L'economia del Prozac
la premessa
Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac
Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il
crac è figlio di una cultura che «premiando l’ottimismo ha indebolito la
capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al
pericolo».
la conclusione
Come si sa, il Prozac è la pillola
della felicità; e dunque il testo di Collinson si potrebbe anche
intitolare «l’economia del Prozac». E un indiano rincara la dose: «Se
non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso
per idioti» (Jaggi Vasudev). Bankitalia ha testé peggiorato le stime sul
Pil (Prodotto interno lordo) che nel 2013 scenderà dell’1% e
altrettanto scenderà l’occupazione. Che in verità scenderà di più,
perché le statistiche non contano gli scoraggiati, chi non fa nemmeno
domanda di lavoro. E il livello della nostra disoccupazione giovanile è
davvero intollerabile.
Le imminenti elezioni non ci illumineranno su
niente di tutto questo.Ma urge lo stesso occuparsene. Da noi vige
ancora la corsa per fabbricare «tutti dottori». Ma il grosso dei dottori
che produciamo e che andremo a produrre saranno inutili. O anche
peggio, perché abbiamo troppe università scadenti, di paternità
clientelare, che andrebbero chiuse. Alle nuove generazioni occorrono
istituti tecnici e scuole di specializzazione collegati alla «economia
verde», al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle
piccole cose. Altrimenti saremo sempre più disoccupati.
Corriere della Sera, 23 gennaio 2013
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«È giusto tornare alla terra?»
Goffredo Fofi
L'Unità, 20 agosto 2011
Negli anni di un’altra crisi del capitalismo, quelli che avvicinarono
alla II Guerra mondiale, uscirono due film con uno stesso titolo: Nostro
pane quotidiano. Il primo era diretto da un grande regista dimenticato,
Piel Jutzi, e parlava dei disoccupati nella Repubblica di Weimar, a un
pelo dall’avvento di Hitler, senza farsi nessuna illusione sul futuro.
Il secondo era statunitense e pieno di entusiasmo, diretto e prodotto
dal vitalistico King Vidor che era stato regista di uno degli ultimi
capolavori del muto, un cupo film su La folla anonima e dolente della
grande città, ed esaltava ora il ritorno alla terra di un gruppo di
giovani senza lavoro, cantava la nascita di una comune agricola in
chiave New Deal. In quegli stessi anni, lo stalinismo decimava i kulaki e
deportava intere popolazioni in nome della collettivizzazione e il
fascismo difendeva le città innalzando risibili inni a un’ideale vita
contadina senza fatica e senza sfruttamento («Voglio vivere così/ col
sole in fronte/ e felice canto/ beatamente» gorgheggiavano i contadini
nei film del ventennio).
Nel dopoguerra ci furono in Italia riforme agrarie decisive, però
sopravanzate dall’evoluzione di un’economia che favorì l’abbandono delle
campagne. Esse deperirono e si spopolarono (ho riletto di recente un
bellissimo poemetto di Volponi sulle campagne del dopoguerra,
L’Appennino contadino) mentre mutavano nel mondo le coltivazioni e i
modi di coltivare secondo i piani e gli interessi della grande finanza e
dei grandi mercati. Ai quali è imputabile oggi, per esempio, la
tremenda carestia del Corno d’Africa, e saranno imputabili quelle che,
altrove, certamente verranno. Eppure, negli anni, c’è sempre stata una
piccola corrente contraria che ha attuato, senza cantori e senza
pubblicitari al suo servizio, un «ritorno alla terra» sano e benemerito,
cominciando da coloro che, secondo ideologie vagamente hippies, si
trasferirono in campagna dopo il fallimento dei movimenti giovanili
attorno al ’70. Non tutti resistettero, perché lavorare la terra era molto più duro di
quel che pensavano, ma molti piantarono radici e dettero vita ad aziende
agricole efficienti, o anche – aderendo a nuove mode – ad astuti
agriturismi. Ma il ritorno alla terra è stato ed è un fenomeno mondiale,
benché limitato, un fenomeno strisciante e sotterraneo e però,
fortunatamente, di dimensioni crescenti come ha documentato qualche anno
fa il saggio di Silvia Pérez-Vitoria (Il ritorno dei contadini, Jaca
Book) con un’utilissima prefazione storico-politica di Pier Paolo Poggio
che ricordava il disprezzo per i contadini della cultura borghese e
anche, purtroppo, di quella comunista – che privilegiò e idealizzò il
proletariato di fabbrica vituperando o combattendo tutti gli altri – i
contadini, gli artigiani, gli impiegati – come se la lotta di classe non
riguardasse anche loro.
Ho pensato a tutto questo e ad altro ancora dopo l’incontro con una
coppia di conoscenti che di recente ha recuperato una cascina
abbandonata, e con un giovane amico che, ottimamente laureato in
africanistica ma condannato all’avvilimento del precariato, mi ha detto
di aver ripreso il mestiere che era stato dei suoi e di aver aperto una
bottega di falegname. Non toccati dalle smanie di successo e di soldi
che muovono, con esiti spesso disastrosi, milioni di giovani laureati
che hanno creduto alle lusinghe pubblicitarie del luna park detto
cultura, logorandosi in una sterile concorrenza interna dentro un
mercato bacato e una storia nemica, questo giovane ha fatto, credo, una
scelta giusta ed esemplare, che potrebbe venir ripetuta da molti altri.
Forse è proprio nella risposta individuale e di piccoli gruppi alla
sfacciataggine del sistema economico attuale, che precipita tutti in una
crisi di lunga durata e i cui effetti sono imprevedibili, che tanti
altri giovani potrebbero individuare qualche strada di giusta
sopravvivenza di fronte a un destino di disoccupazione o allo
sfruttamento della sottoccupazione e alle frustrazioni che ne
conseguono.
L’unico consiglio che è ancora possibile dare ai più giovani è di non
fidarsi di noi adulti, per convincersene basta che guardino che razza di
società abbiamo edificato o accettato.
Lottare, anzitutto, per i giusti diritti di chi non possiede e per i
propri, ma anche contare sulle proprie forze, ripartire da sé in un
contesto in cui nulla di buono hanno da aspettarsi dalla classe
dirigente – finanziaria, economica, politica, culturale – che pretende
guidarli, dai suoi inganni e dalle sue interminabili e colossali
ingiustizie. E costruire reti sociali nuove, e legami di
produzione-distribuzione. In un rapporto il più possibile diretto e in
qualche modo di scambio. Questo in parte già avviene, perché non sono
poche le reti che legano tra loro esperienze considerate sinora come
economicamente marginali o folkloriche, ma occorre difendersi dalle
mistificazioni di chi già trova il modo di speculare anche su questo,
costruendo non delle alternative e dei contropoteri bensì dei nuovi
poteri che si aggiungono ai vecchi.
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