifre che si aggirano intorno ai 300.000 detenuti. Il controverso programma legato ai campi di lavoro permette alla polizia di detenere i sospettati per un massimo di quattro anni, anche senza processo. Non è chiaro come, dopo la riforma ora annunciata, sarà applicata la rieducazione attraverso il lavoro prevista dalla legge cinese, né cosa accadrà alle persone attualmente detenute nelle strutture.
All’annuncio fatto via Twitter dall’agenzia Xinhua non è infatti seguita alcuna spiegazione concreta di come il governo cinese vorrebbe riformare il sistema del “laojiao”. Molti attivisti per i diritti umani interpretano questi segnali discordanti all’insegna della retorica di regime nell'ambito del propagandato afflato riformista del nuovo leader cinese Xi Jinping, succeduto nel novembre scorso a Hu Jintao. Fino alla ratifica ufficiale da parte del comitato permanente del Congresso, rimane quindi il mistero sulle misure alternative che il governò deciderà di prendere.
C’è chi, come Maya Wang, ricercatrice presso Human Rights Watch, non crede all’annunciato cambio di rotta: "Di certo l'annuncio è un passo positivo in sé, ma siamo ancora molto lontani dal capire cosa ci riserva il futuro. Il governo intende fare dei cambiamenti puramente estetici al sistema, dandogli un altro nome? Se non viene abolito del tutto, il sistema ne creerà un altro e non si farà nulla per fermare gli abusi quotidiani". In una intervista alla CNN, Sophie Richardson, direttrice dell’osservatorio sulla Cina di Human Rights Watch, ha sostenuto che potrebbe trattarsi di un primo simbolico passo verso riforme strutturali, ma al tempo stesso ha messo in guardia sul rischio di una possibile operazione di facciata a scopi propagandistici destinata a lasciare immutata la natura del sistema del “laojiao”.


(Detenuti del campo di rieducazione di Tuanhe nei pressi di Pechino nel 1986)
In tempi recenti, il programma del “laojiao” è stato utilizzato anche per colpire chi protesta pacificamente contro decisioni giuridiche o politiche. Ad agosto scorso Tang Hui, una donna originaria della provincia dello Hunan, è stata internata in un campo di lavoro per aver richiesto con insistenza una pena più dura per lo stupratore della propria figlia undicenne.
Oscure rimangono per il momento le condizioni di vita e di lavoro dei detenuti nei campi di rieducazione forzata. Prima delle ultime festività natalizie, ha fatto il giro del mondo la notizia della lettera trovata da Julie Keith, una donna dell’Oregon, all’interno di una confezione di decorazioni fabbricate in Cina. Il messaggio proveniva dall’unità 8, dipartimento 2, del campo di lavori forzati di Masanjia, nella provincia cinese del Shenyang. Scritto in inglese stentato, con alcuni caratteri cinesi, questo messaggio lanciato nel vuoto chiedeva di essere inoltrato all’organizzazione mondiale dei diritti umani e denunciava le dure condizioni di vita e di lavoro nel campo: 15 ore di lavoro al giorno, senza alcuna interruzione né festività per un compenso di 10 yuan al mese.

If you occasionally buy this product, please kindly resend this letter to the World Human Right Organization. Thousands people here who are under the persicution of the Chinese Communist Party Government will thank and remember you forever. People who work here have to work 15 hours a day without Saturday, Sunday break and any holidays. Otherwise, they will suffer torturement, beat and rude remark. Nearly no payment (10 yuan/1 month). People who work here, suffer punishment 1-3 years averagely, but without Court Sentence (unlaw punishment). Many of them are Falun Gong practitioners, who are totally innocent people only because they have different believe to CCPG. They often suffer more punishment than others.



Nel libro “I racconti della Kolyma”, Varlam Šalamov ha descritto meglio di chiunque altro l’inferno dei campi di rieducazione in Unione Sovietica, segnati dallo sfruttamento estremo del lavoro, dalla solitudine, dalla disperazione. Anche l’oscuro universo del “laojiao” cinese potrebbe presto restituire simili testimonianze, di chi ha resistito fisicamente e moralmente, conservando la dignità, la memoria, la parola.

Luciano Trincia
blog il tornio, Linkiesta, 9 gennaio 2013
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Luciano Trincia è uno storico italiano che dal 1992 svolge la sua attività di insegnamento e di ricerca all’estero. Attualmente conduce una ricerca sulla formazione dello Stato nazionale in Germania per la Sapienza Università di Roma. Ha pubblicato in inglese, in francese e in tedesco i risultati dei suoi studi. In Italia, fra gli altri, sono apparsi i volumi Emigrazione e diaspora (Roma 1997), Il nucleo tedesco (Brescia 2001), Per la fede, per la patria (Roma 2002), Conclave e potere politico (Roma 2004), L’odore del Novecento (Roma 2011).

Il volto dell'altro. Lévinas






Intervista di Renato Parascandolo e Sergio Benvenuto a Emmanuel Lévinas


Uno dei concetti più suggestivi del suo pensiero è quello del "volto" come espressione di un'alterità assoluta e inviolabile...

Su questo tema è avvenuta la mia rottura con Heidegger. Era hitleriano e non ha colto il valore della dignità dell'uomo e dell'"altro". Ma io sono ebreo ed essere ebrei non significa soltanto conoscere il Talmud, significa aver sofferto come un ebreo. È a questo che bisogna arrivare. Aver sofferto come un ebreo. E di questa sofferenza una piccola responsabilità è da attribuire a un certo Hitler...

Lei parla di bontà, di amore per l'altro, ma si sa che in nome della bontà sono stati commessi atroci delitti, che i buoni sentimenti hanno provocato spesso dei disastri.

Bisogna vedere come la si intende...Io faccio una differenza tra bene e bontà, tra un ideale di bene che può essere prescritto, che diventa ideologia, che diventa movimento politico e poi istituzione e questa bontà iniziale, debole, senza difesa, senza pensiero, in cui non c'è ancora una ideologia della bontà L'altro uomo non mi è indifferente, l'altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola "riguardare". In francese si dice che "mi riguarda" qualcosa di cui mi occupo, ma "regarder" significa anche "guardare in faccia" qualcosa, per prenderla in considerazione. Io chiamo appunto questa "apparizione" dell'altro, il volto umano. Il volto umano è la testimonianza non del trionfo istituzionale del bene, ma della possibilità del bene, della possibilità per l'uomo di essere buono verso l'altro uomo o piuttosto della possibilità di leggere sul volto dell'altro uomo la vocazione, il richiamo alla bontà. Per me questa è la parola di Dio. Io trovo Dio nell'etica, non ho alcuna altra idea di Dio valida. È qui che trovo il senso di qualcosa che interrompe bruscamente il corso delle cose: il fatto che l'uno si occupa dell'altro è il solo momento in cui c'è un'alterità totale, un'alterità che non rientra nell'ordine che io controllo, che non diventa mia. Anche il mio schiavo, in quanto uomo, mi sfugge e perciò è assolutamente altro. Trovo che nel momento in cui sento questa alterità come ordine muto, come comandamento, non dico che sia di Dio, ma certo non c'è parola più forte.

http://www.donatoromano.it/interviste/43.htm


Levinaslëvinà›, Emmanuel. - Filosofo lituano naturalizzato francese  (Kaunas 1905 - Parigi 1995); prof. all'École normale israélite orientale (1946-63), alle univ. di Poitiers e di Paris-Nanterre e infine alla Sorbona (1973-75). Muovendo da studî husserliani (Théorie de l'intuition dans la phénoménologie de Husserl, 1930), trasse dalla fenomenologia gli strumenti metodici per un pensiero che considera l'etica come inglobante ogni ontologia. Opere principali: Totalité et infini (1961); Difficile liberté. Essai sur le judaïsme (1963); L'humanisme de l'autre homme (1972); Autrement qu'être, ou au-delà de l'essence (1974); Noms propres (1976; trad. it. 1984), raccolta di saggi di critica letteraria; Du sacré au saint: cinq nouvelles lectures talmudiques (1977; trad. it. 1985); De Dieu qui vient à l'idée (1982; trad. it. 1986); Transcendance et intelligibilité (1984; trad. it. 1990); Dieu, la mort et le temps (1992; trad. it. 1996); Altérité et transcendance (1995; trad. it. 2006), raccolta di saggi e interviste. (Treccani)